Maggiorazioni sociali bloccate da 14 anni
Con la Circolare n. 148 del 2020 l’Inps ha provveduto all’adeguamento delle prestazioni pensionistiche e di quelle assistenziali per il 2021.
Il trattamento minimo vale l’importo di 515,58 euro, mentre l’assegno sociale è fissato a 460,28 euro.
Già l’art. 6 dalla Legge n. 638 del 1983 sanciva il diritto del pensionato a ricevere un rateo sufficiente a garantire una vita dignitosa. Prima ancora, anche nella scala gerarchica, il secondo comma dell’art. 38 della Costituzione prevede che ai lavoratori vengano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di vecchiaia.
Il trattamento minimo, introdotto per la prima volta nel 1952 non era condizionato al rispetto di vincoli reddituali. Il primo limite da rispettare per beneficiarne veniva introdotto proprio dalla già citata legge del 1983.
La Riforma Amato del 1992 ha poi condizionato il diritto all’integrazione al trattamento minimo anche al rispetto di soglie di reddito coniugali. Dalla metà degli anni ’80 sono entrate in scena le maggiorazioni. La maggiorazione sociale è una somma che si aggiunge al valore base della pensione e dell’assegno sociale, in modo tale da garantire prestazioni leggermente più dignitose.
Con un susseguirsi di provvedimenti nel corso degli anni si è giunti alle previsioni della Finanziaria 2002 e successive modifiche operate dall’art. 5 della Legge n. 127 del 2007.
Da allora le cose non sono più cambiate e ad essere aggiornate di anno in anno sono soltanto le quote base di pensione e assegno sociale (la solita perequazione che non aggiunge altro che pochi spiccioli).
Inoltre proprio gli ultimi interventi hanno di fatto azzerato il gap tra le due prestazioni, una previdenziale (la pensione), l’altra puramente assistenziale (l’assegno sociale), attraverso l’introduzione di una maggiorazione massima di circa 190 euro per l’assegno sociale a fronte di una pari a circa 136 euro in favore della pensione minima.
Lo scostamento tra questi aumenti coincide esattamente alla differenza che separa alla base i due istituti. Ciò significa, a distanza di quattordici anni dall’ultimo aggiornamento in materia, continuare ad accettare una situazione di discriminazione indiretta che si protrae a danno di chi ha maturato il diritto ad una rendita pensionistica.
Potrebbe sembrare strano, eppure il legislatore è libero di trattare allo stesso modo casi che presentano elementi fattuali diversi. Accade appunto in ambito previdenziale.
La giurisprudenza della Corte riconosce dunque al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, ma mai irrazionali. La Costituzione con i suoi principi fondamentali rappresenta il principale (non unico) limite ineludibile.
Parificare situazioni oggettivamente diverse rappresenta una violazione del principio di eguaglianza. La Consulta in diverse pronunce conferma che il potere discrezionale del legislatore non è assoluto, ma condizionato dal “rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie” (Cost. 180/2001; 226/2000; 80/2010).
Occorre ricordare che il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali; “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (Cost. Sent. 275/2016).
Nella stessa direzione anche la sentenza n. 152 del 23 giugno 2020, con cui la Corte Costituzionale pone in primo piano i diritti della persona e le spese costituzionalmente necessarie inerenti all’erogazione delle relative prestazioni incomprimibili.
Sembra più che mai necessario non solo intervenire in materia aggiornando le quote di integrazione/maggiorazione, ma anche e soprattutto ristabilire quel doveroso distacco tra la pensione e l’assegno sociale.