Nozioni di “professionista” e di “pratiche commerciali” nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
di Alfredo Aiello
Sommario:
1. L’antefatto
2. La vicenda
3. Le pronunce nazionali e la questione pregiudiziale
4. La sentenza della Corte di giustizia
5. Analisi della decisione
6. Conclusioni
1. L’antefatto
L’acquisto di beni e/o servizi attraverso il Web è ormai un fenomeno di portata globale avendo assunto un’enorme rilevanza sicuramente connessa ai minori costi generali rispetto alla commercializzazione in forma tradizionale di analoghi prodotti.
Da qualche tempo tuttavia il c.d. e-commerce ha travalicato anche il consueto e tipico ambito di offerta imprenditoriale, di fatto svolgendosi tra persone fisiche private, ovvero, tra consumatori (c.d. C2C, ossia consumer 2 consumer), il che impone un’attenta disamina delle nozioni di “professionista” e di “pratiche commerciali”.
Osservando infatti tale pratica da un punto di vista giuridico[1], appare evidente che la stessa possibilità di offrire e acquistare prodotti e servizi come e da soggetti non professionali mina lo stesso presupposto della tutela consumeristica, venendo meno l’esistenza di uno squilibrio tra le parti che si sostanzia nella asimmetria informativa che separa e distingue il consumatore dal professionista[2].
Ci è di ausilio la recente sentenza in commento.
2. La vicenda
Un consumatore acquista un orologio d’occasione su una piattaforma di vendita online. Dopo aver constatato che l’orologio non presentava le caratteristiche indicate nell’annuncio di vendita, esprime al venditore la propria volontà di recedere dal contratto.
Il venditore, tal Evelina Kamenova, rifiuta di riprendere il bene dietro rimborso del prezzo. Di conseguenza l’acquirente presenta un esposto presso la Commissione bulgara per la tutela dei consumatori (KZP).
Dopo aver consultato la piattaforma, la KZP constata che in data 10 dicembre 2014 otto annunci di vendita aventi ad oggetto vari prodotti erano ancora presenti su tale sito, sotto lo pseudonimo “eveto-ZZ”, riconducibile alla signora Evelina Kamenova.
Con provvedimento del 27 febbraio 2015 la KZP accertava che la signora Kamenova aveva commesso una pluralità di illeciti amministrativi relativi agli oneri comunicativi che gravano sul professionista, e le infliggeva varie ammende in virtù della legge nazionale sulla tutela dei consumatori che recepisce integralmente la normativa comunitaria in materia.
3. Le pronunce nazionali e la questione pregiudiziale
Avverso il detto provvedimento la signora Kamenova proponeva ricorso dinanzi al Rayonen sad Varna (Tribunale distrettuale di Varna, Bulgaria), deducendo di non avere la qualità di “professionista”, con conseguente inapplicabilità delle norme alla stregua delle quali era stata sanzionata.
Con sentenza del 22 marzo 2016 l’adito Tribunale accoglieva la tesi difensiva della venditrice, annullando per l’effetto il provvedimento impugnato, non ritenendo potersi riconoscere in capo alla Kamenova, ai sensi della legge nazionale bulgara e della direttiva 2005/29/CE, la qualità di “professionista”.
Contro la pronuncia del Tribunale distrettuale proponeva gravame la KZP dinanzi al giudice del rinvio, l’Administrativen sad – Varna (Tribunale amministrativo di Varna, Bulgaria), il quale, rilevato che su Internet viene compravenduta una quantità considerevole di prodotti di largo consumo e che la direttiva 2005/29/CE è senz’altro intesa a garantire il più alto livello possibile di tutela del consumatore quale parte debole del rapporto sinallagmatico, decideva di sospendere il procedimento e nel contempo di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione pregiudiziale: «Se l’articolo 2, lettere b) e d), della direttiva 2005/29/CE debba essere interpretato nel senso che l’attività di una persona fisica, registrata su un sito Internet per la vendita di prodotti, e che abbia contemporaneamente pubblicato complessivamente otto annunci per la vendita di diversi articoli attraverso il sito Internet, integri l’attività di un professionista ai sensi della definizione giuridica di cui all’articolo 2, lettera b), costituisca una fattispecie di pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori a norma dell’articolo 2, lettera d), e ricada nell’ambito di applicazione della direttiva conformemente all’articolo 3, paragrafo 1».
4. La sentenza
La Corte preliminarmente precisa e ribadisce che secondo una propria costante giurisprudenza[3], nell’ambito della procedura di cooperazione tra giudici nazionali e la medesima Corte prevista dall’articolo 267 TFUE, compete a quest’ultima fornire al giudice nazionale indicazioni atte a dirimere la controversia sottoposta alla propria attenzione.
Sempre per propria consolidata giurisprudenza[4] spetta altresì alla Corte, ove ritenuto necessario, riformulare le questioni che le sono sottoposte, e, pertanto, interpretare tutte le norme di emanazione europea che possano essere utili ai giudici nazionali al fine di dirimere le controversie di cui sono investiti, anche qualora tali norme non siano espressamente indicate nelle questioni ad essa sottoposte dai detti giudici.
Il meccanismo del rinvio pregiudiziale consente infatti ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte di giustizia in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale, spettando al giudice del rinvio risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte, che risulterà egualmente vincolante per gli altri giudici nazionali chiamati a decidere problematiche analoghe.
Conseguentemente benché formalmente il giudice del rinvio abbia limitato il proprio quesito all’interpretazione di disposizioni della direttiva 2005/29/CE, la Corte ritiene di essere tenuta a trarre dall’insieme degli elementi forniti dal giudice nazionale, e, in particolare, dalla motivazione della decisione di rinvio, gli elementi di diritto dell’Unione che richiedano un’interpretazione, tenuto conto dell’oggetto della controversia.
Conclusivamente la Corte ritiene che in relazione alla questione posta dal giudice del rinvio si debba prendere posizione sotto un duplice aspetto, e cioè, da un lato, se una persona fisica che pubblica su un sito Internet, contemporaneamente, un certo numero di annunci per la vendita di beni nuovi e d’occasione possa essere qualificato come “professionista” ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 2005/29 e dell’articolo 2, punto 2, della direttiva 2001/83, e, dall’altro, se un’attività del genere costituisca una “pratica commerciale” ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2005/29.
Dopo aver compiutamente delineato la nozione di “professionista” e quella correlata ma antinomica di “consumatore”, nonché il concetto di “pratica commerciale”, la Corte rende la pronuncia innanzi massimata.
5. Analisi della decisione
La pregevole sentenza in commento ha il merito di aver puntualizzato e precisato alla luce dell’intera normativa europea le nozioni di “professionista” e di “consumatore”, nonché, di concetto di “pratiche commerciali”, che possono essere sintetizzate come appresso.
È “consumatore” qualsiasi persona fisica che, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale, e professionale.
È invece “professionista” qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale e professionale e chiunque agisce in nome e per conto di un professionista.
Per “pratiche commerciali” deve poi intendersi qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, ivi compreso la pubblicità ed il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori.
La Corte si sofferma particolarmente sulla qualificazione fulcro “di professionista”, escludendo che il mero perseguimento di un lucro determini automaticamente siffatta figura ed evidenziando che la relativa nozione è definita in modo pressoché identico nella precedente direttiva 2011/83.
Infatti risulta sia dal testo dell’articolo 2, lettera b) della direttiva 2005/29 che dall’articolo 2, n. 2, della direttiva 2011/83, che la persona interessata, sia essa fisica o giuridica[5], per poter essere qualificata come “professionista” deve agire nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, oppure in nome o per conto di un professionista.
All’uopo ribadisce l’ampiezza della nozione di “professionista”, già espressa in precedenti proprie pronunce[6], non riconducibile ad una tipica e peculiare fattispecie, che andrà per contro riconosciuta in presenza di una serie di indici rivelatori quali l’effettuazione in modo organizzato delle vendite, la regolarità e continuità delle stesse, la tipologia ed omogeneità dei prodotti offerti, nonché, lo status giuridico e le competenze tecniche del venditore, da ritenersi non tassativi ed esaustivi, bensì da valutarsi caso per caso a cura dei giudici nazionali[7].
Parimenti esteso risulta anche il concetto di “pratica commerciale”, intesa come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”, in relazione al quale la Corte, richiamando proprie precedenti pronunce[8], egualmente prende posizione precisa e circostanziata.
6. Conclusioni
L’iter logico - giuridico svolto dalla Corte nella sentenza in commento si appalesa ineccepibile.
Nel settore della peer economy le parti del contratto sono infatti considerate pari, senza che ci sia bisogno di verificare in concreto la presenza di eventuali posizioni di forza sul lato dell’offerta.
Il rapporto si presume altresì pienamente orizzontale, non governato da posizioni di gerarchia, di guisa che la dimensione del consumo torna a esprimere un rapporto tra eguali e sfugge a quel principio del diritto diseguale che, imponendo di verificare le disparità di fatto, ha contribuito a fondare il sistema consumeristico[9].
Quest’ultimo, infatti, è caratterizzato da uno squilibrio che riguarda, prima di tutto, il patrimonio di informazioni utile a concludere un accordo in maniera consapevole[10].
Nella peer economy, il problema di inquadramento è, quindi, genetico: mancando il professionista a cui, per definizione, imporre un obbligo di natura informativa.
Il senso e la portata della nozione di “professionista” vanno infatti necessariamente determinati in riferimento a quella di “consumatore”.
Inoltre, per ritenere che un’attività costituisca una “pratica commerciale”, il giudice nazionale dovrà verificare, caso per caso e sulla base di tutti gli elementi di fatto di cui dispone, che tale attività, da un lato, provenga da un “professionista”, e dall’altro, che consiste in un’azione, omissione, condotta o dichiarazione, ovvero, comunicazione commerciale direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori, con l’ovvia conseguenza che se chi procede alla vendita non può essere qualificato come “professionista” non si realizzerà giammai una “pratica commerciale”.
Redatto il 21 gennaio 2019
[1] Cfr. G. Smorto, Verso la disciplina giuridica della sharing economy, in Mercato Concorrenza Regole,2, 2015, 245 ss.
[2] C. Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto alla concorrenza, in Europa e Diritto Privato, 2001, 703 ss.; E. Gabrielli, Il consumatore e il professionista, in E. Gabrielli – E. Minervini (a cura di), I contratti dei consumatori, in Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Torino, 2005, 24.
[3] CGUE, C-531/15, Otero Ramos (2017), § 39, nonché, conformemente, C-5/12, Betriu Montull (2013), § 40, e cause riunite C-512/11 e C-513/11, TSN e YTN (2014), § 32.
[4] CGUE, C-531/15, cit., § 40, nonché, conformemente, C-5/12, cit., § 41, e cause riunite C-512/11 e C-513/11, § 33.
[5] CGUE, C-59/12, Zentrale zur Bekampfung unlauteren Wettbewerbs (2013), § 32.
[6] CGUE, C-147/16, Karel de Grote – Hogeschool Katholieke Hogeschool Antwerpen (2018) § 54; C-59/12, cit., § 33; C-89/91, Shearson Lehman Hutton (1993), § 22.
[7] CGUE, C-59/12, cit., § 35; C-147/16, Karel de Grote – Hogeschool Katholieke Hogeschool Antwerpen(2018), § 55; C-535/16, Bachman (2017), § 36.
[8] CGUE, C-435/11, CHS Tour Services (2013), § 27; C-391/12, RLvS (2013), §37; C-540/08, Mediaprint Zeitungs-und Zeitschriftenverlag (2010), §17; C-304/08, Plus Warenhandelsgesellschaft (2010), §36; cause reunite C-261/07 e C-299/07, VTB-VAB e Galatea (2009), § 49.
[9] C. Granelli, Il codice del consumo a cinque anni dall’entrata in vigore, in Obbligazioni e contratti, 2010, 731 ss.
[10] G. Alpa-A. Catricalà, Diritto dei consumatori, Bologna, 2016, 154.