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Sul rifiuto, da parte del lavoratore, di ricevere la lettera di licenziamento

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 18 settembre 2009, n.20272
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - DISCIPLINARE - Comunicazione di licenziamento - Rifiuto del destinatario di riceverla - Regolarità dell’atto unilaterale recettizio - Sussistenza - Fondamento.

In tema di consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato, ed alla regola della presunzione di conoscenza dell’atto desumibile dall’art. 1335 cod. civ.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alle conseguenze giuridiche del rifiuto del lavoratore di ricevere la lettera di licenziamento che gli viene consegnata a mani sul posto di lavoro.

La rilevanza giuridica del tentativo di consegna non riuscito a causa – appunto – del rifiuto del destinatario, è, per la verità, un tema sul quale gli ermellini sono tornati più volte, da ultimo con la sentenza n. 26390 del 3 novembre 2008 (in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2009, Parte II, p.570) .

In tutti i casi, però, si legge nelle decisioni delle Corte, argomenti di natura sistematica depongono a favore della conclusione secondo cui il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta (Cass. 12 novembre 1999, n. 12571, in Massimario di Giurisprudenza Civile, 1999, p. 2237).

È infatti principio generale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, inficiandone l’adempimento.

Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile per esempio dalla disciplina della mora credendi (per cui il rifiuto dell’adempimento non può nuocere al debitore), o dalla specifica regola della presunzione di conoscenza (art. 1335 Cod. civ. ) secondo la quale gli atti si presumono conosciuti con il semplice arrivo all’indirizzo del destinatario, essendo invece irrilevante il rifiuto di riceverli.

Dal diritto processuale inoltre, indicazioni ancora più chiare sono fornite dall’art. 138 del Codice di procedura civile, (secondo il quale se il destinatario si rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie), e del successivo art. 140 (secondo cui il rifiuto di ricevere le comunicazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario – ma il principio vale anche per le raccomandate – equivale a consegna).

Al principio in questione però non è da riconoscersi portata assoluta. Deve affermarsi infatti che non esiste un incondizionato obbligo, o onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni, e in particolare di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione. «Una situazione di soggezione a tali fini è certamente sussistente [solamente] rispetto alle comunicazioni normativamente disciplinate, quali quelle mediante notificazione (che si attuano con il concorso di un potere pubblicistico) o mediante i servizi postali» (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 2001, p. 872). Al di fuori di questi casi invece, una situazione di soggezione del destinatario può originare solo dalle situazioni e dai rapporti giuridici cui la comunicazione stessa si collega.

Se quindi «non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest’obbligo può invece sussistere in relazione alle circostanze» (e purché non sia prescritto dalla legge o dal contratto l’utilizzo di un mezzo specifico) quando i due soggetti privati «siano uniti da uno stretto vincolo contrattuale che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all’interno del rapporto negoziale». E in particolare quest’obbligo deve ritenersi esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell’ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore di lavoro al datore, e che comporta «per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse», una soggezione dal dipendente al datore di lavoro.

L’ossequio a questi limiti ha indotto la Corte a ritenere che fosse idoneo ad attivare la presunzione di conoscenza il tentativo di consegna effettuato sul posto di lavoro da un soggetto all’uopo incaricato dall’imprenditore (Cass. 5 novembre 2007, n. 23061, in Guida al Lavoro, 2008, fasc. 4, pag. 37); mentre non è stato ritenuto idoneo il tentativo effettuato in luogo pubblico e al di fuori dell’orario di lavoro (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, cit.).

Infine i medesimi limiti valgono anche a qualificare il rifiuto del lavoratore sotto il profilo disciplinare: questo infatti assumerà i connotati dell’insubordinazione solo se manifestato sul luogo e durante l’orario di lavoro; mentre in via generale non sarà sanzionabile, e ciò senza che ragioni di correttezza o buona fede inducano a ritenere il contrario.

LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - DISCIPLINARE - Comunicazione di licenziamento - Rifiuto del destinatario di riceverla - Regolarità dell’atto unilaterale recettizio - Sussistenza - Fondamento.

In tema di consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato, ed alla regola della presunzione di conoscenza dell’atto desumibile dall’art. 1335 cod. civ.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alle conseguenze giuridiche del rifiuto del lavoratore di ricevere la lettera di licenziamento che gli viene consegnata a mani sul posto di lavoro.

La rilevanza giuridica del tentativo di consegna non riuscito a causa – appunto – del rifiuto del destinatario, è, per la verità, un tema sul quale gli ermellini sono tornati più volte, da ultimo con la sentenza n. 26390 del 3 novembre 2008 (in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2009, Parte II, p.570) .

In tutti i casi, però, si legge nelle decisioni delle Corte, argomenti di natura sistematica depongono a favore della conclusione secondo cui il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta (Cass. 12 novembre 1999, n. 12571, in Massimario di Giurisprudenza Civile, 1999, p. 2237).

È infatti principio generale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, inficiandone l’adempimento.

Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile per esempio dalla disciplina della mora credendi (per cui il rifiuto dell’adempimento non può nuocere al debitore), o dalla specifica regola della presunzione di conoscenza (art. 1335 Cod. civ. ) secondo la quale gli atti si presumono conosciuti con il semplice arrivo all’indirizzo del destinatario, essendo invece irrilevante il rifiuto di riceverli.

Dal diritto processuale inoltre, indicazioni ancora più chiare sono fornite dall’art. 138 del Codice di procedura civile, (secondo il quale se il destinatario si rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie), e del successivo art. 140 (secondo cui il rifiuto di ricevere le comunicazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario – ma il principio vale anche per le raccomandate – equivale a consegna).

Al principio in questione però non è da riconoscersi portata assoluta. Deve affermarsi infatti che non esiste un incondizionato obbligo, o onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni, e in particolare di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione. «Una situazione di soggezione a tali fini è certamente sussistente [solamente] rispetto alle comunicazioni normativamente disciplinate, quali quelle mediante notificazione (che si attuano con il concorso di un potere pubblicistico) o mediante i servizi postali» (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 2001, p. 872). Al di fuori di questi casi invece, una situazione di soggezione del destinatario può originare solo dalle situazioni e dai rapporti giuridici cui la comunicazione stessa si collega.

Se quindi «non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest’obbligo può invece sussistere in relazione alle circostanze» (e purché non sia prescritto dalla legge o dal contratto l’utilizzo di un mezzo specifico) quando i due soggetti privati «siano uniti da uno stretto vincolo contrattuale che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all’interno del rapporto negoziale». E in particolare quest’obbligo deve ritenersi esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell’ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore di lavoro al datore, e che comporta «per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse», una soggezione dal dipendente al datore di lavoro.

L’ossequio a questi limiti ha indotto la Corte a ritenere che fosse idoneo ad attivare la presunzione di conoscenza il tentativo di consegna effettuato sul posto di lavoro da un soggetto all’uopo incaricato dall’imprenditore (Cass. 5 novembre 2007, n. 23061, in Guida al Lavoro, 2008, fasc. 4, pag. 37); mentre non è stato ritenuto idoneo il tentativo effettuato in luogo pubblico e al di fuori dell’orario di lavoro (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, cit.).

Infine i medesimi limiti valgono anche a qualificare il rifiuto del lavoratore sotto il profilo disciplinare: questo infatti assumerà i connotati dell’insubordinazione solo se manifestato sul luogo e durante l’orario di lavoro; mentre in via generale non sarà sanzionabile, e ciò senza che ragioni di correttezza o buona fede inducano a ritenere il contrario.