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Il divieto della gold plating tra Unione europea e stati nazionali

Gold plating
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Il divieto della gold plating tra Unione europea e stati nazionali

L’interpretazione che viene modellata dalla dottrina su principio della c.d. gold plating[1] si ispira al recepimento delle nuove direttive dell’Unione Europea. Ciò evidenzia il divieto della c.d. gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee. Ci si deve muovere verso una semplificazione in modo che la disciplina nazionale non risulti più restrittiva di quella europea, con il falso scopo di giustificare la tutela dell’interesse pubblico.

Pur mantenendosi nella legalità, anche la Commissione europea sostiene che la tecnica della gold plating vada oltre quanto richiesto a livello europeo. Come si evince dalle procedure di recepimento delle direttive comunitarie, gli Stati membri possono esercitare una certa discrezionalità, aumentando gli obblighi comunicativi e procedurali, applicando anche provvedimenti sanzionatori più rigorosi. Ciò non costituirebbe un atteggiamento illecito, ma potrebbe comportare costi aggiuntivi di difficile sostenibilità.

In alternativa, si potrebbe utilizzare lo strumento del copy-out che è più in linea con gli orientamenti della disciplina europea; infatti, secondo la Commissione è la legislazione europea che induce effetti positivi nei confronti degli oneri amministrativi, armonizzando le norme esistenti (o anche sostituendole) nei 27 Paesi membri, con effetti amplificati per via delle realtà regionali e locali.

Se non è illegale, la gold plating è di solito presentata come una cattiva pratica, perché, come già detto, impone costi che avrebbero potuto essere evitati.

Una pratica che in Italia è abbastanza diffusa, nonostante che in molti criteri di delega si faccia espresso richiamo di non introdurre (e soprattutto non mantenere) livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee.

Se accanto al Green Act si lavorasse quotidianamente e costantemente all’applicazione di questo principio, potremmo ridurre oneri ingiustificati a carico di cittadini e imprese. In particolare, di quelli che si trovano a operare nei mercati più esposti alla concorrenza.

Un banco di prova in materia di gold plating è stata la delega al Governo in materia di inquinamento acustico, di cui all’art. 19 legge 161/2014.

Al 2 comma, infatti, richiama l’art. 32 della legge 234/2012, secondo il quale gli atti di recepimento di direttive dell’Unione europea non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, ai sensi dell’articolo 14, commi 24-bis, 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246. Si tratta del divieto espresso di gold plating.

Dalla sua applicazione costante e continua ci avvantaggeremmo in termini di regolazione e competitività nei confronti degli altri Paesi europei.

Se gli Stati membri decidono autonomamente di mantenere o addirittura introdurre requisiti superiori a quelli fissati dall’UE, la procedura prevede di applicare il protocollo comply or explain come si usa nella governance societaria, cioè “rispetta i criteri o spiega i motivi per cui vai oltre”.

Nel recepimento delle normative europee, i governi possono riprodurre in modo fedele le indicazioni della direttiva, oppure render noti i motivi per cui ritengono opportuno applicare la gold plating; però, in quest’ultimo caso, è necessario coinvolgere gli stakolders e gli utenti finali, rendendo pubblica la proposta sia a livello statale che a livello regionale e locale, a garanzia della massima trasparenza.

In base a quanto affermato sopra, la disciplina degli appalti pubblici sotto soglia prevista nel codice degli appalti può essere considerata gold plating, in quanto si spinge oltre il livello di regolazione stabilito dall’UE. Infatti, negli appalti sotto soglia gli Stati europei hanno una certa discrezionalità, cioè possono non dettare alcuna disciplina, o dettarne una differente, o ancora dettarne una identica agli appalti sopra soglia, con l’effetto di estendere sostanzialmente la disciplina comunitaria.

Bisogna, però, considerare il vincolo della libertà di stabilimento, per evitare discriminazioni anche indirette rispetto ai parametri europei. La scelta dell’affidamento diretto per gli appalti sotto soglia rappresenta sempre un rischio che può compromettere le regole di trasparenza ed imparzialità, mettendo in crisi il principio di concorrenza del mercato, principio sancito dall’UE e difficilmente aggirabile con artifici.

È evidente che le procedure di affidamento in house, escludendo le procedure ad evidenza pubblica, costituiscono una corsia preferenziale peri il mercato e per il ruolo che i privati esercitano nel mercato. Infatti, nonostante le misure adottate, è complicato non incorrere nella gold plating, soprattutto con i subappalti e il limite previsto del 30%, condizioni che si scontrano con le previsioni delle più recenti direttive europee. In fase di recepimento delle direttive, si possono definire criteri più dettagliati da parte dello Stato interessato, senza per questo configurare una gold plating, a patto di non inserire meccanismi più gravosi e complessi di quelli ritenuti necessari per l’attuazione.

Per chiarezza, i livelli minimi di regolazione previsti dalle direttive europee sono fissati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri; per cui viene stabilito che gli atti di recepimento delle direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive medesime. Quindi, introdurre oneri non strettamente necessari al recepimento delle direttive, l’estensione in ambiti soggettivi e oggettivi di regole più gravose dal punto di vista finanziario, introdurre sanzioni maggiori di quanto previsto a livello comunitario sono considerati strumenti che ravvisano la presenza di gold plating.

Nelle rare eccezioni previste dall’ordinamento europeo, si deve tener conto sempre del concetto comply or explain, che risulta l’unica modalità per promuovere condizioni più gravose di quelle previste sotto il profilo comunitario.

Nel caso specifico in cui l’amministrazione decidesse di superare il livello minimo, la valutazione deve essere integrata dai seguenti elementi:

  • analisi dei maggiori oneri che comporta il superamento dei livelli minimi;
  • analisi dell’estensione dell’ambito soggettivo, rispetto a quanto previsto dalla direttiva in fase di recepimento;
  • analisi e valutazione degli effetti e dei benefici che potrebbero derivare dal superamento dei limiti di cui sopra.

Il divieto di gold plating è fatto per scoraggiare scelte nazionali che possano inasprire i vincoli sovranazionali, riconoscendo una certa discrezionalità alle autorità aggiudicatrici che si devono misurare con l’ANAC e l’ANC.

Allora, come si deve interpretare in linea generale in divieto di golden plating?

Il problema si potrebbe superare con la maturazione di un diritto unico della concorrenza in Europa, sempre che si riesca a superare gli ostacoli costituiti dagli egoismi nazionali, mossi da evidenti interessi. Il modello europeo può essere conformato in modo flessibile, rispettoso delle diversità nazionali, tenendo sempre in conto le differenze storiche e culturali che hanno profondamente inciso sulle legislazioni dei Paesi che si sono uniti sotto l’egida europea.

In sintesi, chi interpreta la golden plating come un modello astratto con meno regole e più discrezionalità, quindi un modello “liberale”, non tiene sufficientemente in conto la prioritaria protezione degli interessi pubblici, che già si coniugano con quelli privati, tipica esigenza del mercato.

Ma il punto chiave che emerge da questo ragionamento è il seguente.

Il diritto pubblico “della” concorrenza non coincide con gli interessi dei privati “nella” concorrenza. Questo è un punto fondamentale che deve essere messo a fuoco, per comprendere il vero significato di quanto detto. Quindi, nel recepimento delle direttive europee, si devono correggere i c.d. difetti nazionali, in materia di opere pubbliche, lasciando lo spazio agli interessi nazionali virtuosi, cioè che migliorano le condizioni di mercato. Perciò, si deve operare una semplificazione dei criteri regolatori, una sfida per il nostro Paese che non può più essere disattesa o rinviata[2].

 

Note;

[1] La Corte Costituzionale con la sentenza n. 100 del 2020, pronunciandosi su una questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Liguria in riferimento alla possibile violazione dell’art. 76 Cost. da parte del dlgs. n. 50 del 2016 di recepimento delle direttive appalti del Parlamento europeo e del Consiglio, nella parte in cui esso prevede (art. 192, co. 2) l’obbligo dell’amministrazione di motivare la scelta di affidare un determinato servizio in house, benché l’art. 1, co. 1 della legge delega (legge n. 11 del 2016) prevedesse alla lett. a) il divieto del c.d. gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee. Pertanto, la Corte costituzionale ha dichiarato (sentenza n. 100 del 5 maggio 2020) non fondata tale questione, perché la disposizione censurata - rivolgendosi all'amministrazione e seguendo una direttrice pro-concorrenziale, volta ad allargare il ricorso al mercato - non viola quel divieto, dal momento che la ratio di quest'ultimo è impedire l'introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa dell’Unione, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini. Il divieto in esame va infatti interpretato in una prospettiva di riduzione degli "oneri non necessari" e non di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali - nel caso di specie la trasparenza amministrativa e la tutela della concorrenza - in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza sono recessive. La specificazione introdotta dal legislatore delegato è peraltro riconducibile all'esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell'attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento.

[2] Il T.A.R. Liguria aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.

Tale disposizione, secondo i giudici amministrativi, sarebbe stata contraria al divieto di gold plating, il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie, previsto in linea generale dalla legge di stabilità 2012 e richiamato dalla delega appalti.

Su tale questione si è pronunciata la Corte Costituzionale, rigettandola con la sentenza n. 100 del 27 maggio 2020.

Secondo i giudici costituzionali, il divieto di gold plating (che è un principio di diritto nazionale e non europeo) deve essere applicato in conformità alla sua ratio, che è di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.

Al contrario, la norma in esame della Consulta avrebbe un’evidente funzione di promozione della concorrenza. L’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto, infatti, risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza.

La questione si inserisce nel dibattito sulla natura eccezionale o generale dell’affidamento in house, e sulla possibilità del legislatore di prevedere limiti alla scelta dell’autoproduzione rispetto a quella di rivolgersi al mercato.

La norma del Codice Appalti, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali.

A tale proposito, la Consulta richiama i suoi precedenti su norme analoghe, come la sentenza n. 325 del 2010, e nello stesso senso la sentenza n. 46 del 2013.

Nella prima delle due sentenze si legge che “siffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. (…) Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata (…) ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri”.

La regola di motivare l’affidamento non contrasta con il divieto di gold plating, che è una regola che opera con finalità pro-concorrenziali

Venendo al dettaglio del ragionamento seguito dalla Consulta, essa parte dalla legge delega appalti 11/2016, la quale prescrive «il divieto di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dell’art. 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246».

Secondo il suddetto comma 24-ter, «[c]ostituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive».

La legge delega prevede quindi il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (cosiddetto gold plating).

Tale principio, secondo l’Ordinanza di rimessione, sarebbe violato perché l’onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato non sarebbe previsto dalle direttive medesime.

La Consulta, a questo proposito, chiarisce che il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (il cosiddetto gold plating) è imposto da tale criterio della legge delega e dalle norme da esso richiamate, ma non è un principio di diritto comunitario, il quale vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi di scegliere la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per raggiungere i risultati prefissati (salvo che per le norme direttamente applicabili).

Si tratta di un principio in parte delineato dalla Commissione europea nella comunicazione dell’8 ottobre 2010 «Smart regulation in the European Union», come pratica delle istituzioni nazionali di andare oltre quanto richiesto dall’Unione nel recepimento della legislazione europea.

Nel nostro ordinamento il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art. 15, comma 2, lettera b), della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012).

Nella legge si prevede in generale che “gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse”, salve circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria

Il comma 24-ter, poi, puntualizza quali debbano intendersi livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie, ovvero: «a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive».

Secondo la Consulta emerge con chiarezza che la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini

Per tali motivi, secondo la sentenza in commento, la norma censurata sull’affidamento in house si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.

Pertanto l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non è in contrasto con il criterio previsto dall’art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016.

Su tale questione è a suo tempo intervenuta la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea, che, nell’affermare la non contrarietà della norma del Codice Appalti alla direttiva 2014/24/UE, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna» (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa).

Le restrizioni agli affidamenti in house come legittima prevenzione degli abusi delle amministrazioni pubbliche

La norma del Codice Appalti è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali,

Con riferimento ai servizi di rilevanza economica, la norma si pone in linea con quanto previsto all’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221).

Quest’ultima disposizione, infatti, richiede l’indicazione delle «ragioni» dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto della parità degli operatori e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento, nell’ottica della necessità di rendere palesi i motivi che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere all’in house invece di rivolgersi al mercato.

Da ultimo, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), prevede pure oneri di cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica […] deve essere analiticamente motivato […], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato».

Come anticipato, su tale tipologia di oneri per gli affidamenti in house la Consulta richiama i suoi precedenti, come la sentenza n. 325 del 2010, e nello stesso senso la sentenza n. 46 del 2013.

Nella prima delle due sentenze si legge che “siffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. (…) Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata (…) ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri” (Studio legale Giurdanella, giugno 2020).