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Il nuovo processo amministrativo

Che il patrio legislatore sia un ignorante lo si sapeva già, come può desumersi dalla lettura di numerose leggi mal formulate e, spesso, congegnate in termini non omogenei e persino contraddittori. Con il trascorrere degli anni, però, è peggiorato sempre più, producendo una congerie di norme non solo farraginose, ma anche grammaticalmente, oltre che sintatticamente, scorrette.

Fino a quando si tratta di una delle tante leggine il cui prevalente scopo sembra quello di riempire la gazzetta ufficiale, destinate come sono a restare senza applicazione, o, nella migliore delle ipotesi, ad essere conosciute soltanto da un ristretto numero di soggetti, transeat. Ma, quando i destinatari sono parecchi perché siamo in presenza di un vero e proprio corpus juris, il problema è assai grave e non può essere affatto sottaciuto e, men che meno, sottovalutato.

Prendiamo a mo’ d’esempio il testo del D. Lgs. 2 luglio 2010 n. 104, pubblicato sul supplemento ordinario n. 148/L alla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio 2010 n. 156, che ha introdotto il nuovo codice di rito del processo amministrativo.

Orbene, basta dare uno sguardo qua e là ai 137 articoli che lo compongono, al netto delle norme di attuazione e delle appendici allegate, per rendersi conto che i redattori degli stessi non sarebbero neppure in grado di superare gli esami scritti, non si dice di un pubblico concorso a posti di funzioni elevate, bensì di scuola media superiore.

Soffermiamoci sull’art. 63 del succitato D.Lgs. n. 104/2010, il quale introduce il Capo I del Titolo III, che disciplina i mezzi di prova e l’attività istruttoria.

Si legge testualmente al comma 1°: “fermo restando l’onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti”.

Sarebbe stato più corretto, sia sintatticamente che giuridicamente, scrivere: “fermo restando l’onere della prova a carico delle parti, il giudice può chiedere loro (o, se si preferisce, chiedere alle stesse) chiarimenti o l’esibizione di documenti”.

L’omissione della parentetica (anche d’ufficio) trova giustificazione nella facoltà concessa al giudice e perciò nel suo potere discrezionale, che, di per sé, presuppone l’officialità della sua iniziativa.

L’aggiunta del sostantivo “esibizione” trae spunto dalla necessità di richiamare uno strumento processuale, l’esibizione per l’appunto, di cui deve servirsi il giudice per imporre alle parti l’acquisizione in giudizio di quegli atti e/o documenti dalle medesime non prodotti, sebbene nella loro disponibilità.

E non è finita; il comma 2° così recita: “il giudice, anche d’ufficio, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio i documenti … secondo il disposto degli articoli 210 e seguenti del codice di procedura civile; può altresì disporre l’ispezione ai sensi dell’art. 118 dello stesso codice”.

A prescindere dalla cacofonica ripetizione della locuzione congiuntiva “anche”, che avrebbe ben potuto evitarsi scrivendo “il giudice, d’ufficio, può ordinare anche a terzi …a norma degli articoli 210 …”, si sarebbe evitato inoltre lo sgradevole accostamento del sostantivo “disposto” con il verbo “disporre”.

Fin qui sarebbe bastato servirsi di un buon correttore di bozze, come usa farsi dalle case editrici, prima di dare alle stampe un qualsiasi scritto.

Il problema diventa più complesso, invece, quando si passa alla lettura dei successivi tre commi, il primo dei quali faculta il giudice ad ammettere, su istanza di parte, la prova testimoniale, la quale “è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile”.

Andiamoci piano. Tanto per cominciare il codice di rito civile prescrive come regola l’assunzione in forma orale della prova testimoniale, che, dedotta nei modi e nei termini di cui all’art. 244 c.p.c., dev’essere verbalizzata dal giudice, il quale interroga il testimone sui fatti intorno ai quali egli è chiamato a deporre, nonché su quelli dal giudice medesimo ritenuti utili a chiarimento.

La testimonianza scritta è un’eccezione, che, ignota al processo civile fino a un anno fa, è stata per la prima volta introdotta dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009, la quale ha aggiunto l’art. 257-bis, intitolato, per l’appunto, “testimonianza scritta”.

Come noto agli operatori del diritto, la norma, dettata esclusivamente dalla fregola del patrio legislatore di ridurre i termini di durata del processo, onde porre argine alla dilagante congerie di condanne per equo indennizzo, è priva di portata pratica e destinata perciò a rimanere inattuata, subordinata com’è ad una serie di condizioni assai difficilmente avverabili.

Occorre, in primo luogo, infatti, che tutte le parti siano d’accordo, perché altrimenti il giudice non può disporne l’assunzione.

Ammesso e non concesso che un tale accordo vi sia, il giudice deve tener conto della natura della causa e di ogni altra circostanza e, solo dopo che questi altri presupposti abbiano superato il vaglio, egli potrà chiedere “al testimone di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato”.

Tralasciamo di descrivere minuziosamente la farraginosità del modus procedendi, che impone alla parte richiedente la formulazione del modello di deposizione, da notificare al testimone, il quale deve, a sua volta, compilarlo in ogni sua parte, sottoscriverlo con firma autenticata su ciascuna facciata del foglio e spedirlo con plico raccomandato.

Riprendendo il discorso, dunque, appare chiaro come l’introduzione di un istituto assai rilevante e, talora, di importanza determinante ai fini della decisione della causa, finora ignoto al processo amministrativo, sia destinato a restare privo di pratica attuazione, confinato com’è nell’angusto ambito dell’art. 257-bis c.p.c.

Ma c’è di più: si legge nel comma 4° del più volte citato art. 63 che, “qualora reputi necessario l’accertamento dei fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione …”.

La verificazione, disciplinata dal codice di rito civile agli artt. 214 e seguenti, è un istituto previsto per il riconoscimento della scrittura privata, che sia stata disconosciuta da colui contro il quale è stata prodotta ovvero dai suoi eredi e/o aventi causa.

Al di fuori di tale ipotesi, è possibile procedere alla verifica dello stato dei luoghi, della qualità o della condizione di cose, anche prima del giudizio, ma tramite un accertamento tecnico ovvero un’ispezione giudiziale, rispettivamente previsti dagli articoli 191 e 118 c.p.c.

Meglio avrebbe fatto perciò il legislatore a chiamare con un nome più appropriato il mezzo istruttorio de quo, onde evitare – quanto meno – possibili equivoci.

Continuiamo con la chiosa dei singoli articoli, che confermano e rafforzano il postulato iniziale della presente recensione.

Art. 76

Sarebbe stato sperabile che il richiamo del comma 2 del codice di procedura civile fosse frutto di un refuso, perché – come noto – l’art. 76, la cui rubrica era intitolata alla Famiglia Reale, è stato abrogato dall’art. 1 della Costituzione. Non si capisce perciò come esso sia potuto transitare nel testo definitivo della legge di riforma.

Art. 79

“Le ordinanze di sospensione (del processo) emesse ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sono appellabili. L’appello è deciso in camera di consiglio”.

Come noto, il mezzo di impugnazione delle ordinanze è il reclamo, all’esito del quale l’ordinanza può essere revocata ovvero confermata, rispettivamente in caso di accoglimento o di rigetto.

L’appello, invece, è un tipico mezzo di impugnazione della sentenza, che, peraltro, si propone sempre ed in ogni caso ad un giudice gerarchicamente superiore e giammai al medesimo organo deliberante, anche se in composizione collegiale.

È ovvio, pertanto, che il redattore della norma non ha una nozione chiara dei mezzi tipici di impugnazione dei provvedimenti giudiziali, almeno sotto il profilo terminologico, costringendo il giudice e le parti ad uno sforzo ermeneutico finalizzato a porre rimedio alla di lui negligenza, resa vieppiù eclatante sol che si tenga presente quanto dal medesimo statuito sotto il titolo IV, agli artt. 33 e seguenti, dove si fa una netta distinzione fra pronunce di merito, pronunce di rito e pronunce interlocutorie.

Art. 80

Premesso che l’art. 79, nell’indicare gli istituti della sospensione e della interruzione del processo, richiama sic et simpliciter le corrispondenti norme del codice di rito civile, cui fa espresso riferimento, non si comprende come possa prescinderne allorchè il processo debba essere ripreso.

Dispone, invero, il comma 1° dell’art. 80 che, in caso di sospensione, per la prosecuzione del giudizio occorre che sia “presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione”.

A parte la solita improprietà lessicale circa la causa che pone termine alla sospensione, che avrebbe potuto assai più correttamente essere espressa con un semplice “fa cessare”, va rilevato, innanzi tutto, che il codice di rito civile conosce due cause di sospensione, la prima delle quali, definita necessaria (art. 295) e la seconda “su istanza delle parti” (art. 296).

Data la natura del processo amministrativo, sembrerebbe di poter escludere che possa farsi luogo alla sospensione concordata; ciò non toglie, tuttavia, che valgono le medesime cause previste dall’art. 295 per farsi luogo alla sospensione del giudizio, la quale viene disposta – come noto – nei casi in cui lo stesso giudice o altro giudice, “deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

In aggiunta all’ipotesi più ricorrente della pregiudizialità penale, prevista dall’art. 75 c.p.p., altri casi altrettanto frequenti hanno per oggetto le questioni di giurisdizione e di competenza, rispettivamente previste dagli articoli 41 e 42 c.p.c., i cui omologhi sono gli articoli 10 e 16 del c.p.a. (acronimo di codice del processo amministrativo).

E mentre la ricusazione del giudice provoca sempre la sospensione del processo civile (art. 52 c.p.c.), quella del giudice amministrativo, invece, è rimessa alla discrezionalità del tribunale in composizione collegiale, che può disporre la prosecuzione del giudizio, “se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata” (art. 18 comma 4).

La querela di falso di cui all’art. 313 c.p.c. concreta un’altra ipotesi di sospensione necessaria, come del resto l’omologa disposizione dell’art. 77 comma 4 del c.p.a., in presenza dell’incidente di falso.

Alcune altre cause di sospensione previste dal codice di rito civile (questione di giurisdizione sollevata dal prefetto, rilevanza del procedimento amministrativo in materia di controversie di natura previdenziale ed assistenziale) non ricorrono nel processo amministrativo.

Ciò posto, il codice di rito civile regolamenta la ripresa del processo, all’uopo disponendo che le parti chiedano la fissazione dell’udienza “entro il termine perentorio di tre mesi (ben s’intende per i soli giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009) dalla cessazione della causa di sospensione di cui all’art. 3 c.p.p. o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all’art. 295” (art. 297).

Come abbiamo visto, invece, nulla di simile prescrive l’art. 80 c.p.a., il quale si limita a far decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio dalla “comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione”.

Come noto, la comunicazione è un tipico strumento di informazione tramite il quale il cancelliere avvisa le parti ovvero il consulente tecnico e/o gli altri ausiliari del giudice, dando loro notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione (art. 131 c.p.c.), servendosi di un apposito biglietto, che si compone di due parti uguali, come meglio descritto dall’art. 45 disp. att.

Stante le caratteristiche di detto strumento, dunque, non si capisce come possa incombere al cancelliere l’onere di comunicare alle parti del processo amministrativo la cessazione della causa di sospensione, che, intanto, non assume la forma di un atto, consistendo in un evento o in un fatto, che non rientra necessariamente tra quelli di competenza, o, per meglio dire, di conoscenza del cancelliere, cui perciò può restare ignoto.

Altrettanto non succede per le parti, le quali, invece, ne sono (o, quanto meno, debbono esserne) sempre informate.

L’atecnicità del facitore della norma (art. 80, comma 1 c.p.a.), dunque, lascia alquanto perplessi e sarà fonte certa di dispute sulla decorrenza del termine di prosecuzione del processo, alimentando il conseguente contenzioso, che, peraltro, è già previsto dall’art. 85, il quale predispone un apposito mezzo di impugnazione avverso la declaratoria di estinzione, che sfocia in un vero e proprio giudizio di opposizione con doppio grado.

Non minori problemi pone il comma 2 dell’art. 80, il quale dispone che “il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza”.

Le cause di interruzione del processo sono diverse e molteplici, ma non tutte sono compatibili con il processo amministrativo.

Non lo è, di certo, la morte o la perdita della capacità della parte prima della sua costituzione in giudizio, atteso che quest’ultimo viene attivato su ricorso della parte medesima, la quale, però, è tenuta a notificare il libello introduttivo anche ai controinteressati, ovviamente se ed in quanto ve ne siano, sotto pena, in difetto, della improcedibilità (come si evince dal combinato disposto degli artt. 27 e 35 comma 1 lett. c).

È ovvio, pertanto, che se l’evento colpisce il controinteressato prima della sua costituzione in giudizio, che si effettua entro il termine di sessanta giorni dal perfezionamento della notifica nei suoi confronti, il processo dev’essere interrotto (art. 46).

Altra ipotesi di interruzione del processo civile è la morte o la perdita della capacità della parte costituita o del contumace (art. 300), ma soltanto la prima ipotesi è ravvisabile nel giudizio amministrativo, non essendo con esso compatibile, né regolamentato il processo contumaciale.

Altra causa, peraltro assai frequente, di interruzione del processo civile è la morte e/o l’impedimento del procuratore della parte costituita, che si verifica dal giorno dell’evento luttuoso, dalla radiazione dall’albo ovvero dalla sospensione dell’attività professionale (art. 301).

In tutti questi casi il processo civile può proseguire su iniziativa della parte colpita dall’evento interruttivo o, in mancanza, su istanza della controparte, che se ne fa carico con ricorso al giudice, il quale la onera di notificare il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza a coloro che debbono costituirsi per proseguirlo (art. 301).

Analoga modalità è prevista nel processo amministrativo, come si desume dal comma 3 dell’art. 80, il quale, però, impone l’obbligo della riassunzione alla “parte più diligente”, che deve provvedervi “con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”.

L’evento interruttivo che colpisce la parte costituita provoca l’interruzione del processo civile se ed in quanto dichiarato dal suo procuratore, mentre quello da cui è colpito quest’ultimo opera immediatamente ed indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiano le parti (art. 301).

Non si capisce perché i due eventi interruttivi (quello che colpisce la parte e/o il suo procuratore) siano trattati alla stessa stregua nel processo amministrativo, il quale – come si è visto – li fa decorrere entrambi dalla conoscenza comunque acquisita in giudizio, che, pur potendo restare ignota nel caso del procuratore, ciononostante non provocherebbe l’interruzione del processo.

Non sfuggirà l’anomalia di tale previsione sol che si ponga mente alle gravi conseguenze che ne derivano a carico della parte, in caso di mancata conoscenza dell’evento che abbia colpito il suo procuratore.

A norma dell’art. 81, infatti, il ricorso si considera perento se nel corso di un anno non sia compiuto alcun atto di procedura e, in special modo, se non sia stata chiesta la fissazione dell’udienza di discussione, la quale dev’essere presentata entro il termine massimo di un anno dal deposito del ricorso (art. 71).

A proposito di perenzione, assai singolare è quanto dispone il comma 1 dell’art. 82, il quale onera il ricorrente di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza “dopo il decorso di cinque anni dalla data di deposito del ricorso”, così dando per scontate le lungaggini del processo amministrativo, la cui durata non solo si pone in netto contrasto con l’art. 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 in conformità alla normativa comunitaria (non è superfluo ricordare in proposito che l’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, fissa in due anni il tempo di durata massima del giudizio di primo grado, il cui sforamento espone lo Stato al risarcimento del danno da equo indennizzo) di cui, però, e non a caso, il c.p.c. richiama il solo primo comma (quello sul giusto processo) e non anche il secondo, il quale ne impone ed assicura “la ragionevole durata”.

Ma le anomalie non si arrestano qui, essendo facile rinvenirne ulteriori, man mano che si procede nella lettura del nuovo corpus iuris.

L’art. 93, intitolato al luogo di notificazione dell’impugnazione, ha la medesima rubrica dell’art. 330 c.p.c., a differenza del quale, però, introduce – al comma 2 – una disposizione illogica ed incomprensibile.

Fermo restando che l’impugnazione dev’essere notificata nel luogo indicato dalla parte come propria residenza od in quello presso il quale essa abbia eletto domicilio all’atto della notificazione della sentenza, e, in mancanza, presso il procuratore costituito, ovvero nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio che si è concluso con la sentenza impugnata (né più e né meno perciò di quanto prescrive il codice di rito civile) il succitato art. 93, al comma 2, dispone che “qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è trasferito senza notificare una formale notificazione alle altre parti, la parte che intende proporre l’impugnazione può presentare al presidente del tribunale …. un’istanza, corredata dell’attestazione dell’omessa notificazione, per la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione della notificazione”.

Dalla lettura del codicillo emerge evidente l’illogicità della prescrizione, che non è sorretta da alcuna valida giustificazione.

Sarebbe bastato riprodurre il testo dell’art. 330 c.p.c., il quale contempla tra tutte le possibili ipotesi, in via progressivamente subordinata, anche la notificazione alla parte personalmente, quando manchi la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio (3° ed ultimo comma).

Trattasi di un sistema notificatorio ampiamente collaudato, cui, di recente, la novella del 2009 ha apportato un’aggiunta, volta a renderlo ancora più completo ed esauriente, tramite la previsione della notifica ai sensi dell’art. 170 e cioè direttamente al procuratore costituito, mediante consegna di una sola copia dell’atto anche se egli è costituito per più parti.

Si è troncata così ogni ulteriore querelle sul se la notifica debba essere diretta alla parte presso il suo procuratore costituito o, viceversa, se la sentenza debba essere notificata a ciascuna delle parti anche se rappresentate da un unico difensore, recependo sul punto l’orientamento giurisprudenziale, ormai prevalente e perciò consolidato, del Supremo Collegio.

Il legislatore amministrativo ha fatto, invece, una scelta diversa e, tutto sommato, scriteriata, subordinando il completamento della notifica o la rinnovazione dell’impugnazione alla presentazione di un’istanza al giudice ad quem.

A tutta prima, parrebbe che la scelta sia facoltativa, come emerge dall’interpretazione letterale della norma, dove si legge testualmente che la parte impugnante “può” presentare l’istanza.

Nel momento in cui, però, essa si avvale di detta facoltà, corre il grave rischio di incorrere nella inammissibilità dell’impugnazione, atteso che il giudice adito le fissa un termine perentorio per il completamento o la rinnovazione dell’impugnazione, scaduto inutilmente il quale, il ricorso – che a norma dell’art. 94 deve essere depositato presso la segreteria del giudice ad quem a pena di decadenza nel termine perentorio di giorni trenta dall’ultima notificazione – va dichiarato inammissibile (art. 95).

Le due ipotesi prevedono un processo notificatorio rimasto incompleto, nel caso in cui – a quanto pare – le parti destinatarie della notificazione siano più d’una e non sia stato possibile eseguire la notifica nei confronti di qualcuna di esse, oppure il mancato perfezionamento della notifica quando il destinatario dell’atto è uno solo.

Ammesso, dunque, che – malgrado tutto – la parte intenda avvalersi di detta facoltà, è presumibile che lo faccia solo se ha conoscenza del luogo in cui il domiciliatario siasi trasferito; ma se così fosse avrebbe ben potuto farlo prima, tranne che fosse già trascorso il termine di giorni sessanta.

Che senso ha tutto ciò? Non sarebbe stato più logico, oltre che normativamente corretto, richiamare l’art. 330 c.p.c., rinviando alle modalità di esecuzione della notifica ivi previste?

Procedendo oltre nella lettura del tutolo I, libro III, dedicato alle impugnazioni in generale, non può non destare sorpresa il disposto dell’art. 97, a norma del quale può intervenire nel giudizio di impugnazione chiunque vi abbia interesse.

A differenza del codice di rito civile, che circoscrive l’intervento volontario al solo giudizio di primo grado, consentendolo in appello soltanto ai terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 (art. 344 c.p.c.), in ciò del resto copiato dall’art. 109 c.p.a., quest’ultimo consente un intervento non solo indiscriminato, ma anche in contrasto con l’art. 50, che lo ammette in primo grado per i soli interventori, che, oltre a giustificare per tabulas le ragioni su cui si fonda il ricorso, sono tenuti a curarne la preventiva notifica alle altre parti ed il successivo deposito fino a trenta giorni prima dell’udienza.

Potrebbe accadere perciò che colui il quale abbia omesso di intervenire in primo grado, preferendo starsene alla finestra in attesa della definizione del giudizio, lo faccia dinanzi al giudice ad quem se ed in quanto la decisone impugnata gli arrechi un qualche pregiudizio.

Basta ch’egli faccia valere una posizione giuridica autonoma (art. 102 comma 2).

C’è dell’altro: dispone l’art. 101 che il ricorso in appello deve essere sottoscritto dal ricorrente se sta in giudizio di persona, dimenticando che il giudizio di appello si svolge sempre e soltanto dinanzi al Consiglio di Stato (dinanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa, soltanto per le sentenze emesse dal TAR Sicilia) e perciò presso una magistratura equiparata alla Corte di Cassazione, dove la parte può essere rappresentata e difesa esclusivamente da un avvocato abilitato al patrocinio davanti alle magistrature superiori.

Senza dire che l’art.95 c.p.a. esclude che nei giudizi di impugnazione si applichi il comma 1 dell’art. 23 (che peraltro si compone di un solo ed unico comma), ai sensi del quale “le parti possono stare in giudizio personalmente senza l’assistenza del difensore nei giudizi in materia di accesso, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto dei cittadini dell’U.E. e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri”.

Vero si è che il comma 3 dell’art. 22, ricalcando l’art. 86 c.p.c., consente alla parte che ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore presso il giudice adito di stare in giudizio senza il ministero di altro difensore; ciò non toglie tuttavia che nulla chiarisce in proposito l’art. 101 succitato, ragion per cui è legittimo supporre che il redattore della norma sia stato diverso da quello che ha scritto la precedente in contrasto, ignorandone il contenuto precettivo.

Un’ulteriore mancanza di tecnicismo denota poi l’art. 103, che, nel disciplinare la riserva facoltativa di appello avverso le sentenze non definitive, dispone che contro queste ultime “è proponibile l’appello avverso la riserva di appello, con atto notificato entro il termine per l’appello”.

Si capisce che l’atto cui si fa cenno è quello con il quale va proposta la riserva, ma che bisogno c’era di fare riferimento anche all’appello, implicita essendo la sua proponibilità immediata nel caso in cui non si voglia differirlo all’esito definitivo del giudizio?

Meramente anacronistico, poi, è il terzo comma dell’art. 106 c.p.a., che, dopo aver richiamato gli articoli 395 e 396 c.p.c. circa i casi ed i modi ivi previsti per il giudizio revocatorio, sottolinea che la “revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello”.

Il facitore della norma verosimilmente dimentica che per l’omologo art. 396 c.p.c. la revocazione è proponibile soltanto avverso le sentenze per le quali sia scaduto il termine per l’appello.

Sarebbe bastato infine riprodurre letteralmente l’art. 403 c.p.c. (“non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione. Contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”) per esprimere un dettato normativo formalmente assai più corretto, senza che fosse, peraltro, profilabile alcuna accusa di plagio.

Chiuso il capitolo delle note critiche negative, appare opportuno spendere, tuttavia, qualche apprezzamento per quello che di positivo si rinviene nel nuovo c.p.a. e, in primis, per il contenuto del titolo primo del libro IV, che si compone di n. 4 articoli (da 112 a 115), con cui il legislatore regolamenta, finalmente ed una volta per tutte, il giudizio di ottemperanza, specificando le materie e i singoli casi nei quali esso si applica, ma, soprattutto, attribuendone la competenza al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, anche per i provvedimenti confermativi, resi in grado di appello, per le sentenze del giudice amministrativo (art. 113 comma 1), e al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza, per i provvedimenti del giudice ordinario.

Non è superfluo rammentare in proposito che, finora, in mancanza di una normativa organica e completa, occorresse mettere capo, di volta in volta, alla giurisprudenza amministrativa e ordinaria per la individuazione delle singole fattispecie suscettibili di formare oggetto di ottemperanza.

In secondo luogo, si finiva sempre davanti al Consiglio di Stato persino per le sentenze rese nella regione siciliana, malgrado l’esistenza quivi di un C.G.A., il quale, però, era sfornito di competenza riguardo alle decisioni del giudice ordinario (ad esempio, quelle in materia di equa riparazione, che – come noto agli operatori pratici del diritto – assai raramente, per non dire quasi mai, trovano spontanea attuazione da parte del Ministero della Giustizia o degli Interni).

In conclusione, dunque, tirando le fila del discorso, sarebbe auspicabile che il legislatore utilizzasse la legge delega, la quale gli consente di apportare, entro un biennio dall’entrata in vigore del codice amministrativo, gli opportuni correttivi, operando così il perfezionamento delle norme, non soltanto sotto il profilo formale, ma anche e soprattutto sotto quello contenutistico.

Avv. Vincenzo Orlando

Che il patrio legislatore sia un ignorante lo si sapeva già, come può desumersi dalla lettura di numerose leggi mal formulate e, spesso, congegnate in termini non omogenei e persino contraddittori. Con il trascorrere degli anni, però, è peggiorato sempre più, producendo una congerie di norme non solo farraginose, ma anche grammaticalmente, oltre che sintatticamente, scorrette.

Fino a quando si tratta di una delle tante leggine il cui prevalente scopo sembra quello di riempire la gazzetta ufficiale, destinate come sono a restare senza applicazione, o, nella migliore delle ipotesi, ad essere conosciute soltanto da un ristretto numero di soggetti, transeat. Ma, quando i destinatari sono parecchi perché siamo in presenza di un vero e proprio corpus juris, il problema è assai grave e non può essere affatto sottaciuto e, men che meno, sottovalutato.

Prendiamo a mo’ d’esempio il testo del D. Lgs. 2 luglio 2010 n. 104, pubblicato sul supplemento ordinario n. 148/L alla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio 2010 n. 156, che ha introdotto il nuovo codice di rito del processo amministrativo.

Orbene, basta dare uno sguardo qua e là ai 137 articoli che lo compongono, al netto delle norme di attuazione e delle appendici allegate, per rendersi conto che i redattori degli stessi non sarebbero neppure in grado di superare gli esami scritti, non si dice di un pubblico concorso a posti di funzioni elevate, bensì di scuola media superiore.

Soffermiamoci sull’art. 63 del succitato D.Lgs. n. 104/2010, il quale introduce il Capo I del Titolo III, che disciplina i mezzi di prova e l’attività istruttoria.

Si legge testualmente al comma 1°: “fermo restando l’onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti”.

Sarebbe stato più corretto, sia sintatticamente che giuridicamente, scrivere: “fermo restando l’onere della prova a carico delle parti, il giudice può chiedere loro (o, se si preferisce, chiedere alle stesse) chiarimenti o l’esibizione di documenti”.

L’omissione della parentetica (anche d’ufficio) trova giustificazione nella facoltà concessa al giudice e perciò nel suo potere discrezionale, che, di per sé, presuppone l’officialità della sua iniziativa.

L’aggiunta del sostantivo “esibizione” trae spunto dalla necessità di richiamare uno strumento processuale, l’esibizione per l’appunto, di cui deve servirsi il giudice per imporre alle parti l’acquisizione in giudizio di quegli atti e/o documenti dalle medesime non prodotti, sebbene nella loro disponibilità.

E non è finita; il comma 2° così recita: “il giudice, anche d’ufficio, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio i documenti … secondo il disposto degli articoli 210 e seguenti del codice di procedura civile; può altresì disporre l’ispezione ai sensi dell’art. 118 dello stesso codice”.

A prescindere dalla cacofonica ripetizione della locuzione congiuntiva “anche”, che avrebbe ben potuto evitarsi scrivendo “il giudice, d’ufficio, può ordinare anche a terzi …a norma degli articoli 210 …”, si sarebbe evitato inoltre lo sgradevole accostamento del sostantivo “disposto” con il verbo “disporre”.

Fin qui sarebbe bastato servirsi di un buon correttore di bozze, come usa farsi dalle case editrici, prima di dare alle stampe un qualsiasi scritto.

Il problema diventa più complesso, invece, quando si passa alla lettura dei successivi tre commi, il primo dei quali faculta il giudice ad ammettere, su istanza di parte, la prova testimoniale, la quale “è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile”.

Andiamoci piano. Tanto per cominciare il codice di rito civile prescrive come regola l’assunzione in forma orale della prova testimoniale, che, dedotta nei modi e nei termini di cui all’art. 244 c.p.c., dev’essere verbalizzata dal giudice, il quale interroga il testimone sui fatti intorno ai quali egli è chiamato a deporre, nonché su quelli dal giudice medesimo ritenuti utili a chiarimento.

La testimonianza scritta è un’eccezione, che, ignota al processo civile fino a un anno fa, è stata per la prima volta introdotta dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009, la quale ha aggiunto l’art. 257-bis, intitolato, per l’appunto, “testimonianza scritta”.

Come noto agli operatori del diritto, la norma, dettata esclusivamente dalla fregola del patrio legislatore di ridurre i termini di durata del processo, onde porre argine alla dilagante congerie di condanne per equo indennizzo, è priva di portata pratica e destinata perciò a rimanere inattuata, subordinata com’è ad una serie di condizioni assai difficilmente avverabili.

Occorre, in primo luogo, infatti, che tutte le parti siano d’accordo, perché altrimenti il giudice non può disporne l’assunzione.

Ammesso e non concesso che un tale accordo vi sia, il giudice deve tener conto della natura della causa e di ogni altra circostanza e, solo dopo che questi altri presupposti abbiano superato il vaglio, egli potrà chiedere “al testimone di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato”.

Tralasciamo di descrivere minuziosamente la farraginosità del modus procedendi, che impone alla parte richiedente la formulazione del modello di deposizione, da notificare al testimone, il quale deve, a sua volta, compilarlo in ogni sua parte, sottoscriverlo con firma autenticata su ciascuna facciata del foglio e spedirlo con plico raccomandato.

Riprendendo il discorso, dunque, appare chiaro come l’introduzione di un istituto assai rilevante e, talora, di importanza determinante ai fini della decisione della causa, finora ignoto al processo amministrativo, sia destinato a restare privo di pratica attuazione, confinato com’è nell’angusto ambito dell’art. 257-bis c.p.c.

Ma c’è di più: si legge nel comma 4° del più volte citato art. 63 che, “qualora reputi necessario l’accertamento dei fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione …”.

La verificazione, disciplinata dal codice di rito civile agli artt. 214 e seguenti, è un istituto previsto per il riconoscimento della scrittura privata, che sia stata disconosciuta da colui contro il quale è stata prodotta ovvero dai suoi eredi e/o aventi causa.

Al di fuori di tale ipotesi, è possibile procedere alla verifica dello stato dei luoghi, della qualità o della condizione di cose, anche prima del giudizio, ma tramite un accertamento tecnico ovvero un’ispezione giudiziale, rispettivamente previsti dagli articoli 191 e 118 c.p.c.

Meglio avrebbe fatto perciò il legislatore a chiamare con un nome più appropriato il mezzo istruttorio de quo, onde evitare – quanto meno – possibili equivoci.

Continuiamo con la chiosa dei singoli articoli, che confermano e rafforzano il postulato iniziale della presente recensione.

Art. 76

Sarebbe stato sperabile che il richiamo del comma 2 del codice di procedura civile fosse frutto di un refuso, perché – come noto – l’art. 76, la cui rubrica era intitolata alla Famiglia Reale, è stato abrogato dall’art. 1 della Costituzione. Non si capisce perciò come esso sia potuto transitare nel testo definitivo della legge di riforma.

Art. 79

“Le ordinanze di sospensione (del processo) emesse ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sono appellabili. L’appello è deciso in camera di consiglio”.

Come noto, il mezzo di impugnazione delle ordinanze è il reclamo, all’esito del quale l’ordinanza può essere revocata ovvero confermata, rispettivamente in caso di accoglimento o di rigetto.

L’appello, invece, è un tipico mezzo di impugnazione della sentenza, che, peraltro, si propone sempre ed in ogni caso ad un giudice gerarchicamente superiore e giammai al medesimo organo deliberante, anche se in composizione collegiale.

È ovvio, pertanto, che il redattore della norma non ha una nozione chiara dei mezzi tipici di impugnazione dei provvedimenti giudiziali, almeno sotto il profilo terminologico, costringendo il giudice e le parti ad uno sforzo ermeneutico finalizzato a porre rimedio alla di lui negligenza, resa vieppiù eclatante sol che si tenga presente quanto dal medesimo statuito sotto il titolo IV, agli artt. 33 e seguenti, dove si fa una netta distinzione fra pronunce di merito, pronunce di rito e pronunce interlocutorie.

Art. 80

Premesso che l’art. 79, nell’indicare gli istituti della sospensione e della interruzione del processo, richiama sic et simpliciter le corrispondenti norme del codice di rito civile, cui fa espresso riferimento, non si comprende come possa prescinderne allorchè il processo debba essere ripreso.

Dispone, invero, il comma 1° dell’art. 80 che, in caso di sospensione, per la prosecuzione del giudizio occorre che sia “presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione”.

A parte la solita improprietà lessicale circa la causa che pone termine alla sospensione, che avrebbe potuto assai più correttamente essere espressa con un semplice “fa cessare”, va rilevato, innanzi tutto, che il codice di rito civile conosce due cause di sospensione, la prima delle quali, definita necessaria (art. 295) e la seconda “su istanza delle parti” (art. 296).

Data la natura del processo amministrativo, sembrerebbe di poter escludere che possa farsi luogo alla sospensione concordata; ciò non toglie, tuttavia, che valgono le medesime cause previste dall’art. 295 per farsi luogo alla sospensione del giudizio, la quale viene disposta – come noto – nei casi in cui lo stesso giudice o altro giudice, “deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

In aggiunta all’ipotesi più ricorrente della pregiudizialità penale, prevista dall’art. 75 c.p.p., altri casi altrettanto frequenti hanno per oggetto le questioni di giurisdizione e di competenza, rispettivamente previste dagli articoli 41 e 42 c.p.c., i cui omologhi sono gli articoli 10 e 16 del c.p.a. (acronimo di codice del processo amministrativo).

E mentre la ricusazione del giudice provoca sempre la sospensione del processo civile (art. 52 c.p.c.), quella del giudice amministrativo, invece, è rimessa alla discrezionalità del tribunale in composizione collegiale, che può disporre la prosecuzione del giudizio, “se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata” (art. 18 comma 4).

La querela di falso di cui all’art. 313 c.p.c. concreta un’altra ipotesi di sospensione necessaria, come del resto l’omologa disposizione dell’art. 77 comma 4 del c.p.a., in presenza dell’incidente di falso.

Alcune altre cause di sospensione previste dal codice di rito civile (questione di giurisdizione sollevata dal prefetto, rilevanza del procedimento amministrativo in materia di controversie di natura previdenziale ed assistenziale) non ricorrono nel processo amministrativo.

Ciò posto, il codice di rito civile regolamenta la ripresa del processo, all’uopo disponendo che le parti chiedano la fissazione dell’udienza “entro il termine perentorio di tre mesi (ben s’intende per i soli giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009) dalla cessazione della causa di sospensione di cui all’art. 3 c.p.p. o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all’art. 295” (art. 297).

Come abbiamo visto, invece, nulla di simile prescrive l’art. 80 c.p.a., il quale si limita a far decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio dalla “comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione”.

Come noto, la comunicazione è un tipico strumento di informazione tramite il quale il cancelliere avvisa le parti ovvero il consulente tecnico e/o gli altri ausiliari del giudice, dando loro notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione (art. 131 c.p.c.), servendosi di un apposito biglietto, che si compone di due parti uguali, come meglio descritto dall’art. 45 disp. att.

Stante le caratteristiche di detto strumento, dunque, non si capisce come possa incombere al cancelliere l’onere di comunicare alle parti del processo amministrativo la cessazione della causa di sospensione, che, intanto, non assume la forma di un atto, consistendo in un evento o in un fatto, che non rientra necessariamente tra quelli di competenza, o, per meglio dire, di conoscenza del cancelliere, cui perciò può restare ignoto.

Altrettanto non succede per le parti, le quali, invece, ne sono (o, quanto meno, debbono esserne) sempre informate.

L’atecnicità del facitore della norma (art. 80, comma 1 c.p.a.), dunque, lascia alquanto perplessi e sarà fonte certa di dispute sulla decorrenza del termine di prosecuzione del processo, alimentando il conseguente contenzioso, che, peraltro, è già previsto dall’art. 85, il quale predispone un apposito mezzo di impugnazione avverso la declaratoria di estinzione, che sfocia in un vero e proprio giudizio di opposizione con doppio grado.

Non minori problemi pone il comma 2 dell’art. 80, il quale dispone che “il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza”.

Le cause di interruzione del processo sono diverse e molteplici, ma non tutte sono compatibili con il processo amministrativo.

Non lo è, di certo, la morte o la perdita della capacità della parte prima della sua costituzione in giudizio, atteso che quest’ultimo viene attivato su ricorso della parte medesima, la quale, però, è tenuta a notificare il libello introduttivo anche ai controinteressati, ovviamente se ed in quanto ve ne siano, sotto pena, in difetto, della improcedibilità (come si evince dal combinato disposto degli artt. 27 e 35 comma 1 lett. c).

È ovvio, pertanto, che se l’evento colpisce il controinteressato prima della sua costituzione in giudizio, che si effettua entro il termine di sessanta giorni dal perfezionamento della notifica nei suoi confronti, il processo dev’essere interrotto (art. 46).

Altra ipotesi di interruzione del processo civile è la morte o la perdita della capacità della parte costituita o del contumace (art. 300), ma soltanto la prima ipotesi è ravvisabile nel giudizio amministrativo, non essendo con esso compatibile, né regolamentato il processo contumaciale.

Altra causa, peraltro assai frequente, di interruzione del processo civile è la morte e/o l’impedimento del procuratore della parte costituita, che si verifica dal giorno dell’evento luttuoso, dalla radiazione dall’albo ovvero dalla sospensione dell’attività professionale (art. 301).

In tutti questi casi il processo civile può proseguire su iniziativa della parte colpita dall’evento interruttivo o, in mancanza, su istanza della controparte, che se ne fa carico con ricorso al giudice, il quale la onera di notificare il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza a coloro che debbono costituirsi per proseguirlo (art. 301).

Analoga modalità è prevista nel processo amministrativo, come si desume dal comma 3 dell’art. 80, il quale, però, impone l’obbligo della riassunzione alla “parte più diligente”, che deve provvedervi “con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”.

L’evento interruttivo che colpisce la parte costituita provoca l’interruzione del processo civile se ed in quanto dichiarato dal suo procuratore, mentre quello da cui è colpito quest’ultimo opera immediatamente ed indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiano le parti (art. 301).

Non si capisce perché i due eventi interruttivi (quello che colpisce la parte e/o il suo procuratore) siano trattati alla stessa stregua nel processo amministrativo, il quale – come si è visto – li fa decorrere entrambi dalla conoscenza comunque acquisita in giudizio, che, pur potendo restare ignota nel caso del procuratore, ciononostante non provocherebbe l’interruzione del processo.

Non sfuggirà l’anomalia di tale previsione sol che si ponga mente alle gravi conseguenze che ne derivano a carico della parte, in caso di mancata conoscenza dell’evento che abbia colpito il suo procuratore.

A norma dell’art. 81, infatti, il ricorso si considera perento se nel corso di un anno non sia compiuto alcun atto di procedura e, in special modo, se non sia stata chiesta la fissazione dell’udienza di discussione, la quale dev’essere presentata entro il termine massimo di un anno dal deposito del ricorso (art. 71).

A proposito di perenzione, assai singolare è quanto dispone il comma 1 dell’art. 82, il quale onera il ricorrente di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza “dopo il decorso di cinque anni dalla data di deposito del ricorso”, così dando per scontate le lungaggini del processo amministrativo, la cui durata non solo si pone in netto contrasto con l’art. 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 in conformità alla normativa comunitaria (non è superfluo ricordare in proposito che l’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, fissa in due anni il tempo di durata massima del giudizio di primo grado, il cui sforamento espone lo Stato al risarcimento del danno da equo indennizzo) di cui, però, e non a caso, il c.p.c. richiama il solo primo comma (quello sul giusto processo) e non anche il secondo, il quale ne impone ed assicura “la ragionevole durata”.

Ma le anomalie non si arrestano qui, essendo facile rinvenirne ulteriori, man mano che si procede nella lettura del nuovo corpus iuris.

L’art. 93, intitolato al luogo di notificazione dell’impugnazione, ha la medesima rubrica dell’art. 330 c.p.c., a differenza del quale, però, introduce – al comma 2 – una disposizione illogica ed incomprensibile.

Fermo restando che l’impugnazione dev’essere notificata nel luogo indicato dalla parte come propria residenza od in quello presso il quale essa abbia eletto domicilio all’atto della notificazione della sentenza, e, in mancanza, presso il procuratore costituito, ovvero nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio che si è concluso con la sentenza impugnata (né più e né meno perciò di quanto prescrive il codice di rito civile) il succitato art. 93, al comma 2, dispone che “qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è trasferito senza notificare una formale notificazione alle altre parti, la parte che intende proporre l’impugnazione può presentare al presidente del tribunale …. un’istanza, corredata dell’attestazione dell’omessa notificazione, per la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione della notificazione”.

Dalla lettura del codicillo emerge evidente l’illogicità della prescrizione, che non è sorretta da alcuna valida giustificazione.

Sarebbe bastato riprodurre il testo dell’art. 330 c.p.c., il quale contempla tra tutte le possibili ipotesi, in via progressivamente subordinata, anche la notificazione alla parte personalmente, quando manchi la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio (3° ed ultimo comma).

Trattasi di un sistema notificatorio ampiamente collaudato, cui, di recente, la novella del 2009 ha apportato un’aggiunta, volta a renderlo ancora più completo ed esauriente, tramite la previsione della notifica ai sensi dell’art. 170 e cioè direttamente al procuratore costituito, mediante consegna di una sola copia dell’atto anche se egli è costituito per più parti.

Si è troncata così ogni ulteriore querelle sul se la notifica debba essere diretta alla parte presso il suo procuratore costituito o, viceversa, se la sentenza debba essere notificata a ciascuna delle parti anche se rappresentate da un unico difensore, recependo sul punto l’orientamento giurisprudenziale, ormai prevalente e perciò consolidato, del Supremo Collegio.

Il legislatore amministrativo ha fatto, invece, una scelta diversa e, tutto sommato, scriteriata, subordinando il completamento della notifica o la rinnovazione dell’impugnazione alla presentazione di un’istanza al giudice ad quem.

A tutta prima, parrebbe che la scelta sia facoltativa, come emerge dall’interpretazione letterale della norma, dove si legge testualmente che la parte impugnante “può” presentare l’istanza.

Nel momento in cui, però, essa si avvale di detta facoltà, corre il grave rischio di incorrere nella inammissibilità dell’impugnazione, atteso che il giudice adito le fissa un termine perentorio per il completamento o la rinnovazione dell’impugnazione, scaduto inutilmente il quale, il ricorso – che a norma dell’art. 94 deve essere depositato presso la segreteria del giudice ad quem a pena di decadenza nel termine perentorio di giorni trenta dall’ultima notificazione – va dichiarato inammissibile (art. 95).

Le due ipotesi prevedono un processo notificatorio rimasto incompleto, nel caso in cui – a quanto pare – le parti destinatarie della notificazione siano più d’una e non sia stato possibile eseguire la notifica nei confronti di qualcuna di esse, oppure il mancato perfezionamento della notifica quando il destinatario dell’atto è uno solo.

Ammesso, dunque, che – malgrado tutto – la parte intenda avvalersi di detta facoltà, è presumibile che lo faccia solo se ha conoscenza del luogo in cui il domiciliatario siasi trasferito; ma se così fosse avrebbe ben potuto farlo prima, tranne che fosse già trascorso il termine di giorni sessanta.

Che senso ha tutto ciò? Non sarebbe stato più logico, oltre che normativamente corretto, richiamare l’art. 330 c.p.c., rinviando alle modalità di esecuzione della notifica ivi previste?

Procedendo oltre nella lettura del tutolo I, libro III, dedicato alle impugnazioni in generale, non può non destare sorpresa il disposto dell’art. 97, a norma del quale può intervenire nel giudizio di impugnazione chiunque vi abbia interesse.

A differenza del codice di rito civile, che circoscrive l’intervento volontario al solo giudizio di primo grado, consentendolo in appello soltanto ai terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 (art. 344 c.p.c.), in ciò del resto copiato dall’art. 109 c.p.a., quest’ultimo consente un intervento non solo indiscriminato, ma anche in contrasto con l’art. 50, che lo ammette in primo grado per i soli interventori, che, oltre a giustificare per tabulas le ragioni su cui si fonda il ricorso, sono tenuti a curarne la preventiva notifica alle altre parti ed il successivo deposito fino a trenta giorni prima dell’udienza.

Potrebbe accadere perciò che colui il quale abbia omesso di intervenire in primo grado, preferendo starsene alla finestra in attesa della definizione del giudizio, lo faccia dinanzi al giudice ad quem se ed in quanto la decisone impugnata gli arrechi un qualche pregiudizio.

Basta ch’egli faccia valere una posizione giuridica autonoma (art. 102 comma 2).

C’è dell’altro: dispone l’art. 101 che il ricorso in appello deve essere sottoscritto dal ricorrente se sta in giudizio di persona, dimenticando che il giudizio di appello si svolge sempre e soltanto dinanzi al Consiglio di Stato (dinanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa, soltanto per le sentenze emesse dal TAR Sicilia) e perciò presso una magistratura equiparata alla Corte di Cassazione, dove la parte può essere rappresentata e difesa esclusivamente da un avvocato abilitato al patrocinio davanti alle magistrature superiori.

Senza dire che l’art.95 c.p.a. esclude che nei giudizi di impugnazione si applichi il comma 1 dell’art. 23 (che peraltro si compone di un solo ed unico comma), ai sensi del quale “le parti possono stare in giudizio personalmente senza l’assistenza del difensore nei giudizi in materia di accesso, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto dei cittadini dell’U.E. e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri”.

Vero si è che il comma 3 dell’art. 22, ricalcando l’art. 86 c.p.c., consente alla parte che ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore presso il giudice adito di stare in giudizio senza il ministero di altro difensore; ciò non toglie tuttavia che nulla chiarisce in proposito l’art. 101 succitato, ragion per cui è legittimo supporre che il redattore della norma sia stato diverso da quello che ha scritto la precedente in contrasto, ignorandone il contenuto precettivo.

Un’ulteriore mancanza di tecnicismo denota poi l’art. 103, che, nel disciplinare la riserva facoltativa di appello avverso le sentenze non definitive, dispone che contro queste ultime “è proponibile l’appello avverso la riserva di appello, con atto notificato entro il termine per l’appello”.

Si capisce che l’atto cui si fa cenno è quello con il quale va proposta la riserva, ma che bisogno c’era di fare riferimento anche all’appello, implicita essendo la sua proponibilità immediata nel caso in cui non si voglia differirlo all’esito definitivo del giudizio?

Meramente anacronistico, poi, è il terzo comma dell’art. 106 c.p.a., che, dopo aver richiamato gli articoli 395 e 396 c.p.c. circa i casi ed i modi ivi previsti per il giudizio revocatorio, sottolinea che la “revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello”.

Il facitore della norma verosimilmente dimentica che per l’omologo art. 396 c.p.c. la revocazione è proponibile soltanto avverso le sentenze per le quali sia scaduto il termine per l’appello.

Sarebbe bastato infine riprodurre letteralmente l’art. 403 c.p.c. (“non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione. Contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”) per esprimere un dettato normativo formalmente assai più corretto, senza che fosse, peraltro, profilabile alcuna accusa di plagio.

Chiuso il capitolo delle note critiche negative, appare opportuno spendere, tuttavia, qualche apprezzamento per quello che di positivo si rinviene nel nuovo c.p.a. e, in primis, per il contenuto del titolo primo del libro IV, che si compone di n. 4 articoli (da 112 a 115), con cui il legislatore regolamenta, finalmente ed una volta per tutte, il giudizio di ottemperanza, specificando le materie e i singoli casi nei quali esso si applica, ma, soprattutto, attribuendone la competenza al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, anche per i provvedimenti confermativi, resi in grado di appello, per le sentenze del giudice amministrativo (art. 113 comma 1), e al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza, per i provvedimenti del giudice ordinario.

Non è superfluo rammentare in proposito che, finora, in mancanza di una normativa organica e completa, occorresse mettere capo, di volta in volta, alla giurisprudenza amministrativa e ordinaria per la individuazione delle singole fattispecie suscettibili di formare oggetto di ottemperanza.

In secondo luogo, si finiva sempre davanti al Consiglio di Stato persino per le sentenze rese nella regione siciliana, malgrado l’esistenza quivi di un C.G.A., il quale, però, era sfornito di competenza riguardo alle decisioni del giudice ordinario (ad esempio, quelle in materia di equa riparazione, che – come noto agli operatori pratici del diritto – assai raramente, per non dire quasi mai, trovano spontanea attuazione da parte del Ministero della Giustizia o degli Interni).

In conclusione, dunque, tirando le fila del discorso, sarebbe auspicabile che il legislatore utilizzasse la legge delega, la quale gli consente di apportare, entro un biennio dall’entrata in vigore del codice amministrativo, gli opportuni correttivi, operando così il perfezionamento delle norme, non soltanto sotto il profilo formale, ma anche e soprattutto sotto quello contenutistico.

Avv. Vincenzo Orlando