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Contributo unificato per l’appello incidentale: considerazioni critiche

Il riscontro da parte della Presidenza della Corte di Appello alla nota del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, inviato con circolare del 24 aprile 2012 pure agli altri Consigli dell’Ordine del distretto, sull’applicazione del Contributo Unificato anche all’appello incidentale, ha suscitato notevole perplessità tra gli operatori pratici del diritto, i quali si rendono conto che, giorno dopo giorno, l’accesso alla Giustizia diventa sempre più difficile.

La titubanza scaturisce dall’apprendere che in senso conforme si sono espressi il MEF (acronimo di Ministero dell’Economia e delle Finanze) e Telefisco (organismo deputato a fornire risposta ai quesiti che, di volta in volta, vengono posti agli esperti dell’Agenzia delle Entrate) e cioè due strutture non certo animate da buona predisposizione verso il contribuente, tanto più in questi tempi di vacche magre in cui la pressione fiscale ha raggiunto livelli insopportabili.

Sarebbe stato di gran lunga più apprezzabile se la ratifica fosse pervenuta da parte del Ministero della Giustizia o, comunque, di istituzioni più attrezzate in materia di interpretazione delle leggi.

L’argomento è incentrato, infatti, su di un istituto processuale, l’appello incidentale, che non può, né deve essere paragonato alla domanda riconvenzionale, come si legge, invece, nella sopra citata circolare.

Per rendersene conto è opportuno rilevare che un discorso di questo tipo si sarebbe potuto porre al più nella vigenza del codice di rito del 1865 (ammesso che a quei tempi la giustizia scontasse il contributo unificato) in cui “l’appellazione” si configurava come un gravame diretto a provocare la prosecuzione del giudizio di primo grado, davanti ad un giudice superiore, il quale procedeva ad un nuovo esame della controversia, malgrado questa fosse stata già decisa, introducendo così un vero e proprio nuovo giudizio.

Il legislatore del 1940, invece, si è distaccato da questo modello, ridisegnando la struttura dell’appello alla stregua di una revisio prioris istantiae, nel senso che, lungi dal rimettere in discussione l’intera lite, il gravame è diretto a censurare la sentenza che ebbe a definirla.

In altre parole, l’impugnazione è indirizzata avverso la sentenza e non già, come accadeva prima, nei confronti della controversia.

Da qui la necessità della proposizione di specifiche ed argomentate censure (art. 342 comma 1° c.p.c.) sui punti della decisione di cui ci si duole, con la conseguente acquiescenza nei riguardi di quelli che non hanno formato oggetto di impugnazione (art. 329 comma 2° c.p.c.) e la rinuncia alle domande ed eccezioni che, sebbene non accolte, non siano state espressamente riproposte (art. 346 c.p.c.).

Concorre a delimitare l’ambito del giudizio di appello inoltre il divieto dello jus novorum, sancito dall’art. 345 c.p.c., il quale non solo vieta la proposizione di domande ed eccezioni nuove, ma anche, salvo rarissime e giustificate eccezioni, la proposizione di nuove prove e persino la produzione di nuovi documenti, avendo la S.C. parificato questi ultimi alle prime.

Se questa è perciò la struttura del giudizio di secondo grado, è lecito parlare di ampliamento della lite in presenza di un appello incidentale e, soprattutto, equiparare quest’ultimo sic et simpliciter ad una domanda riconvenzionale?

L’art. 14 comma 3° del DPR n. 115/2002, come successivamente modificato, prescrive l’obbligo di pagamento di un contributo unificato autonomo quando le altre parti propongono una domanda riconvenzionale o formulano un intervento autonomo, atteso che in entrambi i casi il valore della lite subisce un incremento, che giustifica il versamento di un nuovo contributo.

Non è superfluo rilevare in proposito che il legislatore ha operato una significativa distinzione tra la domanda e l’eccezione riconvenzionale, nel senso che soltanto la prima sconta il pagamento di un autonomo contributo unificato perché, a differenza della seconda, la quale serve soltanto ad ottenere il rigetto della domanda attrice ed ha perciò un mero scopo difensivo, essa è diretta a sollecitare un provvedimento favorevole al richiedente e perciò ad ampliare il tema della disputa.

A maggior ragione non è lecito equiparare alla domanda riconvenzionale l’appello incidentale, che giammai, come abbiamo visto, può introdurre temi nuovi e diversi da quelli che hanno formato oggetto del giudizio di primo grado e dai quali perciò non è possibile esorbitare.

Non va sottaciuto, infine, che il patrio legislatore ha già provveduto a raggranellare un maggiore introito, grazie al recente aumento nella misura del 50% del contributo dovuto sui giudizi di appello.

Occorre perciò contrastare l’iniziativa che fa lievitare ulteriormente il costo della giustizia, introducendo (si badi bene, in via di interpretazione) un nuovo balzello, di cui non ricorrono i presupposti.

E’ consigliabile, dunque, opporsi alla richiesta di pagamento, servendosi, se necessario, degli strumenti che l’ordinamento giuridico mette a disposizione del cittadino, con l’avvertenza di non incorrere nel difetto di giurisdizione perché – come ha statuito, di recente, la S.C. con la sentenza n. 5994 del 2012 – il ricorso va proposto davanti alla Commissione Tributaria, che è competente a conoscerne in quanto il contributo unificato è un tributo fiscale a tutti gli effetti.

Il riscontro da parte della Presidenza della Corte di Appello alla nota del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, inviato con circolare del 24 aprile 2012 pure agli altri Consigli dell’Ordine del distretto, sull’applicazione del Contributo Unificato anche all’appello incidentale, ha suscitato notevole perplessità tra gli operatori pratici del diritto, i quali si rendono conto che, giorno dopo giorno, l’accesso alla Giustizia diventa sempre più difficile.

La titubanza scaturisce dall’apprendere che in senso conforme si sono espressi il MEF (acronimo di Ministero dell’Economia e delle Finanze) e Telefisco (organismo deputato a fornire risposta ai quesiti che, di volta in volta, vengono posti agli esperti dell’Agenzia delle Entrate) e cioè due strutture non certo animate da buona predisposizione verso il contribuente, tanto più in questi tempi di vacche magre in cui la pressione fiscale ha raggiunto livelli insopportabili.

Sarebbe stato di gran lunga più apprezzabile se la ratifica fosse pervenuta da parte del Ministero della Giustizia o, comunque, di istituzioni più attrezzate in materia di interpretazione delle leggi.

L’argomento è incentrato, infatti, su di un istituto processuale, l’appello incidentale, che non può, né deve essere paragonato alla domanda riconvenzionale, come si legge, invece, nella sopra citata circolare.

Per rendersene conto è opportuno rilevare che un discorso di questo tipo si sarebbe potuto porre al più nella vigenza del codice di rito del 1865 (ammesso che a quei tempi la giustizia scontasse il contributo unificato) in cui “l’appellazione” si configurava come un gravame diretto a provocare la prosecuzione del giudizio di primo grado, davanti ad un giudice superiore, il quale procedeva ad un nuovo esame della controversia, malgrado questa fosse stata già decisa, introducendo così un vero e proprio nuovo giudizio.

Il legislatore del 1940, invece, si è distaccato da questo modello, ridisegnando la struttura dell’appello alla stregua di una revisio prioris istantiae, nel senso che, lungi dal rimettere in discussione l’intera lite, il gravame è diretto a censurare la sentenza che ebbe a definirla.

In altre parole, l’impugnazione è indirizzata avverso la sentenza e non già, come accadeva prima, nei confronti della controversia.

Da qui la necessità della proposizione di specifiche ed argomentate censure (art. 342 comma 1° c.p.c.) sui punti della decisione di cui ci si duole, con la conseguente acquiescenza nei riguardi di quelli che non hanno formato oggetto di impugnazione (art. 329 comma 2° c.p.c.) e la rinuncia alle domande ed eccezioni che, sebbene non accolte, non siano state espressamente riproposte (art. 346 c.p.c.).

Concorre a delimitare l’ambito del giudizio di appello inoltre il divieto dello jus novorum, sancito dall’art. 345 c.p.c., il quale non solo vieta la proposizione di domande ed eccezioni nuove, ma anche, salvo rarissime e giustificate eccezioni, la proposizione di nuove prove e persino la produzione di nuovi documenti, avendo la S.C. parificato questi ultimi alle prime.

Se questa è perciò la struttura del giudizio di secondo grado, è lecito parlare di ampliamento della lite in presenza di un appello incidentale e, soprattutto, equiparare quest’ultimo sic et simpliciter ad una domanda riconvenzionale?

L’art. 14 comma 3° del DPR n. 115/2002, come successivamente modificato, prescrive l’obbligo di pagamento di un contributo unificato autonomo quando le altre parti propongono una domanda riconvenzionale o formulano un intervento autonomo, atteso che in entrambi i casi il valore della lite subisce un incremento, che giustifica il versamento di un nuovo contributo.

Non è superfluo rilevare in proposito che il legislatore ha operato una significativa distinzione tra la domanda e l’eccezione riconvenzionale, nel senso che soltanto la prima sconta il pagamento di un autonomo contributo unificato perché, a differenza della seconda, la quale serve soltanto ad ottenere il rigetto della domanda attrice ed ha perciò un mero scopo difensivo, essa è diretta a sollecitare un provvedimento favorevole al richiedente e perciò ad ampliare il tema della disputa.

A maggior ragione non è lecito equiparare alla domanda riconvenzionale l’appello incidentale, che giammai, come abbiamo visto, può introdurre temi nuovi e diversi da quelli che hanno formato oggetto del giudizio di primo grado e dai quali perciò non è possibile esorbitare.

Non va sottaciuto, infine, che il patrio legislatore ha già provveduto a raggranellare un maggiore introito, grazie al recente aumento nella misura del 50% del contributo dovuto sui giudizi di appello.

Occorre perciò contrastare l’iniziativa che fa lievitare ulteriormente il costo della giustizia, introducendo (si badi bene, in via di interpretazione) un nuovo balzello, di cui non ricorrono i presupposti.

E’ consigliabile, dunque, opporsi alla richiesta di pagamento, servendosi, se necessario, degli strumenti che l’ordinamento giuridico mette a disposizione del cittadino, con l’avvertenza di non incorrere nel difetto di giurisdizione perché – come ha statuito, di recente, la S.C. con la sentenza n. 5994 del 2012 – il ricorso va proposto davanti alla Commissione Tributaria, che è competente a conoscerne in quanto il contributo unificato è un tributo fiscale a tutti gli effetti.