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Il soggetto licenziato senza giusta causa deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre il pregiudizio subìto

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 21 settembre 2012, n.16076

“Il soggetto licenziato senza giusta causa deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre il pregiudizio subìto” : è il principio sancito dalla Cassazione con la Sentenza n. 16076/2012.

Il caso riguarda un lavoratore licenziato per insubordinazione, il quale adiva il Tribunale di Roma chiedendo la reintegra nel posto di lavoro e la condanna di controparte al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento.

Il Tribunale di Roma ordinava la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e condannava la società al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate liquidando la somma di euro (Omissis).

Ma la Corte di appello di Roma riduceva il relativo quantum alla somma di euro (omissis) pari alle retribuzioni maturate, detratto l’aliunde perceptum.

A fondamento di tale decisum la Corte del merito poneva il rilievo secondo il quale, in applicazione del secondo comma dell’art. 1227 cc, tenendosi conto delle condizioni del mercato del lavoro e di quelle soggettive del lavoratore, minore di trentadue anni al momento del licenziamento, doveva ritenersi che nell’arco di tempo di tre anni dall’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro il lavoratore avrebbe potuto trovare un’altra occupazione se si fosse diligentemente attivato in tal senso.

Né, precisava il giudice di appello, il lavoratore aveva offerto in contrario alcuna prova in ordine alla continuativa permanenza del suo stato di assoluta disoccupazione, né risultava che, dopo il licenziamento, il lavoratore si fosse iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti a un posto di lavoro, né che, adoperandosi per la ricerca delle stesso, era rimasto ugualmente privo di occupazione.

Avverso tale pronuncia, il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione, deducendo che ai fini della riduzione del danno conseguente al licenziamento illegittimo, grava sul datore di lavoro l’onere di provare la dedotta mancata diligenza nel reperimento di altra occupazione, né è sufficientemente motivata, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata laddove afferma che avuto riguardo delle condizioni di mercato e di quelle soggettive del lavoratore che un soggetto di oltre trenta anni dovrebbe sempre e trovare un occupazione nell’arco di tre anni.

Le censure sono infondate.

La Corte analizza i due commi dell’art. 1127 cod.civ.

L’elaborazione giurisprudenziale della Corte sulla interpretazione dell’art. 1227 cc è pervenuta ad affermare conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza.

Quanto al contenuto dell’ordinaria diligenza esigibile, l’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche a evitare le conseguenze dannose.

La norma che onera il danneggiato a uniformarsi a un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa “evitabilità” del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 c.c., applicabile a entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico.

Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla “ordinaria” e non “straordinaria” diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, quali esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici.

In applicazione degli esposti principi alla materia in oggetto, la Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subìto.

Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, in quanto ha basato il proprio decisum sul rilievo secondo il quale non era risultato che, dopo il licenziamento, il lavoratore si era iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti a un posto di lavoro, né che, adoperandosi per la ricerca dello stesso, era rimasto ugualmente privo di occupazione.

In definitiva, l’onere della ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione deve ritenersi assolto dal lavoratore con l’iscrizione nelle liste di collocamento, mentre spetta al debitore provare ulteriori elementi significativi della mancanza dell’ordinaria diligenza.

“Il soggetto licenziato senza giusta causa deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre il pregiudizio subìto” : è il principio sancito dalla Cassazione con la Sentenza n. 16076/2012.

Il caso riguarda un lavoratore licenziato per insubordinazione, il quale adiva il Tribunale di Roma chiedendo la reintegra nel posto di lavoro e la condanna di controparte al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento.

Il Tribunale di Roma ordinava la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e condannava la società al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate liquidando la somma di euro (Omissis).

Ma la Corte di appello di Roma riduceva il relativo quantum alla somma di euro (omissis) pari alle retribuzioni maturate, detratto l’aliunde perceptum.

A fondamento di tale decisum la Corte del merito poneva il rilievo secondo il quale, in applicazione del secondo comma dell’art. 1227 cc, tenendosi conto delle condizioni del mercato del lavoro e di quelle soggettive del lavoratore, minore di trentadue anni al momento del licenziamento, doveva ritenersi che nell’arco di tempo di tre anni dall’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro il lavoratore avrebbe potuto trovare un’altra occupazione se si fosse diligentemente attivato in tal senso.

Né, precisava il giudice di appello, il lavoratore aveva offerto in contrario alcuna prova in ordine alla continuativa permanenza del suo stato di assoluta disoccupazione, né risultava che, dopo il licenziamento, il lavoratore si fosse iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti a un posto di lavoro, né che, adoperandosi per la ricerca delle stesso, era rimasto ugualmente privo di occupazione.

Avverso tale pronuncia, il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione, deducendo che ai fini della riduzione del danno conseguente al licenziamento illegittimo, grava sul datore di lavoro l’onere di provare la dedotta mancata diligenza nel reperimento di altra occupazione, né è sufficientemente motivata, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata laddove afferma che avuto riguardo delle condizioni di mercato e di quelle soggettive del lavoratore che un soggetto di oltre trenta anni dovrebbe sempre e trovare un occupazione nell’arco di tre anni.

Le censure sono infondate.

La Corte analizza i due commi dell’art. 1127 cod.civ.

L’elaborazione giurisprudenziale della Corte sulla interpretazione dell’art. 1227 cc è pervenuta ad affermare conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza.

Quanto al contenuto dell’ordinaria diligenza esigibile, l’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche a evitare le conseguenze dannose.

La norma che onera il danneggiato a uniformarsi a un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa “evitabilità” del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 c.c., applicabile a entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico.

Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla “ordinaria” e non “straordinaria” diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, quali esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici.

In applicazione degli esposti principi alla materia in oggetto, la Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subìto.

Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, in quanto ha basato il proprio decisum sul rilievo secondo il quale non era risultato che, dopo il licenziamento, il lavoratore si era iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti a un posto di lavoro, né che, adoperandosi per la ricerca dello stesso, era rimasto ugualmente privo di occupazione.

In definitiva, l’onere della ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione deve ritenersi assolto dal lavoratore con l’iscrizione nelle liste di collocamento, mentre spetta al debitore provare ulteriori elementi significativi della mancanza dell’ordinaria diligenza.