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Malato da tempo “Don Raffaè” muore al 41-bis di Parma

Raffele Cutolo
Raffele Cutolo

Indice:

1. Introduzione

2. Quadro generale normativo di riferimento

3. Tra condanna e diritti fondamentali

 

1. Introduzione

Lo scorso 17 febbraio 2021, presso il 41- bis di Parma, all’età di 79 anni è morto il boss della nuova camorra Raffaele Cutolo. Da 40 anni si trovava in carcere e da 25 era stato sottoposto al regime più restrittivo del 41 – bis. Il boss era afflitto da tempo da numerose patologie, ma nonostante l’età e le gravi condizioni di salute, nel 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Bologna – confermando quanto pronunciato dai giudici di Reggio Emilia – aveva respinto la richiesta avanzata dal difensore di Cutolo sulla concessione degli arresti domiciliari al boss per motivi di salute.

Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, al termine di una lunga analisi, aveva motivato l’ordinanza sostenendo: “Le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione”.

La decisione era stata confermata nonostante in piena emergenza pandemica, l’AUSL di Parma avesse indicato il carcere come luogo ad alto rischio contagi, a maggior ragione nelle condizioni di Cutolo. Il boss dallo scorso 30 luglio 2020 si trovava, infatti, ricoverato presso l’ospedale maggiore di Parma in condizioni di salute particolarmente gravi. Secondo quanto dichiarato dal difensore e dal perito psichiatrico di parte Cutolo soffriva, tra le tante patologie, di un forte disturbo neurocognitivo tanto da non riconoscere più né il suo legale né i suoi famigliari.

Il Tribunale, però, aveva motivato il provvedimento sostenendo la lucidità del boss e di conseguenza la sua pericolosità sociale. Quali sono allora i diritti fondamentali che tutelano la dignità umana della persona in quanto tale? Qual è allora il giusto equilibrio tra tutela della pubblica sicurezza e diritto alla salute della persona? L’articolo che segue vuole a riguardo fornire alcuni spunti di riflessione.

 

2. Quadro generale normativo di riferimento

L’articolo 41-bis ordinamento penitenziario viene introdotto nell’ordinamento italiano con DL n.306/1992. L’articolo prevede l’introduzione di un regime carcerario più restrittivo in situazioni di emergenza o per condannati per gravi reati quali reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Tutte le misure previste sono finalizzate a garantire un’impossibilità di comunicazione: si può parlare di “carcere nel carcere” in quanto il detenuto è sottoposto a una più continua e specializzata sorveglianza e, inoltre, viene privato di ogni suo bene: all’ingresso in carcere il detenuto, ad esempio, viene fatto spogliare e perquisito, allo scopo di scongiurare l’introduzione di materiale pericoloso o con il quale lo stesso potrebbe continuare ad intrattenere rapporti con l’esterno.

Viene privato della possibilità di avere colloqui in forma privata: il detenuto può partecipare ai colloqui solo con i famigliari più stretti e/o conviventi, ma il tutto deve avvenire alla presenza di un’autorità penitenziaria.

Il 41- bis è applicato dal Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro degli Interni, con decreto. Il decreto sospende l’applicazione di alcune delle regole ordinarie di disciplina della vita penitenziaria e ridefinisce in senso più restrittivo gli spazi di libertà all’interno del carcere, già previsti o regolamentati in via ordinaria per tutti i detenuti.

La durata di tale regime non ha un limite temporalmente definito: si tratta di un regime a durata tendenzialmente indeterminata rapportata alla pericolosità sociale dell’individuo. Due sono gli indici di cui si tiene generalmente conto nella prassi applicativa del 41 -bis:

a) il grado di capacità operativa sul territorio dell’organizzazione alla quale il detenuto appartiene;

b) il ruolo rivestito dal soggetto all’interno dell’organizzazione fino al momento dell’arresto.

Tali indici di pericolosità sono tratti dall’ufficio del P.M., dalla Direzione Nazionale Antimafia e dagli organi di Polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata terroristica o eversiva e sono fondati essenzialmente sulla comprovata appartenenza del soggetto ad associazione di tipo mafioso (o terroristico ed eversivo) risultante dal titolo di detenzione e da eventuali procedimenti pendenti.

L’ordinamento ammette anche la proroga del provvedimento, in questo caso, però, la legge si accontenta di una presunzione di prova cioè la potenziale attitudine a riallacciare i contatti, nell’ipotesi di una collocazione del detenuto in regime detentivo ordinario. Il detenuto contro il quale ha effetto questa proroga, ovvero il suo difensore possono presentare reclamo entro venti giorni dalla comunicazione.

 

3. Tra condanna e diritti fondamentali

La pericolosità sociale di individui, come il boss Raffaele Cutolo, presuppone certamente un intervento da parte della giustizia, la quale interviene appunto attraverso lo strumento del 41-bis, d’altra parte, però, qualora ne sussistano le condizioni, il giudice deve attentamente valutare anche una possibilità di sospensione di tale regime.

La linea che intercorre, infatti, tra la salvaguardia della pubblica sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano in quanto tale è una line molto sottile. In casi, come questo di Cutolo, il rischio in cui si può incappare è quello di valutare esclusivamente Cutolo come “personaggio” e non Cutolo come “persona”, anche se la nostra Costituzione all’articolo 2 tutela e garantisce i diritti inviolabili della persona.

Nel caso di specie, Cutolo versava da tempo in condizioni di salute pessime, era affetto da plurime e gravi patologie di deterioramento cognitivo, ma gli erano state negate sia una richiesta di detenzione domiciliare sia una richiesta di differimento della pena. Perché si trovava allora ancora sottoposto al 41-bis?

Si ricordi che l’Italia era già stata condannata dalla CEDU nel 2018 per il caso Provenzano c. Italia. Con la sentenza del 25 settembre 2018 la CEDU, infatti, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 (divieto di pena e trattamenti inumani e degradanti) limitatamente alla proroga disposta con decreto ministeriale del 23 marzo 2016, in ragione della sostanziale assenza di una aggiornata rivalutazione delle ulteriormente peggiorate condizioni cognitive del ricorrente.

Posto che in casi del genere, come quello di Provenzano e di Cutolo, sulla base della “fedina penale”, una condanna così severa si era resa necessaria, è necessario tenere, però, altrettanto conto dello stato attuale del detenuto.

Nessun crimine, infatti, può giustificare una perpetua sospensione dei diritti che concorrono a formare e tutelare la dignità di una persona, senza eccezioni, perché la dignità umana coincide con l’essenza stessa della persona.