x

x

La magistratura in Italia tra privilegi e responsabilità

Abstract

I grandi temi di libertà, imparzialità, autonomia del giudice impegnano, oggi come ieri (e molto probabilmente come domani), studiosi, volumi e repertori giurisprudenziali per via delle intricate e controverse questioni che vi si connettono e dei nessi con gli ordinamenti costituzionali ed i principi fondamentali di ogni civiltà giuridica, soprattutto alla luce della crescente influenza della giurisprudenza europea in materia di diritti umani e dell'obbligo dei giudici nazionali di tenerne conto. Questo accade perché la neutralità giudiziale si rivela indice e strumento utile a prevenire la predeterminazione, ad opera dello Stato o dei suoi organi, degli esiti di un processo, che va governato secondo i dettami della terzietà ed imparzialità del giudice a garanzia di un'equa contesa giudiziale.  Accanto a questa dimensione culturale e politica ve ne è anche una umana, che ha a che vedere con la persona del singolo giudice e con il peso che sulle sue spalle la toga fa gravare.

Il tema della qualità della giustizia ha attirato in misura crescente l’attenzione di magistrati, avvocati, studiosi dei sistemi giudiziari, nonché di una platea sempre più vasta di cittadini interessati al buon funzionamento di un servizio pubblico di vitale importanza per la società.

Nei paesi liberal-democratici sono ormai numerose le politiche avviate al fine di valutare e migliorare il funzionamento del sistema giudiziario. Alcune di queste riforme sono tuttavia state criticate in quanto ritenute lesive delle garanzie di indipendenza dei giudici.

Qualità della giustizia che, in primo luogo, appare strettamente connessa con la qualità delle decisioni giudiziarie; queste devono applicare correttamente le norme giuridiche e devono altresì essere corredate di motivazioni chiare e ben strutturate. In secondo luogo, la qualità della giustizia ha a che fare con la qualità del procedimento giudiziario, che deve garantire ai cittadini un adeguato accesso alla giustizia e deve altresì prevedere un equo trattamento delle persone coinvolte nel processo. Questa dimensione della qualità della giustizia si riferisce alla possibilità di ricorrere al giudice, alle garanzie di imparzialità e indipendenza di quest’ultimo, alla possibilità per le parti di essere ascoltate e di difendersi, e di avvalersi dell’assistenza di un difensore. Infine, una giustizia di qualità deve prevedere la possibilità di ricorrere a modalità extragiudiziarie di risoluzione delle controversie.

I valori che sottendono la definizione di standard di qualità sono relativi alla indipendenza e imparzialità del giudice alla correttezza e celerità del procedimento.

Premesso ciò, si elencano degli spunti per la qualità della giustizia già adottate in diversi paesi europei.

1.  Regolamentazione degli appelli

-  In diversi paesi europei l’appello è solo eventuale; in Italia diversi operatori e studiosi del processo hanno suggerito di ridurre la possibilità per le parti processuali di ricorrere in appello.

2. I reclami relativi al comportamento dei magistrati e l’istituzione del difensore civico

-  In varie nazioni europee sono stati istituiti dei sistemi che permettono alle parti di un procedimento di presentare reclami relativi al comportamento tenuto da un magistrato in sede processuale. Tali reclami sono rivolti al capo dell’ Ufficio e vengono esaminati in sede locale.

3. Gli incontri fra giudici dello stesso ufficio al fine di condividere le esperienze di lavoro e la valutazione della comprensibilità delle sentenze da parte di magistrati ed avvocati

- In Italia, analogamente a quanto avviene in altri paese europei, sono previsti incontri fra giudici dello stesso ufficio per uno scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali (in base all’art. 47-quater O.G.). é molto probabile che un ricorso regolare a strumenti di questo tipo potrebbe migliorare la qualità della nostra amministrazione della giustizia.

- Al fine di migliorare la comprensibilità delle sentenze si è diffusa la pratica di far valutare questo aspetto a gruppi di giudici ed avvocati, in modo indipendente dal processo di appello; in Italia sono state fatte esperienze di questo tipo in sede di formazione. Le sentenze possono essere rese anonime occultando sia i nomi delle parti sia quello dell’estensore.

4. I poteri del giudice sulla gestione dei tempi processuali

- Nel processo civile, da più parti si è palesata l’opportunità di ampliare i poteri del giudice in merito alla gestione del procedimento, specie in relazione alla definizione dei tempi processuali.

5. L’ efficienza e l’efficacia dell’amministrazione della giustizia

- Uno degli strumenti più diffusi per aumentare la qualità della giustizia consiste nell’adozione di standard di durata dei procedimenti. I paesi che hanno varato riforme di questo tipo prevedono limiti di durata per i diversi tipi di procedimento giudiziario.

6. Il livello di complessità del sistema di rilevazione dell’efficienza della giustizia

- Una prima alternativa riguarda la struttura del sistema di rilevazione statistica. Le possibilità sono:

6.1. creare un sistema di rilevazione statistica esaustivo, anche se complesso, che si ponga l’obiettivo di descrivere in maniera dettagliata il funzionamento del sistema giudiziario;

6.2.   creare un sistema di rilevazione statistica ove vengono registrate poche informazioni essenziali utili a valutare il funzionamento del sistema giudiziario.

7. L’oggetto del sistema di rilevazione dell’efficienza della giustizia

La rilevazione e valutazione dell’efficienza richiede poi una scelta circa l’oggetto del sistema di rilevazione. Le possibilità sono:

7.1  creare un sistema per rilevare e valutare solo l’efficienza degli uffici giudiziari nel loro complesso;

7.2   creare un sistema ove viene rilevata e valutata l’efficienza anche dei singoli magistrati.

8. Le conseguenze della rilevazione dell’efficienza della giustizia in termini di allocazione delle risorse agli uffici

- La rilevazione e valutazione dell’efficienza rimanda al modo in cui i risultati della rilevazione vengono impegnati; in altre parole ci si riferisce  a come i fondi vengono distribuiti, e non a chi li distribuisce. Le esperienze straniere possono essere suddivise in due famiglie:

8.1  il Governo, o il Parlamento, a seconda dei diversi assetti costituzionali dei diversi paesi, alla luce dei dati raccolti e degli obiettivi che ogni ufficio si propone di raggiungere, negozia con i singoli uffici giudiziari le risorse umane e materiali da assegnare ad essi;

8.2   il Governo, o il Parlamento, alla luce dei dati raccolti per ogni ufficio giudiziario, attribuisce in maniera automatica, o quasi, agli uffici le risorse umane e materiali.

9. Le conseguenze della rilevazione dell’efficienza della giustizia sulla retribuzione dei magistrati

-  Il livello di efficienza di un magistrato può comportare conseguenze sul suo trattamento economico; le esperienze europee possono essere suddivise in due gruppi:

9.1   la legge può prevedere incentivi monetari per i magistrati che hanno livelli di produttività elevati;

9.2  lo stipendio dei singoli magistrati non dipende in alcun modo dai rispettivi livelli di produttività.

10. La valutazione della qualità della giustizia da parte di associazioni di cittadini e di istituti di ricerca indipendenti

- Alcuni paesi riconoscono un ruolo nel processo di valutazione ad istituzioni e associazioni private che si propongono di monitorare il funzionamento dell’amministrazione della giustizia, in maniera analoga al Tribunale per i diritti del malato in campo sanitario. Esse potrebbero essere sostenute dalle autorità pubbliche ed essere consultate e ascoltate nella valutazione della qualità della giustizia;

-   la qualità della giustizia potrebbe essere valutata anche attraverso rapporti preparati da istituti di ricerca indipendenti.

11. La valutazione della qualità della giustizia tramite l’impiego di osservatori addestrati

- Alcuni sistemi giudiziari prevedono l’impiego di osservatori addestrati che si recano in udienza senza farsi riconoscere e valutano il comportamento del giudice nel processo. Gli osservatori possono essere reclutati sia a livello ministeriale sia a livello locale, di singoli uffici giudiziari.

I sopraelencati argomenti sono stati anche oggetto di un’inchiesta campionaria (SAPIGNOLI M. Qualità della giustizia e indipendenza della magistratura nell’opinione dei magistrati italiani, Bologna, 2009) rivolta a giudici e pubblici ministeri i quali non si sono mostrati ostili verso forme di innovazione volte al miglioramento ed alla valutazione della qualità della giustizia italiana, ma hanno fortemente criticato tutte quelle riforme che vengono da soggetti esterni alla magistratura.

La responsabilità disciplinare di magistrati si configura come la soggezione del magistrato a una sanzione in caso di comportamento illecito, posto in essere all’interno o all’esterno delle funzioni giudiziarie, ed è una conseguenza del rapporto di impiego (di natura pubblicistica) che intercorre tra il magistrato e lo Stato. Essa tende ad assicurare sia il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, garantendo il corretto adempimento dei doveri ad essa connessi, sia il prestigio del singolo magistrato e dell’ordine giudiziario a cui i cittadini devono fiduciosamente potersi rivolgere, tutelando l’onestà e la competenza della professione giudiziaria.

Date queste finalità, al controllo disciplinare vengono riconosciute essenzialmente due funzioni: una repressiva, intesa ad imporre una sanzione nei confronti del magistrato responsabile di una determinata violazione, e una didattica e preventiva, volta ad orientare i comportamenti futuri dei magistrati e a prevenire possibili atti lesivi della funzione giudiziaria. Nell’ambito della funzione repressiva, inoltre, il controllo disciplinare costituisce un importante strumento di selezione negativa dei magistrati poiché – potendo disporre anche di sanzioni con effetti espulsivi, come la rimozione dall’ufficio – è potenzialmente in grado di allontanare dal servizio le persone che non si sono dimostrate idonee allo svolgimento della funzione giudiziaria.

GLI ARGOMENTI (luoghi comuni) PIù “GETTONATI”

Attorno allo scottante tema della responsabilità civile dei magistrati hanno ruotato, ruotano e continueranno a ruotare una gran quantità di argomenti che vengono proposti e puntualmente confutati.

1) Il giudice che sbaglia deve pagare.

Da come la cosa viene presentata, sembra che non esista alcuna forma di responsabilità. Falso. La responsabilità esiste, e prevede che, in caso di dolo o colpa grave, sia lo Stato a indennizzare il cittadino.

2) Il giudice non paga mai di tasca propria.

Falso. Lo Stato ha diritto di rivalsa sul giudice.

3) Il giudice gode di un privilegio castale che li rende diversi da tutti gli altri cittadini, medici, architetti, ingegneri, i quali, si sa, pagano di tasca propria.

Non è proprio così. Ci sono almeno due categorie di cittadini che non pagano di tasca propria. Il personale direttivo, docente, educativo e non docente delle scuole materne, elementari, secondarie e artistiche risponde dei danni provocati dagli alunni soltanto in caso di dolo o colpa grave nella vigilanza degli stessi, la causa si propone contro lo Stato che, se ha torto, paga. E poi, sempre che esistano dolo o colpa grave, si può rivalere sul singolo dirigente, insegnante o bidello che sia. Motivo: evitare che la scuola, della quale si riconosce la preziosa, essenziale funzione sociale, diventi una palestra di ritorsioni. Quanto alla seconda categoria di cittadini che non pagano di tasca propria, ne fanno parte gli amministratori dei partiti politici, i quali, in virtù di un articolo della legge sul finanziamento, “rispondono delle obbligazioni assunte in nome e per conto del partito solamente nei casi di dolo e colpa grave”. A pagare per il partito insolvente, in altri termini, è lo Stato. Che adempie alle obbligazioni dei partiti attraverso un fondo di garanzia costituito presso il Ministero dell’ Economia e delle Finanze, per la precisione presso il dipartimento del Tesoro. Motivo: il riconoscimento del ruolo centrale dei partiti nella vita politica. Se, dunque, scuola e partiti sono essenziali al funzionamento della società e godono di un regime “privilegiato”, non si capisce perché i giudici ne debbano essere esclusi.

4) “Dolo e colpa grave” non sono sufficienti. Deve essere sanzionato l’errore in sé. Infatti, c’è la tendenza a voler inserire in questo o quel testo normativo la categoria della “violazione manifesta del diritto” come fonte della pretesa di risarcimento.

Il concetto di “manifesta violazione del diritto” è un motivo di ricorso in Cassazione. L’ultimo grado di giudizio esiste proprio per porre rimedio, all’interno del sistema, ai possibili deficit interpretativi delle norme (funzione “nomofilattica” della Cassazione). Che ha senso se il diritto è attività di interpretazione di norme e valutazione del fatto e delle prove, e non di mera applicazione della legge. E infatti la legge in vigore manda esente il giudice da responsabilità per l’attività di interpretazione delle norme e valutazione del fatto. Dunque, coerentemente, chi vuole la responsabilità diretta del giudice propone di abolire questo limite normativo. Il diritto, per costoro, è mera applicazione della legge.

5) I magistrati italiani non vengono mai puniti perche il C.S.M. è un organo corporativo.

Altra critica ricorrente mossa alla magistratura italiana, attiene alla presunta inefficacia del sistema disciplinare che fa capo al C.S.M., che, essendo in prevalenza costituito da magistrati, non applicherebbe quasi mai sanzioni alla categoria che lo esprime.

E’ evidente che l’attribuzione dei poteri disciplinari ad un organismo i cui rappresentanti sono in prevalenza eletti dagli stessi magistrati costituisce una garanzia per assicurare l’indipendenza della magistratura da altri poteri.

Da più parti, anche all’interno della magistratura, sono state da tempo avanzate proposte di riforma di tale sistema al fine di renderlo più efficiente, ferma restando la necessità di salvaguardare quei principi irrinunciabili di indipendenza e autonomia.

6) Il popolo vuole che il giudice paghi di tasca propria.

Vero. Contro questo argomento c’è poco da opporre. Decenni di bombardamento mediatico forse hanno dato il loro notevole contributo. D’altronde, ogni processo è una scelta fra due parti. Necessariamente c’è chi vince e c’è chi perde. Ed è comprensibile che il soccombente se la prenda con il giudice che gli ha dato torto. Si spera che in questa battaglia non avrà al suo fianco la legge.

L’art. 2, comma 1, del d.lg. n. 109/2006 prevede ed elenca gli "illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni".

Secondo l'opinione consolidata, la soggezione del giudice soltanto alla legge implica che lo stesso, nell'esercizio delle sue funzioni, non incontri altro vincolo che quello della legge che è chiamato ad interpretare e ad applicare alla controversia da decidere: l'esclusività del vincolo tutela il giudice, nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, non solo nei confronti degli organi e dei poteri esterni alla magistratura - che, infatti, come prevede l'art. 104, comma 1, Cost., "costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" - ma anche rispetto a tutti gli altri giudici, dai quali non si distingue per gradi ma "soltanto per diversità di funzioni" (art. 107, comma 3, Cost.). Pertanto, l'indipendenza del giudice è garantita non solo verso l'esterno, ma anche all'interno della magistratura. Il che vuol dire che l'autonomia della magistratura, con l'attribuzione al CSM della competenza in materia disciplinare, non esaurisce, pur essendone un momento fondamentale, la garanzia di indipendenza del giudice che deve essere assicurata anche nei confronti del giudizio disciplinare, essendo necessario ma non sufficiente che esso sia riservato al CSM. Si deve, quindi, escludere che l'attività giurisdizionale possa essere anche indirettamente influenzata dalla preoccupazione di una responsabilità disciplinare.

L'incondizionata soggezione alla legge, sotto altro aspetto, esclude che l'indipendenza possa essere equiparata all'arbitrio, che pertanto è al di fuori della garanzia costituzionale: la legge è, al tempo stesso, il fondamento ed il limite dell'indipendenza del giudice.

Inoltre, a seguito delle modifiche del secondo comma dell'art. 2 del d.lg. n. 109/2006, dettate dalla legge n. 269/2006, nella formulazione della clausola di salvaguardia è venuta meno l'espressa previsione che la stessa si riferisce ad una interpretazione condotta in conformità a quanto previsto dall'art. 12 disp. prel. La modifica, giustificata non tanto dall'eliminazione del riferimento al citato art. 12, quanto dall'estensione della salvaguardia alla valutazione del fatto e delle prove, non elimina la necessità che l'interpretazione, per essere tale, sia comunque condotta alla stregua delle disposizioni, anche esse ovviamente suscettibili di opinabili interpretazioni, che disciplinano la relativa attività.

In definitiva, tanto partendo dalla fattispecie di illecito, quanto muovendo dalla clausola di salvaguardia, la configurabilità dell'illecito disciplinare concerne quei casi in cui la motivazione che sostiene la decisione non consente di considerare la relativa soluzione almeno come opinabile. In questo caso, si può ritenere che siano mancati i requisiti minimi dell'attività interpretativa attraverso la quale il giudice è chiamato a individuare il precetto applicabile al caso al suo esame e che la norma ed il suo significato siano stati individuati dal giudice secondo criteri arbitrari o connotati da grave negligenza e per questo non riconducibili al concetto di interpretazione; in altre parole, il giudice, in questo caso, si è sottratto alla soggezione alla legge, non ricercandone il significato nei modi dovuti. La sua attività, quindi, non rientra nella attività giurisdizionale della quale è garantita l'indipendenza anche rispetto al giudice disciplinare.

Assai delicato è il caso in cui si radicalizza un contrasto di opinioni che vede il giudice isolato, nella sua discutibile tesi, rispetto alla dottrina (il che, per la verità, di fronte ad una tesi plausibile, non accade praticamente mai) e rispetto alla restante giurisprudenza. In proposito, la giurisprudenza disciplinare ha incisivamente affermato che "qualunque interpretazione da chiunque provenga può essere disattesa, purché, e soprattutto quando si tratta della interpretazione della Corte suprema, o del Giudice delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della funzione nomofilattica. Il magistrato che dissente pertanto ha l'obbligo, anzitutto deontologico, di esprimere consapevolezza della opinione che non condivide e dunque delle ragioni per le quali ritiene comunque di andare in avviso contrario". In conclusione, sembra che sul giudice, isolato in una posizione minoritaria, incomba almeno un onere di dialogo con la contraria giurisprudenza consolidata e che, quindi, assuma rilievo disciplinare la mera ripetizione di tesi sempre disattese nei successivi gradi di giudizio.

È compito del giudice della deontologia la difficile distinzione tra il caso in cui l'ostinazione del magistrato sia conseguenza della convinzione che i suoi argomenti non siano stati esattamente compresi e possano essere utilmente riproposti ed il caso, disciplinarmente censurabile, del magistrato che, con una personalistica concezione della giustizia, finisca per porsi al di fuori del sistema, violando i doveri fondamentali di imparzialità, correttezza ed equilibrio, riproponendo una tesi che è uscita dall'area di ciò che è discutibile per gli operatori del settore per entrare, sempre per gli stessi operatori, nell'area del negativamente indiscutibile. Ciò che conta, in sostanza, è se vi sia "un atteggiamento del giudice diretto ad escludere o limitare il suo obbligo di soggezione alla legge" nella interpretazione alla stessa attribuita da un orientamento consolidato al quale, esaurito il dibattito, non sono opposti argomenti contrari.

Com'è noto, il d.lg. n. 109 del 2006 rappresenta una svolta fondamentale in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, avendo segnato il passaggio dal carattere della atipicità dell'illecito disciplinare (derivante dalla generica formulazione dell'art. 18 r.d.l. n. 511 del 1946) alla tipicità dello stesso.

In estrema sintesi, l'art. 1 d.lg. pone i requisiti fondamentali della figura del magistrato come voluta dal legislatore.

Esso dispone infatti che il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni.

La violazione dei suddetti doveri costituisce illecito disciplinare, ma solo nei casi tipici previsti dagli artt. 2, 3 e 4 d.lg.

In particolare l'art. 2 d.lg. prevede gli illeciti disciplinari commessi dal magistrato nell'esercizio delle funzioni.

La lett. d) dell'art. 2 cit., prevede i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Pare opportuno evidenziare che il termine «correttezza» può esprimere sia l'assenza di vizi (e cioè la validità) di un'argomentazione, o comunque di un'operazione tecnica, cioè vincolata da regole scientifiche.

Così, ad esempio, può dirsi corretta un'interpretazione giuridica condotta sulla base delle regole di ermeneutica comunemente accettate; o anche può dirsi corretta la valutazione di un fatto sulla base di massime di esperienza consolidate o di regole riconosciute tratte da scienze diverse da quella giuridica.

Da altro lato, quando è riferito genericamente al comportamento dell'individuo nella società (o in una più o meno ristretta comunità), il termine correttezza esprime la conformità di quel comportamento ai boni mores, ossia a delle regole di buon comportamento, di convenienza, di educazione, elaborate e comunemente accettate in quella comunità.

Si può aderire al senso che l'illecito de quo vuole colpire prevalentemente la violazione dei boni mores (regole di buon comportamento, di convenienza, di educazione).

In dottrina si è pervenuti a considerare che una prima categoria di interessi, che il magistrato è tenuto a rispettare nei suoi comportamenti, è quella degli interessi economici o, più ampiamente, materiali.

Dopo essersi evidenziato che, in quanto conseguente dal dovere di solidarietà imposto dall'art. 2 Cost., il dovere di correttezza è considerato regola generale del diritto, si è rilevato che esso ha perciò una portata più vasta dell'ambito contrattuale.

È quindi un criterio guida non solo nell'esercizio dei poteri discrezionali privati, ma anche in tutti i rapporti intersoggettivi, in essi compresi quelli di diritto pubblico.

In relazione a questi ultimi il dovere di correttezza implica un vero e proprio limite della potestà pubblica, e si esprime nel dovere di non arrecare un danno maggiore di quello necessario per la realizzazione dell'interesse pubblico per il quale la potestà è esercitata.

Il dovere di correttezza implica un limite al potere dell'amministrazione della giustizia nei confronti dei soggetti che ad essa sono soggetti.

Tradotto sul terreno del lavoro del magistrato, ne consegue la scorrettezza di quei comportamenti del magistrato (comportamenti che, però, in questo caso potrebbero assumere anche la forma di atti giudiziari in senso stretto, pur essendo estranei alla loro funzione) i quali, nel realizzare la prevalenza di posizioni soggettive private o pubbliche rispetto a taluni soggetti, non si limitino a sacrificarne gli interessi economici-materiali nella misura in cui ciò sia reso necessario dalla norma che quella prevalenza dispone, ma impongano un di più «gratuito», e cioè inutile ai fini di quella prevalenza.

Si pensi ad esempio ad un provvedimento emesso dal giudice civile ai sensi dell'art. 700 c.p.c., il quale rimette al magistrato l'individuazione di quei provvedimenti «che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».

È possibile che il magistrato, in tale sede, finisca per imporre alla controparte oneri (ad es. sotto la veste di lavori da eseguire) ulteriori e superflui rispetto a quanto sarebbe necessario per tutelare il diritto del ricorrente.

In dottrina si è anche evidenziato come il dovere di correttezza del magistrato lo impegna anche ad una condotta rispettosa delle regole che dovrebbero governare i rapporti di ufficio con i colleghi e, soprattutto, rispettosa delle regole di equilibrio e trasparenza nell'esercizio dell'attività giudiziaria, ed in particolare nell'assegnazione degli incarichi agli ausiliari; rispettosa altresì della dignità del cittadino e del soggetto con il quale il magistrato entra in contatto.

Lo impegna altresì ad un ruolo di garanzia dei diritti del cittadino, alla misura nelle motivazioni dei provvedimenti nei confronti delle persone alle quali i provvedimenti sono rivolti e nei confronti dei terzi estranei al procedimento, all'onestà e trasparenza nella vita civile.

Rispetto a questa sintetica cornice, nel delineare l'area applicativa della lett. d), va escluso ogni riferimento all'onestà e trasparenza nella vita privata, poiché la nostra è una fattispecie disciplinare espressamente e sistematicamente confinata nella vita professionale del magistrato.

Per il resto, qualche utile spunto si trae dalle categorie di soggetti lesi, indicati dalla stessa lett. d) accanto alla categoria residuale formata da «chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario»: parti, loro difensori, testimoni, magistrati, collaboratori.

Assumono rilievo i comportamenti del magistrato che risultino offensivi per il decoro e la dignità del cittadino parte del processo, come ad esempio le espressioni offensive o i maltrattamenti verbali posti in essere dal magistrato in occasione di interrogatori, partecipazione della parte alle udienze ecc.

Viceversa, non sembra che possa essere ricondotta alla fattispecie disciplinare in esame la tecnica di redazione delle motivazioni dei provvedimenti del magistrato (salvo aspetti in realtà estranei alla motivazione in senso tecnico, quali sarebbero le espressioni inutilmente offensive o comunque lesive ivi contenute).

Così, ad esempio, la Sezione disciplinare del C.S.M. ravvisò l'illecito disciplinare nella condotta C.S.M. 18 marzo 2008, n. 38 del giudice civile che redige una sentenza la cui parte motiva sia costituita sostanzialmente dalla pedissequa riproduzione del contenuto della comparsa conclusionale della parte vittoriosa.

Tale condotta del magistrato non può essere compresa nella fattispecie qui in esame, poiché il legislatore ha dedicato alla motivazione dei provvedimenti un'apposita fattispecie disciplinare, e cioè quella di cui alla lettera l) dello stesso art. 2 d.lg., con la quale ha voluto punire l'emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consista nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge, senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione sia richiesta dalla legge.

È quindi evidente che in tale disposizione, avente natura di norma speciale, il legislatore ha voluto esaurire i profili disciplinari della motivazione in senso stretto, escludendo quindi la rilevanza disciplinare della condotta in questione.

Non si può quindi recuperare un preteso difetto della motivazione ricavandolo da altra norma generale.

Del resto, la riproduzione più o meno fedele della forma grammaticale adottata dalle parti nei loro atti non significa assolutamente che il giudice abbia omesso di prenderne cognizione e di condividere consapevolmente le tesi esposte dalle parti medesime.

Ancora in tema di motivazione, la giurisprudenza disciplinare più recente esclude che la predisposizione della minuta del provvedimento prima della udienza possa realizzare una lesione dell'immagine di equidistanza del giudice e, conseguentemente, un comportamento scorretto nei confronti delle parti. 

Più ampio è lo spazio di applicazione della disposizione in esame in relazione ai difensori che, ovviamente, sono titolari anche di interessi distinti rispetto a quelli dei loro assistiti.

Per i difensori vengono in rilievo soprattutto i comportamenti del magistrato che risultino offensivi rispetto alla dignità e al decoro del professionista (si pensi, ad esempio, ad espressioni offensive formulate all'indirizzo del difensore).

L'udienza e la sua direzione appaiono, in questo senso, le sedi tipiche di tale forma di illecito.

Si consideri in proposito una non più recente decisione della Sezione disciplinare del C.S.M. in C.S.M. 23 giugno 1995, n. 97 cui si ritenne che compito del giudice è indubbiamente la direzione dell'udienza, ma nell'esercizio della sua attività è suo dovere mantenere sempre la calma, non lasciarsi andare a comportamenti polemici o a discussioni vivaci con le parti o con i loro patrocinatori, cercare di trattare con il massimo garbo ed educazione possibile le parti e i loro patrocinatori, lasciando loro formulare le istanze difensive, ancorché infondate.

Nel dirigere l'udienza (sostenne la Sezione), il giudice non ha d'altronde il diritto di impedire ai patrocinatori delle parti di fare verbalizzare loro dichiarazioni attinenti all'andamento dell'udienza.

Ad esempio, che l'art. 470 c.p.p. afferma che la disciplina dell'udienza (e la direzione del dibattimento) sono esercitate dal presidente, che decide senza formalità, e quindi il sindacato del giudice disciplinare può esercitarsi solo per quei comportamenti gratuiti, non funzionali al mantenimento di quella disciplina.

Per quanto riguarda i testimoni la condotta di rilevanza disciplinare posta in essere dal magistrato può avere anche natura omissiva.

Si pensi ad esempio, oltre ad eventuali maltrattamenti verbali rivolti dal giudice al testimone, al mancato intervento del giudice penale che presiede l'udienza dibattimentale, affinché l'esame del testimone medesimo sia condotto senza ledere il rispetto della sua persona, in violazione del comma quarto dell'art. 499 c.p.p.

Un esempio di ciò può trovarsi in una pronuncia della Sezione disciplinare del C.S.M., secondo C.S.M. 19 maggio 2008, n. 50 la quale configura illecito disciplinare la condotta del presidente di sezione, presidente di collegio penale, che, in violazione dei doveri di correttezza nei confronti del dirigente dell'ufficio e delle parti processuali, in pubblica udienza, dia atto nel verbale di causa di formulare dichiarazione di astensione in aperta polemica con provvedimenti organizzativi del dirigente dell'ufficio, tesi a disciplinare le dichiarazioni di astensione, palesando pubblicamente un contrasto relativo all'organizzazione dell'ufficio stesso e determinando una disfunzione al regolare svolgimento dell'udienza, sì da portare all'attenzione del foro e degli ambienti esterni tematiche inerenti all'organizzazione dell'ufficio.

In altri termini, si è ritenuto che costituisce fulcro della condotta illecita il contegno del magistrato improntato alla volontà di manifestare il proprio dissenso a tutti i costi e con modalità plateali rispetto ai provvedimenti organizzativi, utilizzando un atto di per se legittimo (la dichiarazione di astensione).

Pare utile citare una decisione della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale C.S.M. 21 ottobre 2005, n. 120 ravvisò l'illecito disciplinare nel comportamento del magistrato che, avendo avuto conoscenza che presso una Procura della Repubblica, ove egli aveva svolto in precedenza le funzioni di sostituto procuratore, si stavano svolgendo indagini nell'ambito di un procedimento penale relativo al rilascio di concessioni stagionali di aree demaniali (concessioni alle quali era interessato anche il proprio coniuge), si era recato presso il magistrato che reggeva l'ufficio durante il congedo ordinario del dirigente, prospettando critiche sulla conduzione delle indagini da parte del magistrato assegnatario e sulla complessiva professionalità del medesimo, e aveva cercato di interferire nelle indagini, recandosi presso alcuni ufficiali della Polizia Giudiziaria al fine di chiedere notizie riservate e copia di precedenti atti di indagine nei confronti di soggetti denuncianti e di persone politicamente loro vicine.

Si tratta di una condotta che oggi sarebbe riconducibile alla lett. e) dell'art. 2 d.lg.[2]. C.S.M. 14 novembre 1996, n. 182 C.S.M. 15 settembre 2007, n. 82

Il caso appena citato consente tuttavia di rimarcare che, relativamente ai comportamenti posti in essere nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, la disposizione in esame (lett. d) non specifica la necessità che il comportamento sia posto in essere nell'ambito dell'ufficio giudiziario.

Quindi la disposizione medesima può estendersi fino a comprendere i comportamenti scorretti tenuti dal magistrato nei confronti di altri magistrati o collaboratori esterni al suo ufficio, purché vi sia un nesso con gli atti del proprio ufficio, data la natura endofunzionale dell'illecito in questione.

Per quanto riguarda poi le relazioni del magistrato con i suoi collaboratori, tali evidentemente si intendono tutti quei soggetti che esercitano funzioni non tipicamente giudiziarie, sia pure complementari e funzionali rispetto all'attività giudiziaria propriamente intesa.

Trattasi soprattutto del personale incaricato dello svolgimento di funzioni amministrative o di polizia giudiziaria.

Si pensi, ad esempio, al magistrato del pubblico ministero che costringa un ufficiale di polizia giudiziaria allo svolgimento di attività allo stesso non delegabili, o a un magistrato giudicante che si serva del personale di cancelleria per compiti allo stesso estranei.

In proposito si veda, ad esempio, una pronuncia delle Sezioni Unite civili n. 16626 del 2007, le quali rigettarono il ricorso proposto dal magistrato fallimentare sanzionato con l'ammonimento, rilevando la correttezza e l'adeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in relazione ai plurimi addebiti disciplinari ascritti all'incolpato, consistiti nell'indebita pressione esercitata su un curatore con successiva proposta della sua revoca a fini ritorsivi.

In conclusione, come ha osservato più volte l’insigne giurista Francesco Galgano, se paragoniamo il lavoro dei magistrati italiani a quello degli altri magistrati europei, non vi è dubbio che la qualità media delle sentenze dei giudici italiani non ha nulla da invidiare a quella di altri paesi: è la lentezza dei processi il dramma della nostra giustizia, che in gran parte dipende dalle leggi e dall’organizzazione degli apparati.

Per dirla con Piero Calamandrei, (Elogio dei Giudici scritto da un avvocato) il vero segreto della giustizia "sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore: infatti il processo, e non solo quello penale, è di per sé una pena, che giudici e avvocati devono abbreviare rendendo giustizia”.

Ad ogni modo, difetti e pregi dei comuni cittadini italiani sono verosimilmente propri anche dei magistrati, alcuni di essi forse non amano il proprio lavoro o non sanno organizzarlo, ci sono sicuramente grandi inefficienze riconducibili anche a responsabilità interne; ma tutto ciò non può portare ad assistere inerti alla distruzione di una istituzione cui è demandato infine il compito di salvaguardare lo Stato di diritto.

L’esercizio della giurisdizione, oltre all’impegno dei magistrati e alla disponibilità dei mezzi, richiede anche la preservazione della “dignità” della magistratura, che non è appagamento della vanità dei singoli, ma strumento indispensabile per la concreta e quotidiana amministrazione della giustizia.

Abstract

I grandi temi di libertà, imparzialità, autonomia del giudice impegnano, oggi come ieri (e molto probabilmente come domani), studiosi, volumi e repertori giurisprudenziali per via delle intricate e controverse questioni che vi si connettono e dei nessi con gli ordinamenti costituzionali ed i principi fondamentali di ogni civiltà giuridica, soprattutto alla luce della crescente influenza della giurisprudenza europea in materia di diritti umani e dell'obbligo dei giudici nazionali di tenerne conto. Questo accade perché la neutralità giudiziale si rivela indice e strumento utile a prevenire la predeterminazione, ad opera dello Stato o dei suoi organi, degli esiti di un processo, che va governato secondo i dettami della terzietà ed imparzialità del giudice a garanzia di un'equa contesa giudiziale.  Accanto a questa dimensione culturale e politica ve ne è anche una umana, che ha a che vedere con la persona del singolo giudice e con il peso che sulle sue spalle la toga fa gravare.

Il tema della qualità della giustizia ha attirato in misura crescente l’attenzione di magistrati, avvocati, studiosi dei sistemi giudiziari, nonché di una platea sempre più vasta di cittadini interessati al buon funzionamento di un servizio pubblico di vitale importanza per la società.

Nei paesi liberal-democratici sono ormai numerose le politiche avviate al fine di valutare e migliorare il funzionamento del sistema giudiziario. Alcune di queste riforme sono tuttavia state criticate in quanto ritenute lesive delle garanzie di indipendenza dei giudici.

Qualità della giustizia che, in primo luogo, appare strettamente connessa con la qualità delle decisioni giudiziarie; queste devono applicare correttamente le norme giuridiche e devono altresì essere corredate di motivazioni chiare e ben strutturate. In secondo luogo, la qualità della giustizia ha a che fare con la qualità del procedimento giudiziario, che deve garantire ai cittadini un adeguato accesso alla giustizia e deve altresì prevedere un equo trattamento delle persone coinvolte nel processo. Questa dimensione della qualità della giustizia si riferisce alla possibilità di ricorrere al giudice, alle garanzie di imparzialità e indipendenza di quest’ultimo, alla possibilità per le parti di essere ascoltate e di difendersi, e di avvalersi dell’assistenza di un difensore. Infine, una giustizia di qualità deve prevedere la possibilità di ricorrere a modalità extragiudiziarie di risoluzione delle controversie.

I valori che sottendono la definizione di standard di qualità sono relativi alla indipendenza e imparzialità del giudice alla correttezza e celerità del procedimento.

Premesso ciò, si elencano degli spunti per la qualità della giustizia già adottate in diversi paesi europei.

1.  Regolamentazione degli appelli

-  In diversi paesi europei l’appello è solo eventuale; in Italia diversi operatori e studiosi del processo hanno suggerito di ridurre la possibilità per le parti processuali di ricorrere in appello.

2. I reclami relativi al comportamento dei magistrati e l’istituzione del difensore civico

-  In varie nazioni europee sono stati istituiti dei sistemi che permettono alle parti di un procedimento di presentare reclami relativi al comportamento tenuto da un magistrato in sede processuale. Tali reclami sono rivolti al capo dell’ Ufficio e vengono esaminati in sede locale.

3. Gli incontri fra giudici dello stesso ufficio al fine di condividere le esperienze di lavoro e la valutazione della comprensibilità delle sentenze da parte di magistrati ed avvocati

- In Italia, analogamente a quanto avviene in altri paese europei, sono previsti incontri fra giudici dello stesso ufficio per uno scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali (in base all’art. 47-quater O.G.). é molto probabile che un ricorso regolare a strumenti di questo tipo potrebbe migliorare la qualità della nostra amministrazione della giustizia.

- Al fine di migliorare la comprensibilità delle sentenze si è diffusa la pratica di far valutare questo aspetto a gruppi di giudici ed avvocati, in modo indipendente dal processo di appello; in Italia sono state fatte esperienze di questo tipo in sede di formazione. Le sentenze possono essere rese anonime occultando sia i nomi delle parti sia quello dell’estensore.

4. I poteri del giudice sulla gestione dei tempi processuali

- Nel processo civile, da più parti si è palesata l’opportunità di ampliare i poteri del giudice in merito alla gestione del procedimento, specie in relazione alla definizione dei tempi processuali.

5. L’ efficienza e l’efficacia dell’amministrazione della giustizia

- Uno degli strumenti più diffusi per aumentare la qualità della giustizia consiste nell’adozione di standard di durata dei procedimenti. I paesi che hanno varato riforme di questo tipo prevedono limiti di durata per i diversi tipi di procedimento giudiziario.

6. Il livello di complessità del sistema di rilevazione dell’efficienza della giustizia

- Una prima alternativa riguarda la struttura del sistema di rilevazione statistica. Le possibilità sono:

6.1. creare un sistema di rilevazione statistica esaustivo, anche se complesso, che si ponga l’obiettivo di descrivere in maniera dettagliata il funzionamento del sistema giudiziario;

6.2.   creare un sistema di rilevazione statistica ove vengono registrate poche informazioni essenziali utili a valutare il funzionamento del sistema giudiziario.

7. L’oggetto del sistema di rilevazione dell’efficienza della giustizia

La rilevazione e valutazione dell’efficienza richiede poi una scelta circa l’oggetto del sistema di rilevazione. Le possibilità sono:

7.1  creare un sistema per rilevare e valutare solo l’efficienza degli uffici giudiziari nel loro complesso;

7.2   creare un sistema ove viene rilevata e valutata l’efficienza anche dei singoli magistrati.

8. Le conseguenze della rilevazione dell’efficienza della giustizia in termini di allocazione delle risorse agli uffici

- La rilevazione e valutazione dell’efficienza rimanda al modo in cui i risultati della rilevazione vengono impegnati; in altre parole ci si riferisce  a come i fondi vengono distribuiti, e non a chi li distribuisce. Le esperienze straniere possono essere suddivise in due famiglie:

8.1  il Governo, o il Parlamento, a seconda dei diversi assetti costituzionali dei diversi paesi, alla luce dei dati raccolti e degli obiettivi che ogni ufficio si propone di raggiungere, negozia con i singoli uffici giudiziari le risorse umane e materiali da assegnare ad essi;

8.2   il Governo, o il Parlamento, alla luce dei dati raccolti per ogni ufficio giudiziario, attribuisce in maniera automatica, o quasi, agli uffici le risorse umane e materiali.

9. Le conseguenze della rilevazione dell’efficienza della giustizia sulla retribuzione dei magistrati

-  Il livello di efficienza di un magistrato può comportare conseguenze sul suo trattamento economico; le esperienze europee possono essere suddivise in due gruppi:

9.1   la legge può prevedere incentivi monetari per i magistrati che hanno livelli di produttività elevati;

9.2  lo stipendio dei singoli magistrati non dipende in alcun modo dai rispettivi livelli di produttività.

10. La valutazione della qualità della giustizia da parte di associazioni di cittadini e di istituti di ricerca indipendenti

- Alcuni paesi riconoscono un ruolo nel processo di valutazione ad istituzioni e associazioni private che si propongono di monitorare il funzionamento dell’amministrazione della giustizia, in maniera analoga al Tribunale per i diritti del malato in campo sanitario. Esse potrebbero essere sostenute dalle autorità pubbliche ed essere consultate e ascoltate nella valutazione della qualità della giustizia;

-   la qualità della giustizia potrebbe essere valutata anche attraverso rapporti preparati da istituti di ricerca indipendenti.

11. La valutazione della qualità della giustizia tramite l’impiego di osservatori addestrati

- Alcuni sistemi giudiziari prevedono l’impiego di osservatori addestrati che si recano in udienza senza farsi riconoscere e valutano il comportamento del giudice nel processo. Gli osservatori possono essere reclutati sia a livello ministeriale sia a livello locale, di singoli uffici giudiziari.

I sopraelencati argomenti sono stati anche oggetto di un’inchiesta campionaria (SAPIGNOLI M. Qualità della giustizia e indipendenza della magistratura nell’opinione dei magistrati italiani, Bologna, 2009) rivolta a giudici e pubblici ministeri i quali non si sono mostrati ostili verso forme di innovazione volte al miglioramento ed alla valutazione della qualità della giustizia italiana, ma hanno fortemente criticato tutte quelle riforme che vengono da soggetti esterni alla magistratura.

La responsabilità disciplinare di magistrati si configura come la soggezione del magistrato a una sanzione in caso di comportamento illecito, posto in essere all’interno o all’esterno delle funzioni giudiziarie, ed è una conseguenza del rapporto di impiego (di natura pubblicistica) che intercorre tra il magistrato e lo Stato. Essa tende ad assicurare sia il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, garantendo il corretto adempimento dei doveri ad essa connessi, sia il prestigio del singolo magistrato e dell’ordine giudiziario a cui i cittadini devono fiduciosamente potersi rivolgere, tutelando l’onestà e la competenza della professione giudiziaria.

Date queste finalità, al controllo disciplinare vengono riconosciute essenzialmente due funzioni: una repressiva, intesa ad imporre una sanzione nei confronti del magistrato responsabile di una determinata violazione, e una didattica e preventiva, volta ad orientare i comportamenti futuri dei magistrati e a prevenire possibili atti lesivi della funzione giudiziaria. Nell’ambito della funzione repressiva, inoltre, il controllo disciplinare costituisce un importante strumento di selezione negativa dei magistrati poiché – potendo disporre anche di sanzioni con effetti espulsivi, come la rimozione dall’ufficio – è potenzialmente in grado di allontanare dal servizio le persone che non si sono dimostrate idonee allo svolgimento della funzione giudiziaria.

GLI ARGOMENTI (luoghi comuni) PIù “GETTONATI”

Attorno allo scottante tema della responsabilità civile dei magistrati hanno ruotato, ruotano e continueranno a ruotare una gran quantità di argomenti che vengono proposti e puntualmente confutati.

1) Il giudice che sbaglia deve pagare.

Da come la cosa viene presentata, sembra che non esista alcuna forma di responsabilità. Falso. La responsabilità esiste, e prevede che, in caso di dolo o colpa grave, sia lo Stato a indennizzare il cittadino.

2) Il giudice non paga mai di tasca propria.

Falso. Lo Stato ha diritto di rivalsa sul giudice.

3) Il giudice gode di un privilegio castale che li rende diversi da tutti gli altri cittadini, medici, architetti, ingegneri, i quali, si sa, pagano di tasca propria.

Non è proprio così. Ci sono almeno due categorie di cittadini che non pagano di tasca propria. Il personale direttivo, docente, educativo e non docente delle scuole materne, elementari, secondarie e artistiche risponde dei danni provocati dagli alunni soltanto in caso di dolo o colpa grave nella vigilanza degli stessi, la causa si propone contro lo Stato che, se ha torto, paga. E poi, sempre che esistano dolo o colpa grave, si può rivalere sul singolo dirigente, insegnante o bidello che sia. Motivo: evitare che la scuola, della quale si riconosce la preziosa, essenziale funzione sociale, diventi una palestra di ritorsioni. Quanto alla seconda categoria di cittadini che non pagano di tasca propria, ne fanno parte gli amministratori dei partiti politici, i quali, in virtù di un articolo della legge sul finanziamento, “rispondono delle obbligazioni assunte in nome e per conto del partito solamente nei casi di dolo e colpa grave”. A pagare per il partito insolvente, in altri termini, è lo Stato. Che adempie alle obbligazioni dei partiti attraverso un fondo di garanzia costituito presso il Ministero dell’ Economia e delle Finanze, per la precisione presso il dipartimento del Tesoro. Motivo: il riconoscimento del ruolo centrale dei partiti nella vita politica. Se, dunque, scuola e partiti sono essenziali al funzionamento della società e godono di un regime “privilegiato”, non si capisce perché i giudici ne debbano essere esclusi.

4) “Dolo e colpa grave” non sono sufficienti. Deve essere sanzionato l’errore in sé. Infatti, c’è la tendenza a voler inserire in questo o quel testo normativo la categoria della “violazione manifesta del diritto” come fonte della pretesa di risarcimento.

Il concetto di “manifesta violazione del diritto” è un motivo di ricorso in Cassazione. L’ultimo grado di giudizio esiste proprio per porre rimedio, all’interno del sistema, ai possibili deficit interpretativi delle norme (funzione “nomofilattica” della Cassazione). Che ha senso se il diritto è attività di interpretazione di norme e valutazione del fatto e delle prove, e non di mera applicazione della legge. E infatti la legge in vigore manda esente il giudice da responsabilità per l’attività di interpretazione delle norme e valutazione del fatto. Dunque, coerentemente, chi vuole la responsabilità diretta del giudice propone di abolire questo limite normativo. Il diritto, per costoro, è mera applicazione della legge.

5) I magistrati italiani non vengono mai puniti perche il C.S.M. è un organo corporativo.

Altra critica ricorrente mossa alla magistratura italiana, attiene alla presunta inefficacia del sistema disciplinare che fa capo al C.S.M., che, essendo in prevalenza costituito da magistrati, non applicherebbe quasi mai sanzioni alla categoria che lo esprime.

E’ evidente che l’attribuzione dei poteri disciplinari ad un organismo i cui rappresentanti sono in prevalenza eletti dagli stessi magistrati costituisce una garanzia per assicurare l’indipendenza della magistratura da altri poteri.

Da più parti, anche all’interno della magistratura, sono state da tempo avanzate proposte di riforma di tale sistema al fine di renderlo più efficiente, ferma restando la necessità di salvaguardare quei principi irrinunciabili di indipendenza e autonomia.

6) Il popolo vuole che il giudice paghi di tasca propria.

Vero. Contro questo argomento c’è poco da opporre. Decenni di bombardamento mediatico forse hanno dato il loro notevole contributo. D’altronde, ogni processo è una scelta fra due parti. Necessariamente c’è chi vince e c’è chi perde. Ed è comprensibile che il soccombente se la prenda con il giudice che gli ha dato torto. Si spera che in questa battaglia non avrà al suo fianco la legge.

L’art. 2, comma 1, del d.lg. n. 109/2006 prevede ed elenca gli "illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni".

Secondo l'opinione consolidata, la soggezione del giudice soltanto alla legge implica che lo stesso, nell'esercizio delle sue funzioni, non incontri altro vincolo che quello della legge che è chiamato ad interpretare e ad applicare alla controversia da decidere: l'esclusività del vincolo tutela il giudice, nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, non solo nei confronti degli organi e dei poteri esterni alla magistratura - che, infatti, come prevede l'art. 104, comma 1, Cost., "costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" - ma anche rispetto a tutti gli altri giudici, dai quali non si distingue per gradi ma "soltanto per diversità di funzioni" (art. 107, comma 3, Cost.). Pertanto, l'indipendenza del giudice è garantita non solo verso l'esterno, ma anche all'interno della magistratura. Il che vuol dire che l'autonomia della magistratura, con l'attribuzione al CSM della competenza in materia disciplinare, non esaurisce, pur essendone un momento fondamentale, la garanzia di indipendenza del giudice che deve essere assicurata anche nei confronti del giudizio disciplinare, essendo necessario ma non sufficiente che esso sia riservato al CSM. Si deve, quindi, escludere che l'attività giurisdizionale possa essere anche indirettamente influenzata dalla preoccupazione di una responsabilità disciplinare.

L'incondizionata soggezione alla legge, sotto altro aspetto, esclude che l'indipendenza possa essere equiparata all'arbitrio, che pertanto è al di fuori della garanzia costituzionale: la legge è, al tempo stesso, il fondamento ed il limite dell'indipendenza del giudice.

Inoltre, a seguito delle modifiche del secondo comma dell'art. 2 del d.lg. n. 109/2006, dettate dalla legge n. 269/2006, nella formulazione della clausola di salvaguardia è venuta meno l'espressa previsione che la stessa si riferisce ad una interpretazione condotta in conformità a quanto previsto dall'art. 12 disp. prel. La modifica, giustificata non tanto dall'eliminazione del riferimento al citato art. 12, quanto dall'estensione della salvaguardia alla valutazione del fatto e delle prove, non elimina la necessità che l'interpretazione, per essere tale, sia comunque condotta alla stregua delle disposizioni, anche esse ovviamente suscettibili di opinabili interpretazioni, che disciplinano la relativa attività.

In definitiva, tanto partendo dalla fattispecie di illecito, quanto muovendo dalla clausola di salvaguardia, la configurabilità dell'illecito disciplinare concerne quei casi in cui la motivazione che sostiene la decisione non consente di considerare la relativa soluzione almeno come opinabile. In questo caso, si può ritenere che siano mancati i requisiti minimi dell'attività interpretativa attraverso la quale il giudice è chiamato a individuare il precetto applicabile al caso al suo esame e che la norma ed il suo significato siano stati individuati dal giudice secondo criteri arbitrari o connotati da grave negligenza e per questo non riconducibili al concetto di interpretazione; in altre parole, il giudice, in questo caso, si è sottratto alla soggezione alla legge, non ricercandone il significato nei modi dovuti. La sua attività, quindi, non rientra nella attività giurisdizionale della quale è garantita l'indipendenza anche rispetto al giudice disciplinare.

Assai delicato è il caso in cui si radicalizza un contrasto di opinioni che vede il giudice isolato, nella sua discutibile tesi, rispetto alla dottrina (il che, per la verità, di fronte ad una tesi plausibile, non accade praticamente mai) e rispetto alla restante giurisprudenza. In proposito, la giurisprudenza disciplinare ha incisivamente affermato che "qualunque interpretazione da chiunque provenga può essere disattesa, purché, e soprattutto quando si tratta della interpretazione della Corte suprema, o del Giudice delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della funzione nomofilattica. Il magistrato che dissente pertanto ha l'obbligo, anzitutto deontologico, di esprimere consapevolezza della opinione che non condivide e dunque delle ragioni per le quali ritiene comunque di andare in avviso contrario". In conclusione, sembra che sul giudice, isolato in una posizione minoritaria, incomba almeno un onere di dialogo con la contraria giurisprudenza consolidata e che, quindi, assuma rilievo disciplinare la mera ripetizione di tesi sempre disattese nei successivi gradi di giudizio.

È compito del giudice della deontologia la difficile distinzione tra il caso in cui l'ostinazione del magistrato sia conseguenza della convinzione che i suoi argomenti non siano stati esattamente compresi e possano essere utilmente riproposti ed il caso, disciplinarmente censurabile, del magistrato che, con una personalistica concezione della giustizia, finisca per porsi al di fuori del sistema, violando i doveri fondamentali di imparzialità, correttezza ed equilibrio, riproponendo una tesi che è uscita dall'area di ciò che è discutibile per gli operatori del settore per entrare, sempre per gli stessi operatori, nell'area del negativamente indiscutibile. Ciò che conta, in sostanza, è se vi sia "un atteggiamento del giudice diretto ad escludere o limitare il suo obbligo di soggezione alla legge" nella interpretazione alla stessa attribuita da un orientamento consolidato al quale, esaurito il dibattito, non sono opposti argomenti contrari.

Com'è noto, il d.lg. n. 109 del 2006 rappresenta una svolta fondamentale in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, avendo segnato il passaggio dal carattere della atipicità dell'illecito disciplinare (derivante dalla generica formulazione dell'art. 18 r.d.l. n. 511 del 1946) alla tipicità dello stesso.

In estrema sintesi, l'art. 1 d.lg. pone i requisiti fondamentali della figura del magistrato come voluta dal legislatore.

Esso dispone infatti che il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni.

La violazione dei suddetti doveri costituisce illecito disciplinare, ma solo nei casi tipici previsti dagli artt. 2, 3 e 4 d.lg.

In particolare l'art. 2 d.lg. prevede gli illeciti disciplinari commessi dal magistrato nell'esercizio delle funzioni.

La lett. d) dell'art. 2 cit., prevede i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Pare opportuno evidenziare che il termine «correttezza» può esprimere sia l'assenza di vizi (e cioè la validità) di un'argomentazione, o comunque di un'operazione tecnica, cioè vincolata da regole scientifiche.

Così, ad esempio, può dirsi corretta un'interpretazione giuridica condotta sulla base delle regole di ermeneutica comunemente accettate; o anche può dirsi corretta la valutazione di un fatto sulla base di massime di esperienza consolidate o di regole riconosciute tratte da scienze diverse da quella giuridica.

Da altro lato, quando è riferito genericamente al comportamento dell'individuo nella società (o in una più o meno ristretta comunità), il termine correttezza esprime la conformità di quel comportamento ai boni mores, ossia a delle regole di buon comportamento, di convenienza, di educazione, elaborate e comunemente accettate in quella comunità.

Si può aderire al senso che l'illecito de quo vuole colpire prevalentemente la violazione dei boni mores (regole di buon comportamento, di convenienza, di educazione).

In dottrina si è pervenuti a considerare che una prima categoria di interessi, che il magistrato è tenuto a rispettare nei suoi comportamenti, è quella degli interessi economici o, più ampiamente, materiali.

Dopo essersi evidenziato che, in quanto conseguente dal dovere di solidarietà imposto dall'art. 2 Cost., il dovere di correttezza è considerato regola generale del diritto, si è rilevato che esso ha perciò una portata più vasta dell'ambito contrattuale.

È quindi un criterio guida non solo nell'esercizio dei poteri discrezionali privati, ma anche in tutti i rapporti intersoggettivi, in essi compresi quelli di diritto pubblico.

In relazione a questi ultimi il dovere di correttezza implica un vero e proprio limite della potestà pubblica, e si esprime nel dovere di non arrecare un danno maggiore di quello necessario per la realizzazione dell'interesse pubblico per il quale la potestà è esercitata.

Il dovere di correttezza implica un limite al potere dell'amministrazione della giustizia nei confronti dei soggetti che ad essa sono soggetti.

Tradotto sul terreno del lavoro del magistrato, ne consegue la scorrettezza di quei comportamenti del magistrato (comportamenti che, però, in questo caso potrebbero assumere anche la forma di atti giudiziari in senso stretto, pur essendo estranei alla loro funzione) i quali, nel realizzare la prevalenza di posizioni soggettive private o pubbliche rispetto a taluni soggetti, non si limitino a sacrificarne gli interessi economici-materiali nella misura in cui ciò sia reso necessario dalla norma che quella prevalenza dispone, ma impongano un di più «gratuito», e cioè inutile ai fini di quella prevalenza.

Si pensi ad esempio ad un provvedimento emesso dal giudice civile ai sensi dell'art. 700 c.p.c., il quale rimette al magistrato l'individuazione di quei provvedimenti «che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».

È possibile che il magistrato, in tale sede, finisca per imporre alla controparte oneri (ad es. sotto la veste di lavori da eseguire) ulteriori e superflui rispetto a quanto sarebbe necessario per tutelare il diritto del ricorrente.

In dottrina si è anche evidenziato come il dovere di correttezza del magistrato lo impegna anche ad una condotta rispettosa delle regole che dovrebbero governare i rapporti di ufficio con i colleghi e, soprattutto, rispettosa delle regole di equilibrio e trasparenza nell'esercizio dell'attività giudiziaria, ed in particolare nell'assegnazione degli incarichi agli ausiliari; rispettosa altresì della dignità del cittadino e del soggetto con il quale il magistrato entra in contatto.

Lo impegna altresì ad un ruolo di garanzia dei diritti del cittadino, alla misura nelle motivazioni dei provvedimenti nei confronti delle persone alle quali i provvedimenti sono rivolti e nei confronti dei terzi estranei al procedimento, all'onestà e trasparenza nella vita civile.

Rispetto a questa sintetica cornice, nel delineare l'area applicativa della lett. d), va escluso ogni riferimento all'onestà e trasparenza nella vita privata, poiché la nostra è una fattispecie disciplinare espressamente e sistematicamente confinata nella vita professionale del magistrato.

Per il resto, qualche utile spunto si trae dalle categorie di soggetti lesi, indicati dalla stessa lett. d) accanto alla categoria residuale formata da «chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario»: parti, loro difensori, testimoni, magistrati, collaboratori.

Assumono rilievo i comportamenti del magistrato che risultino offensivi per il decoro e la dignità del cittadino parte del processo, come ad esempio le espressioni offensive o i maltrattamenti verbali posti in essere dal magistrato in occasione di interrogatori, partecipazione della parte alle udienze ecc.

Viceversa, non sembra che possa essere ricondotta alla fattispecie disciplinare in esame la tecnica di redazione delle motivazioni dei provvedimenti del magistrato (salvo aspetti in realtà estranei alla motivazione in senso tecnico, quali sarebbero le espressioni inutilmente offensive o comunque lesive ivi contenute).

Così, ad esempio, la Sezione disciplinare del C.S.M. ravvisò l'illecito disciplinare nella condotta C.S.M. 18 marzo 2008, n. 38 del giudice civile che redige una sentenza la cui parte motiva sia costituita sostanzialmente dalla pedissequa riproduzione del contenuto della comparsa conclusionale della parte vittoriosa.

Tale condotta del magistrato non può essere compresa nella fattispecie qui in esame, poiché il legislatore ha dedicato alla motivazione dei provvedimenti un'apposita fattispecie disciplinare, e cioè quella di cui alla lettera l) dello stesso art. 2 d.lg., con la quale ha voluto punire l'emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consista nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge, senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione sia richiesta dalla legge.

È quindi evidente che in tale disposizione, avente natura di norma speciale, il legislatore ha voluto esaurire i profili disciplinari della motivazione in senso stretto, escludendo quindi la rilevanza disciplinare della condotta in questione.

Non si può quindi recuperare un preteso difetto della motivazione ricavandolo da altra norma generale.

Del resto, la riproduzione più o meno fedele della forma grammaticale adottata dalle parti nei loro atti non significa assolutamente che il giudice abbia omesso di prenderne cognizione e di condividere consapevolmente le tesi esposte dalle parti medesime.

Ancora in tema di motivazione, la giurisprudenza disciplinare più recente esclude che la predisposizione della minuta del provvedimento prima della udienza possa realizzare una lesione dell'immagine di equidistanza del giudice e, conseguentemente, un comportamento scorretto nei confronti delle parti. 

Più ampio è lo spazio di applicazione della disposizione in esame in relazione ai difensori che, ovviamente, sono titolari anche di interessi distinti rispetto a quelli dei loro assistiti.

Per i difensori vengono in rilievo soprattutto i comportamenti del magistrato che risultino offensivi rispetto alla dignità e al decoro del professionista (si pensi, ad esempio, ad espressioni offensive formulate all'indirizzo del difensore).

L'udienza e la sua direzione appaiono, in questo senso, le sedi tipiche di tale forma di illecito.

Si consideri in proposito una non più recente decisione della Sezione disciplinare del C.S.M. in C.S.M. 23 giugno 1995, n. 97 cui si ritenne che compito del giudice è indubbiamente la direzione dell'udienza, ma nell'esercizio della sua attività è suo dovere mantenere sempre la calma, non lasciarsi andare a comportamenti polemici o a discussioni vivaci con le parti o con i loro patrocinatori, cercare di trattare con il massimo garbo ed educazione possibile le parti e i loro patrocinatori, lasciando loro formulare le istanze difensive, ancorché infondate.

Nel dirigere l'udienza (sostenne la Sezione), il giudice non ha d'altronde il diritto di impedire ai patrocinatori delle parti di fare verbalizzare loro dichiarazioni attinenti all'andamento dell'udienza.

Ad esempio, che l'art. 470 c.p.p. afferma che la disciplina dell'udienza (e la direzione del dibattimento) sono esercitate dal presidente, che decide senza formalità, e quindi il sindacato del giudice disciplinare può esercitarsi solo per quei comportamenti gratuiti, non funzionali al mantenimento di quella disciplina.

Per quanto riguarda i testimoni la condotta di rilevanza disciplinare posta in essere dal magistrato può avere anche natura omissiva.

Si pensi ad esempio, oltre ad eventuali maltrattamenti verbali rivolti dal giudice al testimone, al mancato intervento del giudice penale che presiede l'udienza dibattimentale, affinché l'esame del testimone medesimo sia condotto senza ledere il rispetto della sua persona, in violazione del comma quarto dell'art. 499 c.p.p.

Un esempio di ciò può trovarsi in una pronuncia della Sezione disciplinare del C.S.M., secondo C.S.M. 19 maggio 2008, n. 50 la quale configura illecito disciplinare la condotta del presidente di sezione, presidente di collegio penale, che, in violazione dei doveri di correttezza nei confronti del dirigente dell'ufficio e delle parti processuali, in pubblica udienza, dia atto nel verbale di causa di formulare dichiarazione di astensione in aperta polemica con provvedimenti organizzativi del dirigente dell'ufficio, tesi a disciplinare le dichiarazioni di astensione, palesando pubblicamente un contrasto relativo all'organizzazione dell'ufficio stesso e determinando una disfunzione al regolare svolgimento dell'udienza, sì da portare all'attenzione del foro e degli ambienti esterni tematiche inerenti all'organizzazione dell'ufficio.

In altri termini, si è ritenuto che costituisce fulcro della condotta illecita il contegno del magistrato improntato alla volontà di manifestare il proprio dissenso a tutti i costi e con modalità plateali rispetto ai provvedimenti organizzativi, utilizzando un atto di per se legittimo (la dichiarazione di astensione).

Pare utile citare una decisione della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale C.S.M. 21 ottobre 2005, n. 120 ravvisò l'illecito disciplinare nel comportamento del magistrato che, avendo avuto conoscenza che presso una Procura della Repubblica, ove egli aveva svolto in precedenza le funzioni di sostituto procuratore, si stavano svolgendo indagini nell'ambito di un procedimento penale relativo al rilascio di concessioni stagionali di aree demaniali (concessioni alle quali era interessato anche il proprio coniuge), si era recato presso il magistrato che reggeva l'ufficio durante il congedo ordinario del dirigente, prospettando critiche sulla conduzione delle indagini da parte del magistrato assegnatario e sulla complessiva professionalità del medesimo, e aveva cercato di interferire nelle indagini, recandosi presso alcuni ufficiali della Polizia Giudiziaria al fine di chiedere notizie riservate e copia di precedenti atti di indagine nei confronti di soggetti denuncianti e di persone politicamente loro vicine.

Si tratta di una condotta che oggi sarebbe riconducibile alla lett. e) dell'art. 2 d.lg.[2]. C.S.M. 14 novembre 1996, n. 182 C.S.M. 15 settembre 2007, n. 82

Il caso appena citato consente tuttavia di rimarcare che, relativamente ai comportamenti posti in essere nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, la disposizione in esame (lett. d) non specifica la necessità che il comportamento sia posto in essere nell'ambito dell'ufficio giudiziario.

Quindi la disposizione medesima può estendersi fino a comprendere i comportamenti scorretti tenuti dal magistrato nei confronti di altri magistrati o collaboratori esterni al suo ufficio, purché vi sia un nesso con gli atti del proprio ufficio, data la natura endofunzionale dell'illecito in questione.

Per quanto riguarda poi le relazioni del magistrato con i suoi collaboratori, tali evidentemente si intendono tutti quei soggetti che esercitano funzioni non tipicamente giudiziarie, sia pure complementari e funzionali rispetto all'attività giudiziaria propriamente intesa.

Trattasi soprattutto del personale incaricato dello svolgimento di funzioni amministrative o di polizia giudiziaria.

Si pensi, ad esempio, al magistrato del pubblico ministero che costringa un ufficiale di polizia giudiziaria allo svolgimento di attività allo stesso non delegabili, o a un magistrato giudicante che si serva del personale di cancelleria per compiti allo stesso estranei.

In proposito si veda, ad esempio, una pronuncia delle Sezioni Unite civili n. 16626 del 2007, le quali rigettarono il ricorso proposto dal magistrato fallimentare sanzionato con l'ammonimento, rilevando la correttezza e l'adeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in relazione ai plurimi addebiti disciplinari ascritti all'incolpato, consistiti nell'indebita pressione esercitata su un curatore con successiva proposta della sua revoca a fini ritorsivi.

In conclusione, come ha osservato più volte l’insigne giurista Francesco Galgano, se paragoniamo il lavoro dei magistrati italiani a quello degli altri magistrati europei, non vi è dubbio che la qualità media delle sentenze dei giudici italiani non ha nulla da invidiare a quella di altri paesi: è la lentezza dei processi il dramma della nostra giustizia, che in gran parte dipende dalle leggi e dall’organizzazione degli apparati.

Per dirla con Piero Calamandrei, (Elogio dei Giudici scritto da un avvocato) il vero segreto della giustizia "sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore: infatti il processo, e non solo quello penale, è di per sé una pena, che giudici e avvocati devono abbreviare rendendo giustizia”.

Ad ogni modo, difetti e pregi dei comuni cittadini italiani sono verosimilmente propri anche dei magistrati, alcuni di essi forse non amano il proprio lavoro o non sanno organizzarlo, ci sono sicuramente grandi inefficienze riconducibili anche a responsabilità interne; ma tutto ciò non può portare ad assistere inerti alla distruzione di una istituzione cui è demandato infine il compito di salvaguardare lo Stato di diritto.

L’esercizio della giurisdizione, oltre all’impegno dei magistrati e alla disponibilità dei mezzi, richiede anche la preservazione della “dignità” della magistratura, che non è appagamento della vanità dei singoli, ma strumento indispensabile per la concreta e quotidiana amministrazione della giustizia.