Nicolò Carosio e il razzismo inesistente
11 Giugno, mondiale messicano del 1970, Italia v Israele. Cinquant’anni fa Nicolò Carosio commenta per l’ultima volta una gara della nostra nazionale di calcio, dovendosi poi congedare a malincuore dal “suo” pubblico.
Quella che alla vigilia sembrava una partita di facile abbordaggio per i ragazzi di Ferruccio Valcareggi, si rivela al contrario una pratica parecchio scabrosa; ma se la prova degli azzurri è poi consegnata agli archivi sportivi con il risultato di 0 a 0, la performance dell’allora decano del giornalismo sportivo tricolore si iscrive nei registri della storia alla voce “sconfitta”. Una bruciante e immeritata sconfitta, che fa definitivamente calare il sipario su quasi 40 anni di onorata e signorile carriera al seguito della nostra nazionale.
L’incidente nel quale incappa Carosio – ma forse sarebbe il caso di parlare di trappola – ha il volto fino ad allora anonimo del beffardo Seyoun Tarekegn, guardalinee di colore e di nazionalità etiope. L’attimo fatale in cui si compie la parabola estintiva di Carosio è invece il minuto 29: Gigi Riva, punta di diamante dell’attacco azzurro, si smarca alla sua maniera e insacca nella porta presidiata dell’estremo difensore israeliano. È un gol di solare regolarità che regala a milioni di telespettatori italiani una sospirata esultanza, immediatamente strozzata dall’inspiegabile intervento di Tarekegn che segnala al direttore di gara, il brasiliano Vieira de Moraes, un fuorigioco a dir poco inesistente.
(Qui la telecronaca originale)
Carosio, che per due volte aveva definito il guardalinee “l’etiope”, non smarrisce lo stile elegante che lo aveva contraddistinto per anni di onorato servizio e si limita a notare:
“Rete! L’arbitro ha convalidato il punto. Però il guardalinee ha alzato la bandiera…L’arbitro aveva convalidato il punto e il guardalinee… no: niente convalida!… Ma siamo proprio sfortunati!”.
È il tanto che basta per scatenare all’indomani una indegna gazzarra. Iniziata con la nota di disappunto dell’ambasciatore etiope a Roma e culminata con l’assurda decisione di Ettore Banabei – direttore della RAI di cui Carosio era collaboratore esterno – che lo sostituisce col suo vice, Nando Martellini. A nulla valgono le difese tra gli altri di Enzo Tortora e di Carmelo Bene, oltre che di milioni di italiani: Nicolò Carosio finisce nel tritacarne mediatico, travolto da colate di fango che soprattutto gli addebitano la mai pronunciata parola “negraccio”, rivolta sempre al guardalinee.
Non c’è nulla fare, l’inventore del “quasi goal” diventa agnello sacrificale di una giustizia sommaria, votata al linciaggio ed ovviamente per nulla interessata alla verità. La sua vicenda professionale si chiude lì, nel peggiore dei modi. Ci vorranno anni prima di chiarire l’ “innocenza” di Carosio che, come al solito, aveva svolto al meglio il proprio lavoro utilizzando un italiano impeccabile e definendo semplicemente etiope l’assistente di gara, che etiope lo era per davvero.
Alla completa riabilitazione ha forse contribuito più di ogni altro Massimo De Luca, il quale ha scagionato Carosio e restituito dignità ad un professionista vittima di quella che oggi definiremmo una volgare “fake news”. L’ex conduttore della domenica sportiva con un libro (Sport in tv, scritto a quattro mani con Pino Frosoli), con un ampio servizio in una delle sue “domeniche” e anche con uno spettacolo teatrale (Quasi goal) ha precisato fatti e circostanze, citato nomi e fonti, arrivando finalmente a sollevare, davanti al tribunale della storia, Carosio dall’ingiusta ed infamante accusa di razzismo. Smascherata però la dinamica della macchinazione, enfatizzata sino all’inverosimile per ottenere lo scalpo del “radiotelecronista” di tante imprese azzurre, resta ancora oggi avvolta nel mistero la matrice dell’ordito che lo inghiottì.
Per anni si sono accavallate tesi e congetture quanto più disparate possibile, senza mai venire a capo della questione. Certo è che lo spilungone gentiluomo, nato a Palermo da madre inglese, cominciò a far brillare la sua stella negli anni d’oro del regime. C’era lui nel ’33 al Littoriale di Bologna a commentare la sfida amichevole tra Germania e Italia, una partita (ahinoi) che a guardarla oggi sembra quasi un fatale segno del destino. C’era lui, nel ’34 a Londra, a commentare la celebre Battaglia di Highbury e a cantare le gesta epiche degli undici gladiatori italiani, salutati in patria come eroi da Mussolini in persona.
E fu sempre la sua voce che, nel ’34 da Roma e nel ’38 da Parigi, irruppe nelle case degli Italiani (sintonizzati via radio) descrivendo, come altri non avrebbero saputo fare, i trionfi mondiali della corazzata agli ordini di Vittorio Pozzo. Nel mezzo, anche le Olimpiadi di Berlino del ’36: quelle con le quali il nazismo volle mostrare al mondo progressi e “potenza di fuoco”. Quanto questi trascorsi abbiano potuto pesare sull’intrigo e il defenestranento di Carosio, non lo sapremo mai.
Di sicuro c’è che la sua carriera, schiusasi di fatto con la radiocronaca di un derby tra Juve e Torino –inventata all’impronta al cospetto degli esaminatori dell’EIAR, che si sarebbero poi pronunciati positivamente sulle sue qualità concedendogli un contatto a soli 25 anni – conosce il suo tramonto con un’altra invenzione, cattiva e vigliacca: quella, per l’appunto, della Bombonera di Toluca in quel maledetto 11 giugno del 1970. Nicolò Carosio, “il padre di tutti noi radio e telecronisti sportivi”, come ebbe a definirlo Riccardo Cucchi, muore a Milano nel 1984 e nel quasi generale silenzio. Non lo dimenticò Nando Martellini nella gloriosa notte di Madrid, quando il cielo della capitale spagnola, l’11 luglio del 1982, si tinse di meravigliosi corimbi azzurri:
“Ed ora mi rendo conto di quello che provò l’amico Nicolò Carosio nel 1934 e nel 1938 quando disse dal microfono dell’EIAR quello che questa sera modestamente posso ripetere io. L’Italia è campione del mondo! Campione del mondo! Il titolo più grande che possa essere conquistato nello sport più popolare del mondo. Una vittoria limpida, campione del mondo, campione del mondo”.
Un modo elegante per condividere quella magica data con il suo Maestro. Ma, come Martellini, allo stesso modo non devono dimenticarlo gli Italiani, sportivi e non. Perché Carosio non fu solo un ottimo professionista, ma anche un raro esempio di galantomismo e dirittura morale. Oggi, a distanza di mezzo secolo, dovremmo finalmente riconoscerlo tutti.