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L'intervento dell'Avvocato del Comune di Alba al seminario di Alba sull’articolo 54 bis del d.lgs. 165/2001 e sul whistleblowing

la Bocca della verità
la Bocca della verità

Intervento tenuto in occasione del seminario “Il sistema di segnalazione interna: whistleblowing e /strumenti di prevenzione della corruzione alla luce della l. 6 novembre 2012, n. 190 e s.m.i.

Alba, 12/07/2019

 

La disposizione in esame, come è noto, ha subito importanti modifiche (quasi una riscrittura) con la l. 179 del 2017, con la quale il legislatore ha tentato di raccogliere le sollecitazioni giunte dalla dottrina e, soprattutto, dall’ANAC, con la determinazione n. 6 del 28/04/2015.

Dell’impostazione originaria, la norma conserva, ovviamente, l’idea secondo cui il dipendente che segnala un illecito commesso da un collega non può, per questa ragione, subire misure ritorsive di sorta, siano esse di natura organizzativa o disciplinare.

La tutela si estrinseca, innanzitutto, nella nullità di tali atti, se non motivati da ragioni estranee alla segnalazione, che la parte datoriale è tenuta a dimostrare in giudizio in ragione dell’inversione dell’onere probatorio espressamente previsto dal comma 7 dell’articolo. Sotto altro profilo, la protezione si concretizza anche sull’identità del segnalante, che, secondo il testo vigente, conosce limiti importanti alla sua diffusione, specie in ambito disciplinare, ove è richiesto persino il consenso del segnalante stesso. Infine, sono previste sanzioni amministrative pecuniarie, comminate dall’ANAC, a carico di chi adotta tali misure discriminatorie (da 5.000 a 30.000 euro).

Dal punto di vista della mera protezione della parte debole, va peraltro evidenziato che l’ordinamento, in una prospettiva generale, già reprimesse i comportamenti datoriali ritorsivi, sia nell’ambito privato, sia in quello pubblico, facendo leva sull’illiceità del motivo. La scelta di introdurre una norma ad hoc, dunque, parrebbe denotare, accanto agli obiettivi di tutela, quello di promuovere la segnalazione interna come nuovo strumento di controllo sull’operato del funzionario pubblico (e non solo).

Se analizzata con approccio pratico, tuttavia, la norma può presentare qualche zona d’ombra.

La segnalazione, se presentata secondo i canali all’uopo previsti, determina, in capo al ricevente un vero e proprio obbligo di obbligo di verifica e di indagine, che in caso di omissione comporta pensati sanzioni (da 10.000 a 50.000 euro). Di fatto, dunque, la semplice presentazione di un esposto (se si esclude, forse, qualche ipotesi di palese infondatezza) può costringere un funzionario a subire attività di indagine da parte del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o, magari, dall’ANAC.

Se si pensa alle conseguenze che, in termini di reputazione o fiducia reciproca, può determinare la semplice apertura di una indagine, specialmente nelle amministrazioni di minori dimensioni, si può comprendere come la segnalazione possa con una facilità deviare dal suo ruolo virtuoso, per diventare uno strumento di perseguimento di interessi personali.

Non solo.

La tutela prevista dall’art. 54 bis non è garantita laddove sia accertata la responsabilità del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione, “anche con sentenza di primo grado”.

Pertanto, fin tanto che non interviene una sentenza di condanna penale in primo grado, il segnalante sembra poter godere di ampia protezione e ciò anche se il suo esposto ha contenuto calunnioso o diffamatorio. Ciò significa che egli, ad esempio, non potrebbe essere trasferito, anche laddove la segnalazione stessa, per il suo contenuto palesemente diffamatorio, lasciasse trasparire una compatibilità ambientale, dovendosi invece attendere il processo penale. Processo che, per inciso, non è detto neppure che abbia inizio, posto che il calunniato od il diffamato non hanno, in molti casi, possibilità di superare la barriera dell’anonimato che protegge il segnalante.

La giurisprudenza civile, ancora di recente, ha affermato che la presentazione di un esposto avente contenuto volutamente e coscientemente contrastante con la verità oggettiva dei fatti giustifica un licenziamento per lesione del rapporto fiduciario (Cass. Civ., sez. lavoro, 24/01/2017 n. 1752).

Resta il dubbio, ora, che tale insegnamento della Suprema Corte non sia più applicabile, quantomeno nell’ipotesi di segnalazione trasmessa secondo i canali del whistleblowing, dovendosi invece attendere l’esito di un giudizio penale per contestare un eventuale licenziamento fondato sul contenuto della segnalazione.

Creare questa stretta interdipendenza, per non dire consequenzialità, tra processo penale e procedimento sanzionatorio muove, tra l’altro, in direzione opposta rispetto alla tendenziale autonomia tra i due profili che caratterizza il nuovo procedimento disciplinare pubblico disciplinato nella stessa 165/2001.

E’ ben vero che, secondo il dettato normativo, il segnalante deve agire “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione”, col che sono escluse dal suo campo applicativo le segnalazioni volte a perseguire un interesse individuale legato al proprio rapporto lavorativo. Ma è altrettanto vero che, salvo casi macroscopici, la finalità reale della segnalazione emerge a valle dell’attività di indagine, quando, a livello di reputazione, possono già essersi determinati danni non facilmente rimediabili.

Desta, più che altro, qualche preoccupazione l’idea – che pare trasparire dalla disposizione – che la corruzione non possa più essere combattuta (solo) nell’ambito dei canali ordinari della repressione penale, ma che tale funzione sia oggetto di una sorta di delega diffusa, che, un po’ come ai tempi della caccia alle streghe, rischia di sfociare in spiacevoli distorsioni.

Non stupisce, allora, di leggere di funzionari che, folgorati dal sacro fuoco della legalità, non si sono limitati a segnalare, ma con particolare solerzia hanno svolto indagini approfondite, violando le chiavi di accesso ai sistemi informatici dei colleghi, per poi tentare di ripararsi dietro l’ombrello dell’art. 54 bis. Per fortuna, la giurisprudenza ha tenuto la posizione, ed ha evidenziato come “la normativa citata si limiti a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti imposti dalla legge” (così Cass. Pen., sez. V, 21/05/2018, n. 35792).

Viene, in definitiva, da chiedersi se non sia preferibile un sistema nel quale i fenomeni corruttivi siano perseguiti in seno ai canali ordinari, con le relative garanzie, valorizzando, invece, in seno al pubblico impiego forme di reclutamento realmente competitive, un effettivo funzionamento dei meccanismi premiali, quali il riconoscimento dei premi di produttività e delle progressioni orizzontali e, soprattutto, la più ampia trasparenza.