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La Corte EDU e il margine di apprezzamento applicato ai simboli religiosi: due pesi per una stessa misura

La Corte EDU e il margine di apprezzamento applicato ai simboli religiosi: due pesi per una stessa misura
La Corte EDU e il margine di apprezzamento applicato ai simboli religiosi: due pesi per una stessa misura

Questo articolo si propone di analizzare la dottrina del margine di apprezzamento come definita dalla giurisprudenza della Corte EDU. Dopo un’iniziale introduzione volta ad esaminare il concetto di margine di apprezzamento in generale, verrà approfondita la sua applicazione nell’ambito specifico della libertà religiosa come stabilita all’articolo 9 CEDU. Quest’analisi verrà svolta portando all’attenzione del lettore in particolare tre casi riguardanti l’esposizione di simboli religiosi: Şahin v. Turchia (2001), Dahlab v. Svizzera (2005) ed infine Lautsi v. Italia (2011). I primi due casi riguardano il velo islamico in due diversi contesti pubblici (scuola primaria ed università) mentre l’ultimo caso riguarda l’esposizione del crocifisso in una scuola pubblica. L’obiettivo è di fornire un’analisi critica volta ad evidenziare le discrepanze nell’applicazione della dottrina margine di apprezzamento in questi casi.

La dottrina del margine di apprezzamento: cenni generali

La dottrina (e la conseguente applicazione) del margine di apprezzamento si basa su alcuni principi cardine[1]: la CEDU stabilisce degli standard universali all’interno dei quali è lasciato agli stati membri un margine di scelta;  la Corte deve rispettare le scelte compiute dagli stati fintantoché queste non collidono con questi standard universali; l’ampiezza del margine lasciato alla scelta compiuta dalle autorità nazionali non è libera ma varia in base ad alcuni fattori. Questi fattori comprendono, ad esempio, la natura del diritto in questione: se si tratta di un diritto assoluto il margine di apprezzamento concesso sarà più ridotto e così via nella gerarchia dei diritti stabilita dalla CEDU. Un criterio rilevante, soprattutto nei casi riguardanti la libera manifestazione di pensiero, è quello dell’esistenza di un consenso comune tra gli stati membri della CEDU riguardo alla strutturazione e alla protezione accordata al diritto in questione. Margine e consenso sono legati da una relazione di proporzionalità indiretta: ad una omogeneità di consenso maggiore corrisponderà un margine di apprezzamento più ristretto e viceversa. Altri criteri sono, ad esempio, la natura dei doveri statali, la natura dello scopo perseguito dall’azione statale e le circostanze esterne (situazioni di emergenza, processi di transizione democratica, ...).

Il concetto stesso di margine di apprezzamento si basa sulla constatazione che le autorità nazionali, essendo in contatto diretto e permanente con le “forze vive” dei loro paesi, sono meglio collocate per valutare i fattori che circondano le situazioni dove viene compresso l’esercizio di un determinato diritto. [2]  In realtà, questa è una logica pericolosa perché “[…] rispetto ad una Corte esterna le “autorità nazionali” sono più sensibili alla cultura maggioritaria, mentre i diritti sono fondamentalmente contro-maggioritari, dato che le maggioranze dispongono già dello strumento legislativo per soddisfare i propri bisogni e desideri”.[3]

Il margine di apprezzamento può quindi essere definito allo stesso tempo come quella misura di discrezionalità concessa agli stati membri nell’implementazione della Convenzione e anche come il modo attraverso il quale la Corte di Strasburgo cerca di bilanciare la sovranità degli stati membri con il rispetto degli obblighi stabiliti dalla convenzione. [4] È compito della Corte vigilare su quella che può essere ritenuta un’ “alchimia delicatissima”[5]: universalismo e diversità, quest’ultima intesa come comprensiva di contesti normativi e culturali degli stati membri della Convenzione.

Il concetto di margine di apprezzamento è strettamente legato al principio di sussidiarietà vigente nel sistema della Convenzione Europea dei Diritti Dell’Uomo. Sussidiarietà da intendersi in modo diverso rispetto al principio funzionante nell’Unione Europea dove vige un sistema di concorrenza di competenze: il compito di assicurare che i diritti sanciti nella Convenzione vengano rispettati spetta alle autorità degli Stati membri  e non alla Corte. Soltanto in caso di incapacità delle autorità nazionali la Corte potrà intervenire.

Il risultato dell’applicazione del margine di apprezzamento comporta una legittimazione da parte della Corte della limitazione di alcuni diritti fondamentali in ragione della salvaguardia dell’identità nazionale di un determinato stato o a tutela di altre esigenze statali. La dottrina del margine di apprezzamento è stata molto frequentemente applicata alla libertà di espressione: il primo caso in cui vi si fece riferimento è il noto caso Handyside v. United Kingdom[6] relativo alla definizione di morale da parte di uno stato e la pubblicazione di un libro ritenuto osceno. Oltre alla libertà di espressione, il margine di apprezzamento è stato applicato anche in materia di rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU), di libertà di riunione e associazione (art. 11 CEDU) e di diritto al matrimonio (art. 12 CEDU).  La dottrina del margine di apprezzamento non è espressamente riconosciuta nel testo della CEDU ma la sua operatività può essere implicitamente desunta da tutte quelle disposizioni al suo interno che rimandano alla legislazione nazionale per le limitazioni o le modalità di esercizio di determinati diritti: è qui che sarà data allo Stato la possibilità di scelta e valutazione, che, come abbiamo visto, è elemento cardine del margine [7].

Margine di apprezzamento e simboli religiosi: il velo islamico (casi Dahab e Sahin) e il caso Lautsi

Al fine di comprendere l’esame svolto dalla Corte nei casi che verranno esposti a breve, è necessario fare un’ulteriore osservazione: la Corte ha il compito di controllare il margine di apprezzamento preso dallo Stato.In materia di libertà religiosa, quando la Corte si appresta a verificare se la misura restrittiva dei diritti adottata da uno Stato è legittima o no, e quindi se ricade nel margine di apprezzamento di quello Stato, essa dovrà verificare se i parametri stabiliti dal secondo comma dell’articolo 9 CEDU sono rispettati. Queste condizioni di legittimità sono: la previsione legale della misura limitativa del diritto; lo scopo legittimo perseguito dalla limitazione (pubblica sicurezza; ordine, saluta e morale pubblica; protezione dei diritti e delle libertà altrui); la proporzionalità della misura rispetto allo scopo [8]. La proporzionalità fa riferimento al fatto che la misura intrapresa deve essere necessaria in uno stato democratico. La Corte effettuerà il cosiddetto proportionality test e considererà, tra gli altri, l’impatto della misura sul diritto in questione (lo Stato avrebbe potuto intervenire in una misura meno restrittiva per il diritto in questione? È la cosiddetta proporzionalità strictu sensu), i motivi per l’interferenza (che deve essere giustificata da un bisogno sociale imperativo) ed infine se la diminuzione del diritto era proporzionale o no al valore degli altri interessi protetti (bilanciamento).[9][10]

I primi due casi sono del 2001 e del 2005 e riguardano lo hijab. Nel caso Dahlab v. Svizzera, la ricorrente era una maestra della scuola elementare convertita all’Islam alla quale era stato vietato indossare il velo in classe dal Direttorato Generale per l’Educazione Primaria nel cantone di Ginevra, basandosi sul fatto che costituiva un “[…] obvious means of [religious] identification imposed by a teacher on her pupils, especially in a public, secular education system […]” ed in quanto tale violava l’articolo 6 del “Public Education Act”. Nel secondo caso invece, Sahin v. Turchia, la ricorrente era una studentessa di medicina iscritta al quinto anno dell’università di Istanbul trasferitasi dopo quattro anni di studi svolti presso l’università di Bursu (durante i quali aveva regolarmente indossato il velo senza alcun problema). L’università, nel 1998, proibiva con un atto amministrativo l’ammissione di studentesse indossanti il velo alle lezioni e agli esami. Sahin veniva sottoposta a procedimento disciplinare e sospesa per un semestre.

Entrambe le donne lamentavano una violazione del loro diritto di libertà religiosa in particolare nell’accezione di libertà di manifestare la loro religione ex articolo 9 CEDU. La cosa che colpisce in queste pronunce è che non viene discusso se il divieto di indossare il velo in entrambi i casi fosse la misura meno restrittiva disponibile per ottenere l’obiettivo dello stato (che, nei entrambi i casi, era individuato nella difesa del principio di neutralità, del principio di pluralismo e di laicità) o comunque se la misura fosse strettamente necessaria per proteggere diritti altrui. Il bilanciamento viene fatto tra concetti astratti come secolarismo e democrazia in antitesi al significato religioso del velo o al principio di uguaglianza tra uomo e donna. Si deduce come le pratiche religiose islamiche siano intese come intrinsecamente pericolose per l’ordine pubblico, indipendentemente da alcuna dimostrazione pratica.[11]

Analizzando ora l’utilizzo del margine di apprezzamento in queste due sentenze, nella sentenza Dahlab la Corte dichiara inammissibile la richiesta della ricorrente. La corte riprende la dottrina del margine di apprezzamento nel controllare la sussistenza del requisito di necessità delle misure intraprese dallo stato: secondo la Corte Federale Svizzera la misura era giustificata perché il velo costituiva un “powerful religious symbol[12]” che in quanto tale era di potenziale interferenza per l’esercizio della libertà religiosa dei suoi studenti ed in contrasto con il principio di neutralità confessionale delle scuole. Sia la Corte Federale Svizzera che la Corte di Strasburgo parlano di “potenziale interferenza” perché negli anni durante i quali l’insegnante aveva portato il velo non vi erano state proteste né da parte dei genitori dei suoi alunni né da parte di altri membri del corpo didattico. Allo stesso modo la Corte riconosce che non c’era nessuna prova del fatto che la sig. Dahlab stesse promovendo o discutendo le sue credenze religiose: il gesto di indossare il velo viene ritenuto di per sé come una violazione del principio di neutralità confessionale in quanto capace di stimolare domande di curiosità nei bambini. Quindi, secondo la Corte EDU, un simbolo capace di stimolare curiosità riguardo ad una religione è da considerare come provocatorio e rischioso per eventuali conflitti.

La Corte di Strasburgo decide di sbilanciarsi, esprimendo un giudizio negativo riguardo al significato del velo islamico come simbolo religioso: “ […] it […] appears difficult to reconcile the wearing of an Islamic headscarf with the message of tolerance, respect for others and, above all, equality and non-discrimination that all teachers in a democratic society must convey to their pupils. […]”[13].  

In questa sentenza il requisito della necessità è qui inteso in senso molto espansivo, addirittura preventivo[14] in un’ottica di difesa della pace tra le confessioni religiose e della neutralità confessionale dello Stato.

In Sahin v. Turchia[15], l’università di Istanbul impone il divieto di indossare il velo all’università sostenendo che questo rappresenti un’ accezione di Islam politica che è perciò in contrasto con il principio di laicità dello stato. Inoltre veniva affermato, come in Dahlab, che il velo fosse un simbolo in contrasto con il principio di uguaglianza tra uomo e donna.

La Corte di Strasburgo qui dichiara che  lo stato turco è legittimato a prendere posizione contro movimenti politici estremisti per proteggere i diritti altrui e per mantenere l’ordine pubblico. Una volta individuati come legittimi gli scopi perseguiti, delega allo stato il compito di decidere se ogni persona che indossa il velo in un’istituzione pubblica lo fa perché vuole affermare una determinata ideologia politica. Nel momento in cui lo stato deciderà di assimilare il velo islamico all’islam politico,questo costituirà automaticamente un rischio per la democrazia e quindi renderà una misura restrittiva del diritto di libertà religiosa necessaria. Nel suo ragionamento, la Corte non considera nemmeno se la misura in concreto era proporzionale affermando che non è compito della Corte applicare il criterio di proporzionalità se questo risulterebbe in un render vane le regole interne di una istituzione  (l’Università di Istanbul). Afferma anche che l’articolo 9 CEDU non conferisce a degli individui il diritto di ignorare delle disposizioni che sono giustificate da un fine legittimo solo in luce del fatto che essi stanno agendo secondo un credo religioso. Il margine di discrezionalità nel caratterizzare determinate circostanze, che viene concesso qui allo stato turco, risulta ampissimo. 

In Sahin (come in Dahlab ed in Lautsi)viene accordato un margine di apprezzamento vasto poiché non è  rinvenibile in Europa uno standard di consenso  nel disporre dei simboli religiosi all’interno di istituzioni educative e, più in generale, riguardo la concezione di religione nella società. A questo punto risulta di massima rilevanza la dissenting opinion del giudice Tulkiens nella vicenda Sahin[16]. Innanzitutto viene affermato che la  mancanza di consenso in Europa non può essere empiricamente provata poiché in nessuno degli stati il divieto di indossare simboli religiosi è esteso alle università, luogo di giovani adulti che in quanto tali sono meno inclini ad essere persuasi. Inoltre il controllo vero e proprio della Corte sul margine sembra essere del tutto assente, in quanto questa si limita ad effettuare un collegamento tra la misura intrapresa e il specifico background storico della Turchia. Per quanto riguarda il fatto che il velo rappresenti  un simbolo di alienazione del sesso femminile (e che quindi il divieto di indossarlo sia un modo per promuovere l’uguaglianza tra i due sessi), il giudice Tulkiens sottolinea giustamente come il velo venga indossato per una varietà di ragioni. Non rappresenta necessariamente un mezzo di sottomissione delle donne agli uomini e quella che compie la Corte è un’analisi superficiale, poiché carente di un elemento essenziale: l’opinione delle donne, sia di quelle che indossano il velo che quelle che decidono di non indossarlo. 

Elemento comune in Dahab, Sahin e, come si vedrà, anche in Lautsi, è il concetto ambiguo di powerful external symbol: in Sahin la corte richiama quanto affermato in Dahab e cioè che il velo rappresenta un simbolo esteriore forte. Un simbolo che, a parere della Corte, viene imposto alle donne sulla base di un precetto religioso difficilmente conciliabile col principio di uguaglianza tra i sessi e con un messaggio di tolleranza, rispetto per gli altri e di parità tra i sessi. Con una tale affermazione però la Corte eccede le sue competenze e da una valutazione negativa di una pratica religiosa, imponendo una visione propria riguardo al significato del gesto di indossare il velo.

La ormai notissima e controversa vicenda Lautsi v. Italia[17] inizia nel 2002 con la richiesta della signora Lautsi rivolta alla direzione della scuola dei suoi figli ed avente oggetto la rimozione del crocifisso presente nell’aula. La richiesta viene rifiutata e la ricorrente impugna il provvedimento dinanzi al TAR, che solleva questione di costituzionalità. Nel 2004 la Corte Costituzionale dichiara la questione inammissibile in quanto si trattava di un obbligo di esposizione contenuto in una norma regolamentare e il TAR Veneto, nel 2005, decide che il crocifisso, in quanto simbolo culturale e non religioso, può restare nelle aule. Questa decisione viene confermato dal Consiglio di Stato nel 2004. La signora Lautsi si rivolge alla Corte EDU che nel 2009 afferma che il crocifisso va rimosso dalle aule perché viola l’art. 2 del Protocollo I alla Convenzione e l’art. 9 CEDU. Nel 2011, su ricorso del governo italiano, interviene la Grande Camera della Corte EDU che ribalta la decisione del 2009.

Se nelle prime due sentenze analizzate è possibile rinvenire un certo tipo di coerenza nel ragionamento della Corte,  è qui che il concetto di margine di apprezzamento subisce una forzata estensione che lo trasforma in uno strumento di flessibilità molto pericoloso. Anche qui la Corte, nel suo ruolo di giudice della legittimità dell’esercizio del margine da parte dello stato, concede un margine molto ampio per la mancanza di consenso tra gli stati membri della Convenzione.

Innanzitutto la Corte stessa afferma che il crocifisso è, prima di tutto, un simbolo di religioso e che la sua esposizione nelle aule conferisce alla religione maggioritaria del paese (il cristianesimo) una visibilità preponderante nell’ambito scolastico. Addirittura la Corte richiama Sahin e definisce anche il crocifisso un segno esteriore forte poiché esso è necessariamente percepito come parte integrante dell’ambiente scolastico. Questa visibilità accentuata però, sottolinea la Corte, non è sufficiente per affermare che ci sia un processo di indottrinamento da parte dello Stato. Sulla base di queste affermazioni e seguendo il ragionamento svolto dalla Corte in Sahin ma soprattutto in Dahab dovremmo giungere alla conclusione che l’esposizione del crocifisso è in violazione del principio di laicità confessionale dello Stato: in Dahlab  viene ritenuto legittimo il divieto di indossare il velo imposto all’insegnante, nonostante questa non effettuasse nessuno tipo di proselitismo, solamente sulla base del fatto che potesse stimolare una curiosità negli studenti e che questa curiosità potesse risultare offensiva nei confronti dei bambini e dei loro genitori. Ma in Lautsi la Corte non si ferma qui: afferma che la causa Dahlab non è affine alla vicenda Lautsi,  prosegue cercando di relativizzare gli effetti dell’accresciuta visibilità al cristianesimo che sono conferitigli dall’esposizione del crocifisso e definisce il crocifisso appeso al muro un simbolo essenzialmente passivo.

La Corte arriva così ad una contraddizione: se precedentemente aveva ritenuto che il velo fosse in contrasto con il principio di neutralità perché l’insegnante che lo indossava poteva difficilmente evitare domande riguardo ad esso, in Lautsi si afferma che “[…] un simbolo cristiano appeso al muro di un’aula scolastica non fa che rappresentare un’altra e diversa visione del mondo. […] Stimola il dialogo. Un’educazione realmente pluralista implica che gli alunni vengano messi in contatto con tutta una gamma di idee diverse, ivi comprese le idee che non sono le loro proprie. L’educazione sarebbe ridotta se i ragazzi non fossero messi a confronto dei diversi punti di vista sulla vita e non avessero, attraverso questo processo, la possibilità di apprendere l’importanza del rispetto della diversità.”[18]

In conclusione la Corte ritiene che non ci sia un conflitto tra diritti perché il crocifisso in quanto simbolo passivo è inidoneo ad offendere. Lo stato italiano ha agito legittimamente nei limiti del margine di apprezzamento concessogli per conciliare, da una parte, l’esercizio delle funzioni che esso si assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento e, dall’altra, il rispetto del diritto dei genitori di assicurare questa educazione e questo insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche. La Corte non spiega cosa denoti l’”attività” o la “passività” di un simbolo, nonostante, viste le conseguenze che ne derivano, siamo costretti a concludere che questo rappresenti un carattere essenziale di un simbolo religioso.

Oltre ad aver sostenuto che in principio la condotta dello stato italiano rientrasse nel margine, la Corte afferma anche: “[…] il fatto che non esista un consenso europeo sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche avvalora tutto sommato questo orientamento.”[19] Come osservato dal giudice Malinverni nella sua dissenting opinion e come appurato anche in Dahlab e Sahin, anche qui è vero che manca un european consensus ma questa mancanza va intensa nel senso che soltanto un limitatissimo numero di stati (Austria, Polonia e qualche Laender tedesco) ha nel proprio diritto interno un’espressa previsione riguardante l’esposizione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Più che regimi di tutela eterogenei, si tratta del fatto che la questione non è specificatamente regolata da una grande vastità di stati, quindi sarebbe possibile affermare, attuando il ragionamento inverso, che manca uno standard di consenso a supporto del mantenimento del crocifisso nelle aule. Questo “fattore consenso” risulta solamente in una incertezza che “pone il rischio di vanificare qualsiasi pretesa di universalità nell’applicazione degli standard europei”[20].

L’articolo 2 del Protocollo I alla Convenzione conferisce agli stati un’obbligazione positiva: rispettare il diritto dei genitori di assicurare un’educazione ed un insegnamento ai propri figli che sia in conformità con il loro credo religioso. Qui le domande che si pone il giudice Malinverni sono numerose: è possibile affermare che uno stato stia rispettando questa obbligazione positiva nel momento in cui ha riguardo principalmente per le credenze della maggioranza? Il margine di apprezzamento ha la stessa ampiezza quando si tratta di rispettare un’obbligazione positiva piuttosto che un mero obbligo di astensione? Secondo il giudice, la risposta è negativa ad entrambe le domande ed anzi, sostiene che gli stati abbiano un margine di apprezzamento ridotto nel caso di obbligazioni positive come quella del caso di specie.

Conclusione

L’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento da parte della Corte EDU ai casi riguardanti l’esposizione di simboli religiosi, sia che essi fossero indossati in un luogo pubblico o esposti in esso ha avuto come risultato la legittimazione di “restrizioni importanti ai diritti fondamentali pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane[21]” a discapito delle minoranze religione, in particolare islamiche.

La missione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è quello di armonizzare le diverse identità culturali dei paesi membri senza però violarle ma, in materia di diritti religiosi delle minoranze, il giudice di Strasburgo, nascondendosi dietro lo schermo protettivo del margine di apprezzamento, ha permesso quello che risulta in un “imbarazzante ritorno del principio di maggioranza nella regolamentazione dei diritti fondamentali”[22].

 

Bibliografia

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http://old.unipr.it/arpa/dsgs/MD/margine%20di%20apprezzamento.pdf

Bhuta, N., Two Concepts of Religious Freedom in the European Court of Human Rights (December 2012). EUI Working Papers LAW No. 2012/33. Disponibile presso SSRN: http://ssrn.com/abstract=2201483 

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Mancini S., Lautsi II: la rivincità della tolleranza prefenzialista, Forum di Quaderni Costituzonali, disponibile presso:

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Mezzetti, L. (2013). Diritti e doveri. Torino: G. Giappichelli, p. 93

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Ratti, A. (2011). Crocifisso, ultimo atto. [online] Diritticomparati.it. Disponibile presso: http://www.diritticomparati.it/2011/03/crocifisso-ultimo-atto.html#sthash.GiVxMNJ8.dpuf

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GIURISPRUDENZA DELLA CORTE

Caso Handyside v. Regno Unito, App. No. 5493/72, 1976

Dahlab v. Svizzera, App. no. 42393/98, 15/02/2001

Lautsi ed altri v. Italia, App. No. 30814/06, 18/03/2011

Leyla Şahin v. Turchia, App. No. 44774/98, 10/11/2005

 

[1]Mancini S., La supervisione europea presa sul serio : la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti, in Giur. Cost. 2009, 5, p. 4055 ss.

[2]Puppinck G., Il Caso Lautsi Contro L’Italia (The Case of Lautsi v Italy) (February 13, 2012). Stato, Chiese e pluralismo confessionale - february 2012  Rivista telematica. Disponibile presso SSRN: http://ssrn.com/abstract=2179610

[3]Mancini S., Lautsi II: la rivincità della tolleranza prefenzialista, Forum di Quaderni Costituzonali, disponibile presso:

http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/corte_europea_diritti_uomo/0015_mancini.pdf 

[4]Anrò, I., Il margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei Diritti dell’uomo, disponibile presso:

http://old.unipr.it/arpa/dsgs/MD/margine%20di%20apprezzamento.pdf

[5] Mancini S., op. cit. 3

[6] Caso Handyside v. Regno Unito, App. No. 5493/72, 1976

[7] Anrò, I. Op. cit. 4

[8] Mezzetti, L. (2013). Diritti e doveri. Torino: G. Giappichelli, p. 93

[9] Greer, S. (2000). The margin of appreciation. Strasbourg: Council of Europe.

[10] Bhuta, N., Two Concepts of Religious Freedom in the European Court of Human Rights (December 2012). EUI Working Papers LAW No. 2012/33. Disponibile presso

SSRN: http://ssrn.com/abstract=2201483 orhttp://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2201483

[11] Ibid.

[12] Dahlab v. Svizzera, App. no. 42393/98, 15/02/2001

[13] Op. cit. 12

[14] Bhuta N., op. cit. 10

[15] Leyla Şahin v. Turchia, App. No. 44774/98, 10/11/2005

[16] Dissenting opinion of judge Tulkens in the case of Leyla Şahin v. Turkey, App. no. 44774/98, 10/11/2015

[17] Lautsi ed altri v. Italia, App. No. 30814/06, 18/03/2011

[18] Op. cit. 17

[19] Ibid., Par. 70

[20] Mancini, op. cit. 1

[21] Mancini, op. cit.3

[22] Ratti, A. (2011). Crocifisso, ultimo atto. [online] Diritticomparati.it. Disponibile presso: http://www.diritticomparati.it/2011/03/crocifisso-ultimo-atto.html#sthash.GiVxMNJ8.dpuf

Questo articolo si propone di analizzare la dottrina del margine di apprezzamento come definita dalla giurisprudenza della Corte EDU. Dopo un’iniziale introduzione volta ad esaminare il concetto di margine di apprezzamento in generale, verrà approfondita la sua applicazione nell’ambito specifico della libertà religiosa come stabilita all’articolo 9 CEDU. Quest’analisi verrà svolta portando all’attenzione del lettore in particolare tre casi riguardanti l’esposizione di simboli religiosi: Şahin v. Turchia (2001), Dahlab v. Svizzera (2005) ed infine Lautsi v. Italia (2011). I primi due casi riguardano il velo islamico in due diversi contesti pubblici (scuola primaria ed università) mentre l’ultimo caso riguarda l’esposizione del crocifisso in una scuola pubblica. L’obiettivo è di fornire un’analisi critica volta ad evidenziare le discrepanze nell’applicazione della dottrina margine di apprezzamento in questi casi.

La dottrina del margine di apprezzamento: cenni generali

La dottrina (e la conseguente applicazione) del margine di apprezzamento si basa su alcuni principi cardine[1]: la CEDU stabilisce degli standard universali all’interno dei quali è lasciato agli stati membri un margine di scelta;  la Corte deve rispettare le scelte compiute dagli stati fintantoché queste non collidono con questi standard universali; l’ampiezza del margine lasciato alla scelta compiuta dalle autorità nazionali non è libera ma varia in base ad alcuni fattori. Questi fattori comprendono, ad esempio, la natura del diritto in questione: se si tratta di un diritto assoluto il margine di apprezzamento concesso sarà più ridotto e così via nella gerarchia dei diritti stabilita dalla CEDU. Un criterio rilevante, soprattutto nei casi riguardanti la libera manifestazione di pensiero, è quello dell’esistenza di un consenso comune tra gli stati membri della CEDU riguardo alla strutturazione e alla protezione accordata al diritto in questione. Margine e consenso sono legati da una relazione di proporzionalità indiretta: ad una omogeneità di consenso maggiore corrisponderà un margine di apprezzamento più ristretto e viceversa. Altri criteri sono, ad esempio, la natura dei doveri statali, la natura dello scopo perseguito dall’azione statale e le circostanze esterne (situazioni di emergenza, processi di transizione democratica, ...).

Il concetto stesso di margine di apprezzamento si basa sulla constatazione che le autorità nazionali, essendo in contatto diretto e permanente con le “forze vive” dei loro paesi, sono meglio collocate per valutare i fattori che circondano le situazioni dove viene compresso l’esercizio di un determinato diritto. [2]  In realtà, questa è una logica pericolosa perché “[…] rispetto ad una Corte esterna le “autorità nazionali” sono più sensibili alla cultura maggioritaria, mentre i diritti sono fondamentalmente contro-maggioritari, dato che le maggioranze dispongono già dello strumento legislativo per soddisfare i propri bisogni e desideri”.[3]

Il margine di apprezzamento può quindi essere definito allo stesso tempo come quella misura di discrezionalità concessa agli stati membri nell’implementazione della Convenzione e anche come il modo attraverso il quale la Corte di Strasburgo cerca di bilanciare la sovranità degli stati membri con il rispetto degli obblighi stabiliti dalla convenzione. [4] È compito della Corte vigilare su quella che può essere ritenuta un’ “alchimia delicatissima”[5]: universalismo e diversità, quest’ultima intesa come comprensiva di contesti normativi e culturali degli stati membri della Convenzione.

Il concetto di margine di apprezzamento è strettamente legato al principio di sussidiarietà vigente nel sistema della Convenzione Europea dei Diritti Dell’Uomo. Sussidiarietà da intendersi in modo diverso rispetto al principio funzionante nell’Unione Europea dove vige un sistema di concorrenza di competenze: il compito di assicurare che i diritti sanciti nella Convenzione vengano rispettati spetta alle autorità degli Stati membri  e non alla Corte. Soltanto in caso di incapacità delle autorità nazionali la Corte potrà intervenire.

Il risultato dell’applicazione del margine di apprezzamento comporta una legittimazione da parte della Corte della limitazione di alcuni diritti fondamentali in ragione della salvaguardia dell’identità nazionale di un determinato stato o a tutela di altre esigenze statali. La dottrina del margine di apprezzamento è stata molto frequentemente applicata alla libertà di espressione: il primo caso in cui vi si fece riferimento è il noto caso Handyside v. United Kingdom[6] relativo alla definizione di morale da parte di uno stato e la pubblicazione di un libro ritenuto osceno. Oltre alla libertà di espressione, il margine di apprezzamento è stato applicato anche in materia di rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU), di libertà di riunione e associazione (art. 11 CEDU) e di diritto al matrimonio (art. 12 CEDU).  La dottrina del margine di apprezzamento non è espressamente riconosciuta nel testo della CEDU ma la sua operatività può essere implicitamente desunta da tutte quelle disposizioni al suo interno che rimandano alla legislazione nazionale per le limitazioni o le modalità di esercizio di determinati diritti: è qui che sarà data allo Stato la possibilità di scelta e valutazione, che, come abbiamo visto, è elemento cardine del margine [7].

Margine di apprezzamento e simboli religiosi: il velo islamico (casi Dahab e Sahin) e il caso Lautsi

Al fine di comprendere l’esame svolto dalla Corte nei casi che verranno esposti a breve, è necessario fare un’ulteriore osservazione: la Corte ha il compito di controllare il margine di apprezzamento preso dallo Stato.In materia di libertà religiosa, quando la Corte si appresta a verificare se la misura restrittiva dei diritti adottata da uno Stato è legittima o no, e quindi se ricade nel margine di apprezzamento di quello Stato, essa dovrà verificare se i parametri stabiliti dal secondo comma dell’articolo 9 CEDU sono rispettati. Queste condizioni di legittimità sono: la previsione legale della misura limitativa del diritto; lo scopo legittimo perseguito dalla limitazione (pubblica sicurezza; ordine, saluta e morale pubblica; protezione dei diritti e delle libertà altrui); la proporzionalità della misura rispetto allo scopo [8]. La proporzionalità fa riferimento al fatto che la misura intrapresa deve essere necessaria in uno stato democratico. La Corte effettuerà il cosiddetto proportionality test e considererà, tra gli altri, l’impatto della misura sul diritto in questione (lo Stato avrebbe potuto intervenire in una misura meno restrittiva per il diritto in questione? È la cosiddetta proporzionalità strictu sensu), i motivi per l’interferenza (che deve essere giustificata da un bisogno sociale imperativo) ed infine se la diminuzione del diritto era proporzionale o no al valore degli altri interessi protetti (bilanciamento).[9][10]

I primi due casi sono del 2001 e del 2005 e riguardano lo hijab. Nel caso Dahlab v. Svizzera, la ricorrente era una maestra della scuola elementare convertita all’Islam alla quale era stato vietato indossare il velo in classe dal Direttorato Generale per l’Educazione Primaria nel cantone di Ginevra, basandosi sul fatto che costituiva un “[…] obvious means of [religious] identification imposed by a teacher on her pupils, especially in a public, secular education system […]” ed in quanto tale violava l’articolo 6 del “Public Education Act”. Nel secondo caso invece, Sahin v. Turchia, la ricorrente era una studentessa di medicina iscritta al quinto anno dell’università di Istanbul trasferitasi dopo quattro anni di studi svolti presso l’università di Bursu (durante i quali aveva regolarmente indossato il velo senza alcun problema). L’università, nel 1998, proibiva con un atto amministrativo l’ammissione di studentesse indossanti il velo alle lezioni e agli esami. Sahin veniva sottoposta a procedimento disciplinare e sospesa per un semestre.

Entrambe le donne lamentavano una violazione del loro diritto di libertà religiosa in particolare nell’accezione di libertà di manifestare la loro religione ex articolo 9 CEDU. La cosa che colpisce in queste pronunce è che non viene discusso se il divieto di indossare il velo in entrambi i casi fosse la misura meno restrittiva disponibile per ottenere l’obiettivo dello stato (che, nei entrambi i casi, era individuato nella difesa del principio di neutralità, del principio di pluralismo e di laicità) o comunque se la misura fosse strettamente necessaria per proteggere diritti altrui. Il bilanciamento viene fatto tra concetti astratti come secolarismo e democrazia in antitesi al significato religioso del velo o al principio di uguaglianza tra uomo e donna. Si deduce come le pratiche religiose islamiche siano intese come intrinsecamente pericolose per l’ordine pubblico, indipendentemente da alcuna dimostrazione pratica.[11]

Analizzando ora l’utilizzo del margine di apprezzamento in queste due sentenze, nella sentenza Dahlab la Corte dichiara inammissibile la richiesta della ricorrente. La corte riprende la dottrina del margine di apprezzamento nel controllare la sussistenza del requisito di necessità delle misure intraprese dallo stato: secondo la Corte Federale Svizzera la misura era giustificata perché il velo costituiva un “powerful religious symbol[12]” che in quanto tale era di potenziale interferenza per l’esercizio della libertà religiosa dei suoi studenti ed in contrasto con il principio di neutralità confessionale delle scuole. Sia la Corte Federale Svizzera che la Corte di Strasburgo parlano di “potenziale interferenza” perché negli anni durante i quali l’insegnante aveva portato il velo non vi erano state proteste né da parte dei genitori dei suoi alunni né da parte di altri membri del corpo didattico. Allo stesso modo la Corte riconosce che non c’era nessuna prova del fatto che la sig. Dahlab stesse promovendo o discutendo le sue credenze religiose: il gesto di indossare il velo viene ritenuto di per sé come una violazione del principio di neutralità confessionale in quanto capace di stimolare domande di curiosità nei bambini. Quindi, secondo la Corte EDU, un simbolo capace di stimolare curiosità riguardo ad una religione è da considerare come provocatorio e rischioso per eventuali conflitti.

La Corte di Strasburgo decide di sbilanciarsi, esprimendo un giudizio negativo riguardo al significato del velo islamico come simbolo religioso: “ […] it […] appears difficult to reconcile the wearing of an Islamic headscarf with the message of tolerance, respect for others and, above all, equality and non-discrimination that all teachers in a democratic society must convey to their pupils. […]”[13].  

In questa sentenza il requisito della necessità è qui inteso in senso molto espansivo, addirittura preventivo[14] in un’ottica di difesa della pace tra le confessioni religiose e della neutralità confessionale dello Stato.

In Sahin v. Turchia[15], l’università di Istanbul impone il divieto di indossare il velo all’università sostenendo che questo rappresenti un’ accezione di Islam politica che è perciò in contrasto con il principio di laicità dello stato. Inoltre veniva affermato, come in Dahlab, che il velo fosse un simbolo in contrasto con il principio di uguaglianza tra uomo e donna.

La Corte di Strasburgo qui dichiara che  lo stato turco è legittimato a prendere posizione contro movimenti politici estremisti per proteggere i diritti altrui e per mantenere l’ordine pubblico. Una volta individuati come legittimi gli scopi perseguiti, delega allo stato il compito di decidere se ogni persona che indossa il velo in un’istituzione pubblica lo fa perché vuole affermare una determinata ideologia politica. Nel momento in cui lo stato deciderà di assimilare il velo islamico all’islam politico,questo costituirà automaticamente un rischio per la democrazia e quindi renderà una misura restrittiva del diritto di libertà religiosa necessaria. Nel suo ragionamento, la Corte non considera nemmeno se la misura in concreto era proporzionale affermando che non è compito della Corte applicare il criterio di proporzionalità se questo risulterebbe in un render vane le regole interne di una istituzione  (l’Università di Istanbul). Afferma anche che l’articolo 9 CEDU non conferisce a degli individui il diritto di ignorare delle disposizioni che sono giustificate da un fine legittimo solo in luce del fatto che essi stanno agendo secondo un credo religioso. Il margine di discrezionalità nel caratterizzare determinate circostanze, che viene concesso qui allo stato turco, risulta ampissimo. 

In Sahin (come in Dahlab ed in Lautsi)viene accordato un margine di apprezzamento vasto poiché non è  rinvenibile in Europa uno standard di consenso  nel disporre dei simboli religiosi all’interno di istituzioni educative e, più in generale, riguardo la concezione di religione nella società. A questo punto risulta di massima rilevanza la dissenting opinion del giudice Tulkiens nella vicenda Sahin[16]. Innanzitutto viene affermato che la  mancanza di consenso in Europa non può essere empiricamente provata poiché in nessuno degli stati il divieto di indossare simboli religiosi è esteso alle università, luogo di giovani adulti che in quanto tali sono meno inclini ad essere persuasi. Inoltre il controllo vero e proprio della Corte sul margine sembra essere del tutto assente, in quanto questa si limita ad effettuare un collegamento tra la misura intrapresa e il specifico background storico della Turchia. Per quanto riguarda il fatto che il velo rappresenti  un simbolo di alienazione del sesso femminile (e che quindi il divieto di indossarlo sia un modo per promuovere l’uguaglianza tra i due sessi), il giudice Tulkiens sottolinea giustamente come il velo venga indossato per una varietà di ragioni. Non rappresenta necessariamente un mezzo di sottomissione delle donne agli uomini e quella che compie la Corte è un’analisi superficiale, poiché carente di un elemento essenziale: l’opinione delle donne, sia di quelle che indossano il velo che quelle che decidono di non indossarlo. 

Elemento comune in Dahab, Sahin e, come si vedrà, anche in Lautsi, è il concetto ambiguo di powerful external symbol: in Sahin la corte richiama quanto affermato in Dahab e cioè che il velo rappresenta un simbolo esteriore forte. Un simbolo che, a parere della Corte, viene imposto alle donne sulla base di un precetto religioso difficilmente conciliabile col principio di uguaglianza tra i sessi e con un messaggio di tolleranza, rispetto per gli altri e di parità tra i sessi. Con una tale affermazione però la Corte eccede le sue competenze e da una valutazione negativa di una pratica religiosa, imponendo una visione propria riguardo al significato del gesto di indossare il velo.

La ormai notissima e controversa vicenda Lautsi v. Italia[17] inizia nel 2002 con la richiesta della signora Lautsi rivolta alla direzione della scuola dei suoi figli ed avente oggetto la rimozione del crocifisso presente nell’aula. La richiesta viene rifiutata e la ricorrente impugna il provvedimento dinanzi al TAR, che solleva questione di costituzionalità. Nel 2004 la Corte Costituzionale dichiara la questione inammissibile in quanto si trattava di un obbligo di esposizione contenuto in una norma regolamentare e il TAR Veneto, nel 2005, decide che il crocifisso, in quanto simbolo culturale e non religioso, può restare nelle aule. Questa decisione viene confermato dal Consiglio di Stato nel 2004. La signora Lautsi si rivolge alla Corte EDU che nel 2009 afferma che il crocifisso va rimosso dalle aule perché viola l’art. 2 del Protocollo I alla Convenzione e l’art. 9 CEDU. Nel 2011, su ricorso del governo italiano, interviene la Grande Camera della Corte EDU che ribalta la decisione del 2009.

Se nelle prime due sentenze analizzate è possibile rinvenire un certo tipo di coerenza nel ragionamento della Corte,  è qui che il concetto di margine di apprezzamento subisce una forzata estensione che lo trasforma in uno strumento di flessibilità molto pericoloso. Anche qui la Corte, nel suo ruolo di giudice della legittimità dell’esercizio del margine da parte dello stato, concede un margine molto ampio per la mancanza di consenso tra gli stati membri della Convenzione.

Innanzitutto la Corte stessa afferma che il crocifisso è, prima di tutto, un simbolo di religioso e che la sua esposizione nelle aule conferisce alla religione maggioritaria del paese (il cristianesimo) una visibilità preponderante nell’ambito scolastico. Addirittura la Corte richiama Sahin e definisce anche il crocifisso un segno esteriore forte poiché esso è necessariamente percepito come parte integrante dell’ambiente scolastico. Questa visibilità accentuata però, sottolinea la Corte, non è sufficiente per affermare che ci sia un processo di indottrinamento da parte dello Stato. Sulla base di queste affermazioni e seguendo il ragionamento svolto dalla Corte in Sahin ma soprattutto in Dahab dovremmo giungere alla conclusione che l’esposizione del crocifisso è in violazione del principio di laicità confessionale dello Stato: in Dahlab  viene ritenuto legittimo il divieto di indossare il velo imposto all’insegnante, nonostante questa non effettuasse nessuno tipo di proselitismo, solamente sulla base del fatto che potesse stimolare una curiosità negli studenti e che questa curiosità potesse risultare offensiva nei confronti dei bambini e dei loro genitori. Ma in Lautsi la Corte non si ferma qui: afferma che la causa Dahlab non è affine alla vicenda Lautsi,  prosegue cercando di relativizzare gli effetti dell’accresciuta visibilità al cristianesimo che sono conferitigli dall’esposizione del crocifisso e definisce il crocifisso appeso al muro un simbolo essenzialmente passivo.

La Corte arriva così ad una contraddizione: se precedentemente aveva ritenuto che il velo fosse in contrasto con il principio di neutralità perché l’insegnante che lo indossava poteva difficilmente evitare domande riguardo ad esso, in Lautsi si afferma che “[…] un simbolo cristiano appeso al muro di un’aula scolastica non fa che rappresentare un’altra e diversa visione del mondo. […] Stimola il dialogo. Un’educazione realmente pluralista implica che gli alunni vengano messi in contatto con tutta una gamma di idee diverse, ivi comprese le idee che non sono le loro proprie. L’educazione sarebbe ridotta se i ragazzi non fossero messi a confronto dei diversi punti di vista sulla vita e non avessero, attraverso questo processo, la possibilità di apprendere l’importanza del rispetto della diversità.”[18]

In conclusione la Corte ritiene che non ci sia un conflitto tra diritti perché il crocifisso in quanto simbolo passivo è inidoneo ad offendere. Lo stato italiano ha agito legittimamente nei limiti del margine di apprezzamento concessogli per conciliare, da una parte, l’esercizio delle funzioni che esso si assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento e, dall’altra, il rispetto del diritto dei genitori di assicurare questa educazione e questo insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche. La Corte non spiega cosa denoti l’”attività” o la “passività” di un simbolo, nonostante, viste le conseguenze che ne derivano, siamo costretti a concludere che questo rappresenti un carattere essenziale di un simbolo religioso.

Oltre ad aver sostenuto che in principio la condotta dello stato italiano rientrasse nel margine, la Corte afferma anche: “[…] il fatto che non esista un consenso europeo sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche avvalora tutto sommato questo orientamento.”[19] Come osservato dal giudice Malinverni nella sua dissenting opinion e come appurato anche in Dahlab e Sahin, anche qui è vero che manca un european consensus ma questa mancanza va intensa nel senso che soltanto un limitatissimo numero di stati (Austria, Polonia e qualche Laender tedesco) ha nel proprio diritto interno un’espressa previsione riguardante l’esposizione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Più che regimi di tutela eterogenei, si tratta del fatto che la questione non è specificatamente regolata da una grande vastità di stati, quindi sarebbe possibile affermare, attuando il ragionamento inverso, che manca uno standard di consenso a supporto del mantenimento del crocifisso nelle aule. Questo “fattore consenso” risulta solamente in una incertezza che “pone il rischio di vanificare qualsiasi pretesa di universalità nell’applicazione degli standard europei”[20].

L’articolo 2 del Protocollo I alla Convenzione conferisce agli stati un’obbligazione positiva: rispettare il diritto dei genitori di assicurare un’educazione ed un insegnamento ai propri figli che sia in conformità con il loro credo religioso. Qui le domande che si pone il giudice Malinverni sono numerose: è possibile affermare che uno stato stia rispettando questa obbligazione positiva nel momento in cui ha riguardo principalmente per le credenze della maggioranza? Il margine di apprezzamento ha la stessa ampiezza quando si tratta di rispettare un’obbligazione positiva piuttosto che un mero obbligo di astensione? Secondo il giudice, la risposta è negativa ad entrambe le domande ed anzi, sostiene che gli stati abbiano un margine di apprezzamento ridotto nel caso di obbligazioni positive come quella del caso di specie.

Conclusione

L’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento da parte della Corte EDU ai casi riguardanti l’esposizione di simboli religiosi, sia che essi fossero indossati in un luogo pubblico o esposti in esso ha avuto come risultato la legittimazione di “restrizioni importanti ai diritti fondamentali pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane[21]” a discapito delle minoranze religione, in particolare islamiche.

La missione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è quello di armonizzare le diverse identità culturali dei paesi membri senza però violarle ma, in materia di diritti religiosi delle minoranze, il giudice di Strasburgo, nascondendosi dietro lo schermo protettivo del margine di apprezzamento, ha permesso quello che risulta in un “imbarazzante ritorno del principio di maggioranza nella regolamentazione dei diritti fondamentali”[22].

 

Bibliografia

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GIURISPRUDENZA DELLA CORTE

Caso Handyside v. Regno Unito, App. No. 5493/72, 1976

Dahlab v. Svizzera, App. no. 42393/98, 15/02/2001

Lautsi ed altri v. Italia, App. No. 30814/06, 18/03/2011

Leyla Şahin v. Turchia, App. No. 44774/98, 10/11/2005

 

[1]Mancini S., La supervisione europea presa sul serio : la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti, in Giur. Cost. 2009, 5, p. 4055 ss.

[2]Puppinck G., Il Caso Lautsi Contro L’Italia (The Case of Lautsi v Italy) (February 13, 2012). Stato, Chiese e pluralismo confessionale - february 2012  Rivista telematica. Disponibile presso SSRN: http://ssrn.com/abstract=2179610

[3]Mancini S., Lautsi II: la rivincità della tolleranza prefenzialista, Forum di Quaderni Costituzonali, disponibile presso:

http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/corte_europea_diritti_uomo/0015_mancini.pdf 

[4]Anrò, I., Il margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei Diritti dell’uomo, disponibile presso:

http://old.unipr.it/arpa/dsgs/MD/margine%20di%20apprezzamento.pdf

[5] Mancini S., op. cit. 3

[6] Caso Handyside v. Regno Unito, App. No. 5493/72, 1976

[7] Anrò, I. Op. cit. 4

[8] Mezzetti, L. (2013). Diritti e doveri. Torino: G. Giappichelli, p. 93

[9] Greer, S. (2000). The margin of appreciation. Strasbourg: Council of Europe.

[10] Bhuta, N., Two Concepts of Religious Freedom in the European Court of Human Rights (December 2012). EUI Working Papers LAW No. 2012/33. Disponibile presso

SSRN: http://ssrn.com/abstract=2201483 orhttp://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2201483

[11] Ibid.

[12] Dahlab v. Svizzera, App. no. 42393/98, 15/02/2001

[13] Op. cit. 12

[14] Bhuta N., op. cit. 10

[15] Leyla Şahin v. Turchia, App. No. 44774/98, 10/11/2005

[16] Dissenting opinion of judge Tulkens in the case of Leyla Şahin v. Turkey, App. no. 44774/98, 10/11/2015

[17] Lautsi ed altri v. Italia, App. No. 30814/06, 18/03/2011

[18] Op. cit. 17

[19] Ibid., Par. 70

[20] Mancini, op. cit. 1

[21] Mancini, op. cit.3

[22] Ratti, A. (2011). Crocifisso, ultimo atto. [online] Diritticomparati.it. Disponibile presso: http://www.diritticomparati.it/2011/03/crocifisso-ultimo-atto.html#sthash.GiVxMNJ8.dpuf