La pubblicità; degli avvocati non può; assumere i toni della pubblicità commerciale
1. Le massime In tema di illeciti disciplinari riguardanti gli avvocati, mentre è da ritenere legittima la pubblicità informativa dell’attività professionale finalizzata all’acquisizione della clientela, la stessa pubblicità è sanzionabile disciplinarmente - ai sensi della legge professionale e delle norme del codice deontologico forense - ove venga svolta con modalità lesive del decoro e della dignità della professione (nella specie, veniva ritenuto lesivo l’impiego, da parte di due avvocati esercenti la professione in forma associata, dell’indicazione “negozio” e del logo “L’angolo dei diritti”). Il decreto Bersani (D.L. n. 223 del 2006), in tema di pubblicità per gli esercenti attività libero-professionali, si è limitato ad abrogare le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa, nonché ad imporre, a pena di nullità, l’adeguamento all’abolizione di tali divieti delle disposizioni deontologiche e pattizie e dei codici di autodisciplina (detto adeguamento è stato realizzato dal Consiglio Nazionale Forense con le deliberazioni adottate negli anni 2007 e 2008). L’intervento riformatore avvenuto con D.L. n. 223 del 2006 nulla ha disposto circa il rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa degli avvocati è realizzata, né ha inciso sull’assoggettamento dei legali che si rendono colpevoli di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale a procedimento disciplinare, con la conseguenza che è certamente consentito all’organo disciplinare individuare forme di illecito (non già nella pubblicità informativa in sé, ma) nelle modalità e nel contenuto con cui essa viene realizzata, ove lesivi del decoro e della dignità della professione, e (neppure nelle iniziative di acquisizione della clientela in sé, ma) negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, allorché questi non siano conformi alla correttezza ed al decoro professionale. 2. Il caso Gli avvocati Tizio e Caio avviavano l’attività dello studio legale associato facendo impiego del logo “L’angolo dei diritti” in un locale posto sul piano strada. Alle vetrine venivano applicate vetrofanie multilingue e venivano indicate le materie trattate. Inoltre, venivano esposti gli orari di apertura con la dicitura “orari negozio”, con indicazione del sito internet ed enumerazione delle materie trattate. Una ulteriore vetrofania offriva prestazioni professionali, anche giudiziali, a costo predeterminato e forfetariamente quantificato, senza riferimento al valore ed all’importanza della pratica, nonché alla sua presumibile durata. I professionisti rilasciavano due differenti interviste dalle quali risultavano, in virgolettato, le seguenti affermazioni "costi fissati dall’inizio e destinati a rimanere tali, senza spese per i clienti", "lo studio su Internet sarà sempre aperto", "Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza, il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino alla giustizia, promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni". Il sito internet dello studio associato operava senza che vi fosse stata alcuna comunicazione all’Ordine territoriale e su di esso non figurava alcuna indicazione nominativa dei professionisti che vi facevano parte, né del foro di appartenenza degli stessi. Sul sito venivano riportate le espressioni "si concedono a richiesta pagamenti personalizzati e dilazionati e patto di quota lite" ed il sito recava l’indicazione di professionisti operanti nello studio che, in realtà, appositamente interpellati, negavano alcuna forma di collaborazione. All’esito del procedimento disciplinare, avviato in relazione ai fatti così sinteticamente esposti, il Consiglio dell’Ordine territorialmente competente, riconosciuta fondata la quasi totalità dei capi di incolpazione formulati in capo agli avvocati Tizio e Caio, irrogava loro la sanzione della censura. Avverso la predetta decisione, Tizio e Caio proponevano ricorso al Consiglio Nazionale Forense, il quale confermava la decisione di primo grado. La sentenza del Consiglio Nazionale Forense veniva, da ultimo, impugnata dal solo Tizio con ricorso per cassazione. 3. La decisione Opportunamente, il supremo collegio rammenta anzitutto come risulti delimitato normativamente l’ambito dei motivi di gravame conoscibili in sede di ricorso per cassazione avverso le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense. Tre sono, più precisamente i vizi deducibili, vale a dire: l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di legge. L’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle incolpazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono formare oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Essendo vere e proprie decisioni giurisdizionali, peraltro, le decisioni del Consiglio Nazionale Forense non si sottraggono all’obbligo di motivazione ai sensi dell’art. 111, co. 6, Cost., pur non essendo stato espressamente tipizzato dal legislatore il difetto di motivazione nel novero dei vizi deducibili dinanzi alle Sezioni Unite. La Corte di cassazione non può, tuttavia, sostituirsi all’organo disciplinare né nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, né nell’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni contestate. Nella condotta degli avvocati coinvolti nella vicenda processuale in esame venivano ravvisati dal Consiglio dell’Ordine territoriale, con decisione poi confermata in sede di impugnativa dal Consiglio Nazionale Forense, la violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (art. 5, del codice deontologico forense, d’ora in poi: solo C.D.F.), nonché l’avere infranto il divieto di accaparramento della clientela, divieto anch’esso previsto, all’art. 19, dalle norme deontologiche ed espressamente diretto a reprimere ogni condotta diretta all’acquisizione di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori ovvero – più in generale – “con modi comunque non conformi alla correttezza e decoro”. Veniva ravvisata, inoltre, la ricorrenza della violazione dell’art.43, secondo canone complementare, C.D.F., per avere richiesto compensi professionali “manifestamente sproporzionati” rispetto all’attività svolta, comportamento – quest’ultimo – collidente anche con la previsione di cui all’art. 2233, co. 2, cod. civ., ove si seguita a prevedere – anche dopo gli interventi di riforma nella materia in oggetto e, in particolare, il così detto decreto Bersani – che “In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”. Ulteriori violazioni ravvisate erano relative all’omesso rispetto da parte di Tizio e Caio delle modalità della pubblicità informativa prescritte all’art. 17 bis, C.D.F., nonché al mancato rispetto dei criteri indicati all’art. 18 C.D.F. per quanto concerne i rapporti dell’avvocato con la stampa. Infine, si riteneva violato anche l’art. 24 C.D.F. per non avere i due avvocati in questione rispettato il dovere di verità su di loro gravante verso il Consiglio dell’Ordine, atteso che – in sede di audizione presso l’Ordine – Tizio e Caio avevano indicato quali collaboratori dello studio due legali di fatto in esso non operanti. Il Consiglio Nazionale Forense, nella decisione confermata dalla Suprema Corte, offriva alcune indicazioni utili circa i limiti cui la pubblicità degli studi legali deve, secondo le vigenti previsioni deontologiche, ritenersi consentita. Il Consiglio, in particolare, evidenziava come non fosse l’inusuale localizzazione dello studio a comportare di per sé una violazione deontologica né le altrettanto inusuali modalità comunicative prescelte. Tuttavia, l’avvenuta abrogazione degli antichi divieti di pubblicità, non ha comportato l’ammissibilità di una pubblicità indiscriminata, ma soltanto consentito la diffusione di specifiche informazioni sull’attività svolta. Simili informazioni sono dirette a consentire scelte consapevoli da parte di colui che cerchi assistenza legale, il quale potrà negoziare liberamente con l’avvocato prescelto il compenso professionale. Malgrado ciò, la dignità ed il decoro devono improntare ogni forma di pubblicità da parte dell’avvocato. In una simile ottica si giustifica anche la cautela, espressasi già a livello terminologico nel codice deontologico forense, costituita dall’impiego dell’espressione “Informazioni sull’attività professionale” – quale intestazione dell’art. 17 – e non già dell’espressione “pubblicità professionale”, a denotare la peculiarità e la specificità della professione forense in fatto di comunicazioni volte all’esterno e dirette a far conoscere lo studio al cospetto della platea dei potenziali clienti. Al professionista è, pertanto, impedito l’impiego di espressioni dotate di "capacità evocativa emozionale" e sorrette dall’intento di captare clientela, secondo i moduli comunicativi della pubblicità commerciale, essendo tuttavia consentito fornire elementi informativi che consentano agli interessati di acquisire elementi utili per la scelta del professionista cui rivolgersi. Quanto alla determinazione del compenso, una volta venute meno le tariffe obbligatorie, se è vero che esso può essere oggetto di una libera contrattazione, è altresì vero che non è venuto meno il principio di proporzionalità dei compensi all’attività svolta, senza considerare che il decoro professionale sarebbe svilito dall’offerta di compensi eccessivamente bassi. La Suprema Corte, ritenuti infondati i motivi di doglianza, rigetta il ricorso e conferma la decisione impugnata, riaffermando così l’esistenza di precisi limiti alla pubblicità dell’avvocato ed i connessi poteri disciplinari rimessi alla vigilanza degli Ordini territoriale, attesa la non assimilabilità delle prestazioni offerte dagli avvocati a qualsiasi altra prestazione di servizi. 4. I precedenti Circa i limiti in cui incorre l’impugnabilità delle sentenze del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare per violazione dell’obbligo di motivazione in forza dell’art. 111, co. 6, Cost., in sentenza sono richiamate le seguenti sentenze delle Sezioni Unite: nn. 21584 e 18695 del 2011, nn. 2637 del 2009, nn. 20360 e 7103 del 2007, n. 4802 del 2005. In merito ai limiti della pubblicità informativa, inoltre, in sentenza è richiamata la pronuncia n. 23287 del 2010, avente ad oggetto il caso – balzato agli onori delle cronache – di uno studio legale aperto sulla pubblica via con l’insegna "A.L.T. - Assistenza Legale per Tutti - prima consulenza gratuita". 5. Le prospettive di riforma Anche il testo da poco approvato dalla Camera dei Deputati in data 31 ottobre 2012, all’art. 10, rubricato “Informazioni sull’esercizio della professione”, consente la pubblicità informativa dell’avvocato sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifico-professionali posseduti, con qualunque mezzo, anche informatico, purché le informazioni diffuse siano trasparenti, veritiere, corrette e non comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. Si prevede, inoltre, che “le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura ed ai limiti dell’obbligazione professionale” ed è espressamente ribadito che l’inosservanza delle disposizioni ivi richiamate costituisce illecito disciplinare. Il legislatore, pur aprendosi all’evoluzione, con l’espressa previsione della pubblicità realizzata con “mezzi informatici”, si mostra comunque consapevole delle peculiarità proprie della professione forense, le quali si riverberano sul regime dei riaffermati limiti che contrassegnano la pubblicità dell’avvocato.
1. Le massime In tema di illeciti disciplinari riguardanti gli avvocati, mentre è da ritenere legittima la pubblicità informativa dell’attività professionale finalizzata all’acquisizione della clientela, la stessa pubblicità è sanzionabile disciplinarmente - ai sensi della legge professionale e delle norme del codice deontologico forense - ove venga svolta con modalità lesive del decoro e della dignità della professione (nella specie, veniva ritenuto lesivo l’impiego, da parte di due avvocati esercenti la professione in forma associata, dell’indicazione “negozio” e del logo “L’angolo dei diritti”). Il decreto Bersani (D.L. n. 223 del 2006), in tema di pubblicità per gli esercenti attività libero-professionali, si è limitato ad abrogare le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa, nonché ad imporre, a pena di nullità, l’adeguamento all’abolizione di tali divieti delle disposizioni deontologiche e pattizie e dei codici di autodisciplina (detto adeguamento è stato realizzato dal Consiglio Nazionale Forense con le deliberazioni adottate negli anni 2007 e 2008). L’intervento riformatore avvenuto con D.L. n. 223 del 2006 nulla ha disposto circa il rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa degli avvocati è realizzata, né ha inciso sull’assoggettamento dei legali che si rendono colpevoli di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale a procedimento disciplinare, con la conseguenza che è certamente consentito all’organo disciplinare individuare forme di illecito (non già nella pubblicità informativa in sé, ma) nelle modalità e nel contenuto con cui essa viene realizzata, ove lesivi del decoro e della dignità della professione, e (neppure nelle iniziative di acquisizione della clientela in sé, ma) negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, allorché questi non siano conformi alla correttezza ed al decoro professionale. 2. Il caso Gli avvocati Tizio e Caio avviavano l’attività dello studio legale associato facendo impiego del logo “L’angolo dei diritti” in un locale posto sul piano strada. Alle vetrine venivano applicate vetrofanie multilingue e venivano indicate le materie trattate. Inoltre, venivano esposti gli orari di apertura con la dicitura “orari negozio”, con indicazione del sito internet ed enumerazione delle materie trattate. Una ulteriore vetrofania offriva prestazioni professionali, anche giudiziali, a costo predeterminato e forfetariamente quantificato, senza riferimento al valore ed all’importanza della pratica, nonché alla sua presumibile durata. I professionisti rilasciavano due differenti interviste dalle quali risultavano, in virgolettato, le seguenti affermazioni "costi fissati dall’inizio e destinati a rimanere tali, senza spese per i clienti", "lo studio su Internet sarà sempre aperto", "Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza, il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino alla giustizia, promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni". Il sito internet dello studio associato operava senza che vi fosse stata alcuna comunicazione all’Ordine territoriale e su di esso non figurava alcuna indicazione nominativa dei professionisti che vi facevano parte, né del foro di appartenenza degli stessi. Sul sito venivano riportate le espressioni "si concedono a richiesta pagamenti personalizzati e dilazionati e patto di quota lite" ed il sito recava l’indicazione di professionisti operanti nello studio che, in realtà, appositamente interpellati, negavano alcuna forma di collaborazione. All’esito del procedimento disciplinare, avviato in relazione ai fatti così sinteticamente esposti, il Consiglio dell’Ordine territorialmente competente, riconosciuta fondata la quasi totalità dei capi di incolpazione formulati in capo agli avvocati Tizio e Caio, irrogava loro la sanzione della censura. Avverso la predetta decisione, Tizio e Caio proponevano ricorso al Consiglio Nazionale Forense, il quale confermava la decisione di primo grado. La sentenza del Consiglio Nazionale Forense veniva, da ultimo, impugnata dal solo Tizio con ricorso per cassazione. 3. La decisione Opportunamente, il supremo collegio rammenta anzitutto come risulti delimitato normativamente l’ambito dei motivi di gravame conoscibili in sede di ricorso per cassazione avverso le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense. Tre sono, più precisamente i vizi deducibili, vale a dire: l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di legge. L’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle incolpazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono formare oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Essendo vere e proprie decisioni giurisdizionali, peraltro, le decisioni del Consiglio Nazionale Forense non si sottraggono all’obbligo di motivazione ai sensi dell’art. 111, co. 6, Cost., pur non essendo stato espressamente tipizzato dal legislatore il difetto di motivazione nel novero dei vizi deducibili dinanzi alle Sezioni Unite. La Corte di cassazione non può, tuttavia, sostituirsi all’organo disciplinare né nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, né nell’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni contestate. Nella condotta degli avvocati coinvolti nella vicenda processuale in esame venivano ravvisati dal Consiglio dell’Ordine territoriale, con decisione poi confermata in sede di impugnativa dal Consiglio Nazionale Forense, la violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (art. 5, del codice deontologico forense, d’ora in poi: solo C.D.F.), nonché l’avere infranto il divieto di accaparramento della clientela, divieto anch’esso previsto, all’art. 19, dalle norme deontologiche ed espressamente diretto a reprimere ogni condotta diretta all’acquisizione di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori ovvero – più in generale – “con modi comunque non conformi alla correttezza e decoro”. Veniva ravvisata, inoltre, la ricorrenza della violazione dell’art.43, secondo canone complementare, C.D.F., per avere richiesto compensi professionali “manifestamente sproporzionati” rispetto all’attività svolta, comportamento – quest’ultimo – collidente anche con la previsione di cui all’art. 2233, co. 2, cod. civ., ove si seguita a prevedere – anche dopo gli interventi di riforma nella materia in oggetto e, in particolare, il così detto decreto Bersani – che “In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”. Ulteriori violazioni ravvisate erano relative all’omesso rispetto da parte di Tizio e Caio delle modalità della pubblicità informativa prescritte all’art. 17 bis, C.D.F., nonché al mancato rispetto dei criteri indicati all’art. 18 C.D.F. per quanto concerne i rapporti dell’avvocato con la stampa. Infine, si riteneva violato anche l’art. 24 C.D.F. per non avere i due avvocati in questione rispettato il dovere di verità su di loro gravante verso il Consiglio dell’Ordine, atteso che – in sede di audizione presso l’Ordine – Tizio e Caio avevano indicato quali collaboratori dello studio due legali di fatto in esso non operanti. Il Consiglio Nazionale Forense, nella decisione confermata dalla Suprema Corte, offriva alcune indicazioni utili circa i limiti cui la pubblicità degli studi legali deve, secondo le vigenti previsioni deontologiche, ritenersi consentita. Il Consiglio, in particolare, evidenziava come non fosse l’inusuale localizzazione dello studio a comportare di per sé una violazione deontologica né le altrettanto inusuali modalità comunicative prescelte. Tuttavia, l’avvenuta abrogazione degli antichi divieti di pubblicità, non ha comportato l’ammissibilità di una pubblicità indiscriminata, ma soltanto consentito la diffusione di specifiche informazioni sull’attività svolta. Simili informazioni sono dirette a consentire scelte consapevoli da parte di colui che cerchi assistenza legale, il quale potrà negoziare liberamente con l’avvocato prescelto il compenso professionale. Malgrado ciò, la dignità ed il decoro devono improntare ogni forma di pubblicità da parte dell’avvocato. In una simile ottica si giustifica anche la cautela, espressasi già a livello terminologico nel codice deontologico forense, costituita dall’impiego dell’espressione “Informazioni sull’attività professionale” – quale intestazione dell’art. 17 – e non già dell’espressione “pubblicità professionale”, a denotare la peculiarità e la specificità della professione forense in fatto di comunicazioni volte all’esterno e dirette a far conoscere lo studio al cospetto della platea dei potenziali clienti. Al professionista è, pertanto, impedito l’impiego di espressioni dotate di "capacità evocativa emozionale" e sorrette dall’intento di captare clientela, secondo i moduli comunicativi della pubblicità commerciale, essendo tuttavia consentito fornire elementi informativi che consentano agli interessati di acquisire elementi utili per la scelta del professionista cui rivolgersi. Quanto alla determinazione del compenso, una volta venute meno le tariffe obbligatorie, se è vero che esso può essere oggetto di una libera contrattazione, è altresì vero che non è venuto meno il principio di proporzionalità dei compensi all’attività svolta, senza considerare che il decoro professionale sarebbe svilito dall’offerta di compensi eccessivamente bassi. La Suprema Corte, ritenuti infondati i motivi di doglianza, rigetta il ricorso e conferma la decisione impugnata, riaffermando così l’esistenza di precisi limiti alla pubblicità dell’avvocato ed i connessi poteri disciplinari rimessi alla vigilanza degli Ordini territoriale, attesa la non assimilabilità delle prestazioni offerte dagli avvocati a qualsiasi altra prestazione di servizi. 4. I precedenti Circa i limiti in cui incorre l’impugnabilità delle sentenze del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare per violazione dell’obbligo di motivazione in forza dell’art. 111, co. 6, Cost., in sentenza sono richiamate le seguenti sentenze delle Sezioni Unite: nn. 21584 e 18695 del 2011, nn. 2637 del 2009, nn. 20360 e 7103 del 2007, n. 4802 del 2005. In merito ai limiti della pubblicità informativa, inoltre, in sentenza è richiamata la pronuncia n. 23287 del 2010, avente ad oggetto il caso – balzato agli onori delle cronache – di uno studio legale aperto sulla pubblica via con l’insegna "A.L.T. - Assistenza Legale per Tutti - prima consulenza gratuita". 5. Le prospettive di riforma Anche il testo da poco approvato dalla Camera dei Deputati in data 31 ottobre 2012, all’art. 10, rubricato “Informazioni sull’esercizio della professione”, consente la pubblicità informativa dell’avvocato sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifico-professionali posseduti, con qualunque mezzo, anche informatico, purché le informazioni diffuse siano trasparenti, veritiere, corrette e non comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. Si prevede, inoltre, che “le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura ed ai limiti dell’obbligazione professionale” ed è espressamente ribadito che l’inosservanza delle disposizioni ivi richiamate costituisce illecito disciplinare. Il legislatore, pur aprendosi all’evoluzione, con l’espressa previsione della pubblicità realizzata con “mezzi informatici”, si mostra comunque consapevole delle peculiarità proprie della professione forense, le quali si riverberano sul regime dei riaffermati limiti che contrassegnano la pubblicità dell’avvocato.