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L’evoluzione della finanza islamica in Italia

finanza islamica
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All’interno del mondo finanziario tra i servizi in più rapida espansione, anche per via del basso livello dell’attuale produzione, vi sono sicuramente quelli riconducibili alla c.d. finanza islamica.

Come è noto, con tale formulazione ci si riferisce al mercato della produzione e dello scambio di strumenti finanziari Shariah compliant, vale a dire quelle costruzioni economico-giuridiche volte a realizzare un investimento compatibile con i principi economici della legge coranica vigenti in merito all’impiego del denaro all’interno del circuito finanziario.

Difatti il mondo islamico, pur ammettendo la possibilità dell’aumento del valore della moneta nel tempo, vieta la realizzazione di un profitto sulla base della semplice messa a disposizione del denaro, permettendo invece tale incremento solamente laddove sia la conseguenza di una transazione reale.

Invero il primo dei cinque pilastri dell’Islam è la Riba, vale a dire proprio il divieto di prestare denaro con tasso di interesse legato al fattore temporale, in quanto il profitto è legittimato solamente dall’assunzione di un rischio.

La vis di tale principio non travolge solamente il rapporto tra debitore e creditore ma anche il relativo sistema finanziario nel quale si inserisce, giacché all’interno di quello islamico le risorse economiche in surplus dei soggetti vengono trasferite ai soggetti in deficit sulla base della condivisione tra questi dei profitti e delle perdite dell’attività economica finanziata.

È dunque evidente come tale sistema di allocazione delle risorse economiche, denominato Shirkah, sia integralmente diverso la sistema finanziario occidentale, in quanto nel sistema islamico il finanziatore diventa sostanzialmente un equity investor del finanziato, condividendone i profitti e le perdite[1].

Nel mondo islamico quindi, con il concetto di finanziamento si intende l’affidamento di un processo produttivo all’imprenditore.

Nella cultura economica occidentale invece il finanziamento consiste nella messa a disposizione del denaro, il cui prezzo è rappresentato dal tasso di interesse.

In dottrina si ravvisano diversi vantaggi dall’applicazione del sistema Profit loss sharing, tra i quali vi è il differente rapporto di fiducia tra le parti, in quanto debitore e creditore si trovano a condividere il medesimo interesse e non sono quindi contrapposti, e inoltre l’impossibilità della formazione di eccessivi squilibri di ricchezza a carico di una soltanto delle parti proprio perché le perdite dell’attività di impresa sono condivise tra loro.

Un altro vantaggio del sistema si ravvede nella necessaria maggiore attenzione della banca nella valutazione non solo del progetto da finanziare, ma anche delle capacità gestionali degli amministratori e della corporate governance societaria, rendendo tale sistema finanziario, al contrario di quello occidentale, molto meno fondato sulla valutazione del merito creditizio[2] o del valore dei beni posti a garanzia.

Ugualmente, nel mercato azionario, la dottrina islamica tende ad escludere l’utilizzo di strumenti finanziari che limitino la condivisione delle perdite o che garantiscano un rendimento certo, e ciò comprende dunque obbligazioni e azioni privilegiate.

L’obiettivo della presente analisi è quello di fornire un quadro degli strumenti di finanza islamica che l’ordinamento italiano tentava di normare nella Proposta di Legge del 2 maggio 2017 dal titolo “Disposizioni concernenti il trattamento fiscale delle operazioni di finanza islamica” al fine di incentivare il riesame della questione.

La citata proposta di legge, sebbene intervenga per lo più sul trattamento fiscale di tali prodotti lasciando alcuni punti di regolazione del tutto irrisolti, ha comunque il merito di mettere in luce l’esigenza di regolazione di un mercato che a livello mondiale è stimato in circa 4.000 miliardi di dollari.

Il primo dei prodotti previsti dalla legge, certamente uno dei più diffusi, è il Murabaha, tipico strumento di credito al consumo non fondato sul profit loss sharing, con il quale la banca finanzia l’acquisto di beni comprandoli a nome del cliente e aggiungendo un mark up al prezzo del bene.

Tra gli strumenti più importanti previsti dalla proposta di legge, c’è poi il Sukuk, dato il suo elevato utilizzo a fine di finanziamento delle imprese o di uno specifico progetto[3]. Si tratta sostanzialmente di un equivalente islamico dei classici titoli obbligazionari[4]. Tali certificati contano almeno quattordici diverse tipologie, le quali però possono essere classificate nelle due categorie degli Asset-based sukuk, vale a dire titoli che hanno un sottostante che genera un rendimento predeterminato, e degli Equity-based sukuk nei quali invece il rendimento è basato sulla logica Profit loss sharing.

Un esempio di impiego di tale contratto prevede che la banca riceva i fondi dal cliente e comperi per suo conto un bene immobile, il quale viene locato alla banca stessa che paga il canone al cliente. Così facendo, pertanto, il bene è di proprietà del finanziato ma è utilizzato dalla banca, sostituendo pertanto la rendita di un’obbligazione con il canone della locazione.

Un altro contratto molto diffuso disciplinato dalla proposta di legge è il Ijarah. Si tratta di un contratto reale che consiste nel trasferimento del godimento di un bene dietro il pagamento di un canone per l’intero periodo di godimento. La banca dunque acquista un bene non consumabile o deperibile e lo cede in locazione al cliente. Alla conclusione del periodo di utilizzo è possibile procedere al riscatto del bene mediante l’acquisto dello stesso, e da ciò si comprende perché tale figura sia facilmente assimilabile al contratto di leasing e si sia infatti notevolmente diffusa soprattutto nel Regno Unito per gli immobili.

Infine anche il contratto Istisna’a ugualmente al Jiarah è un contratto ad effetti reali, composto da due contratti di compravendita collegati, con la differenza però che in tal caso le parti concordano la produzione o la costruzione di un bene futuro non ancora esistente.

Una prima osservazione d’obbligo è che la proposta di normativa Italiana non disciplina alcuni dei più diffusi contratti della finanza islamica.

In particolare, nell’ambito del credito al consumo, ci si riferisce al Igarah, vale a dire una forma di leasing nel quale il profitto è il corrispettivo per l’utilizzo di un bene, che peraltro è anche una delle poche forme di finanziamento di natura non partecipativa e dunque non di tipo Profit loss sharing[5].

Nell’ambito dei prodotti più complessi e pertanto più utili nella finanza aziendale si rileva come non venga disciplinato il Musharaka, cioè un contratto simile alla classica joint venture, caratterizzato dalla condivisione dell’investimento tra finanziatore e finanziato per la realizzazione di un progetto nel quale entrambi parteciperanno nella gestione. Mentre i profitti realizzati saranno poi ripartiti secondo quanto stabilito in contratto, mentre le perdite saranno ripartite in proporzione alle quote di capitale conferite[6].

Tra i prodotti complessi senz’altro più diffusi – e non previsto dal legislatore nella citata proposta – vi rientra infine il Mudaraba, vale a dire il contratto con il quale un soggetto mette a disposizione il fattore capitale e un altro il fattore lavoro. Mentre questi condividono i profitti, il finanziatore non risponde delle perdite oltre il capitale erogato.

Tale strumento di derivazione medievale viene spesso utilizzato per finanziare l’acquisto di un bene e difatti la costruzione giuridica si compone sostanzialmente di due contratti di compravendita collegati, nei quali il primo contratto prevede l’acquisto da parte della banca del bene indicato dal finanziato al quale poi viene rivenduto ad un prezzo maggiorato, pagabile in forma rateale e differita.

In tutti i contratti esaminati è dunque ravvisabile la ricerca della costruzione giuridica più idonea a rispettare il divieto di rendimento predeterminato e su base temporale dell’investimento, e dunque il rendimento, seppur fisso, è ancorato al criterio dell’intermediazione commerciale o dell’utilizzo del bene. Di conseguenza interventi di regolazione sono essenziali.

Ragioni che spingono a regolamentare la materia attengono a vari aspetti, quali la presenza di milioni di cittadini musulmani nel mondo in costante incremento e la maggior parte dei quali con una istruzione finanziaria molto bassa, l’incredibile disponibilità economica di diversi paesi del mondo islamico come quelli arabi, la possibilità di utilizzare il sistema finanziario per aumentare l’integrazione sociale dei musulmani già residente in Europa.

Eppure l’Italia risulta essere l’unico tra i grandi paesi Europei ad aver totalmente ignorato il fenomeno, con il rischio di favorire l’accesso delle persone ai circuiti paralleli c.d. hawala per trovare risposta anche ai bisogni finanziari di base[7].

L’inevitabile lentezza del legislatore domestico nella normazione di un fenomeno che negli ultimi venti anni ha avuto tassi di crescita costantemente intorno al 10% a livello globale, ha portato diversi operatori del settore a valutare la possibilità di offrire prodotti Shariah compliant mediante islamic windows, vale a dire appositi sportelli all’interno delle banche convenzionali.

Proprio questa pare destinata ad essere la soluzione da impiegare medio tempore – in attesa della definitiva regolazione della materia – al fine di intercettare tali importanti flussi finanziari.

Tuttavia la disciplina dei prodotti in esame investe molteplici questioni che rendono necessario un intervento organico del regolatore.

Invero un mercato di prodotti finanziari Shariah compliant implica la necessità di normare anche aspetti come la relativa vigilanza, la disciplina antiriciclaggio e la corporate govenance della banca[8].

Appare comunque da segnalare che per molti aspetti le tipologie di finanziamento in ambito islamico, dovendo essere halal e dunque non contrarie alla Shariah, paiono simili a quelle delle ordinarie società di investimento etiche, e comunque si pongono in linea con il nuovo trend della finanza globale verso investimenti che contemplino i fattori E.S.G. (Environmental, Social, Governance).

Infine, sebbene non costituisca certo un argomento residuale, la regolazione della materia appare fondamentale anche al fine di non escludere dall’accesso al credito intere fasce di popolazione che corrispondono in Italia a quasi 1 milione di residenti, dovendo peraltro rilevare – sotto tale aspetto – che la questione concerna anche il rispetto del diritto costituzionalmente garantito di inclusione sociale.

 

[1] CHAPRA, Handbook of islamic banking, 2007

[2] LOMBARDI, Finanza Islamica: opportunità e limiti, 2008

[3] BENARAFA, La finanza sharaitica e l’ordinamento giuridico domestico: quale lo stato d’arte attuale, Diritto Bancario, 2018

[4] MCMILLEN, Contractual enforceability issues: sukuk and capital market development, Chicago Journal of International Law, Vol. 17, n. 2, 2007

[5] USMANI, An introduction to Islamic Finance, Kluwer Law International, 2002

[6] GOMEL, Finanza islamica e sistemi finanziari convenzionali. Tendenze di mercato, profili di supervisione e implicazioni per le attività di banca centrale, Questioni di economia e finanza, n. 73, 2010

[7] COLOMBO – FRENZA, Finanza islamica: un’opportunità non ancora sfruttata dal sistema bancario italiano, Contemplata, 2019

[8] EL GAMAL, Can Islamic Banking survive? A micro-evolutionary perspective, Madison, 1997