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Tra progresso e nostalgia, torniamo ad Eupalla

Gianni Brera come antidoto alla deriva progressista del calcio (che vuole trasformarlo in un ambito ultra-specialistico), e anche contro la nostalgia del pallone da cartolina
Gianni Brera
Gianni Brera

Nel primo episodio di questa rubrica ci eravamo soffermati sul calcio come show, sul confezionamento che si fa di un autentico spazio di libertà fino a renderlo un prodotto appetibile, soprattutto vendibile.

Questa è la macro-categoria con cui oggi si mette sul mercato il pallone, e per una narrazione differente ritagliarsi uno spazio è lavoro lungo e complesso.

Noi in fondo nasciamo dal negativo: citando un po’ a sproposito Montale all’inizio sapevamo solo ciò che non eravamo, e ciò che non volevamo. Ma andando avanti ci siamo resi conto ancor di più di tutte le criticità del giornalismo sportivo; e non parliamo solo di articoli con titoloni acchiappa-click o di galleries delle fidanzate dei calciatori mezze nude, che ormai abbondano anche sui siti e sulle pagine dei più importanti (e storici) giornali italiani. L’abitudine e l’attitudine alla semplificazione d’altronde è ormai pratica diffusa ed estesa a tutti gli ambiti. 

I problemi sorgono però anche quando il giornalismo sportivo vuole approfondire, e non essendo più in grado di trasmettere l’epica rischia di morire di cronaca o di ideologia. Di cronaca perché, anche se ben eseguita, quella di riportare i fatti sportivi non è certo alla lunga una strada sostenibile. Di ideologia invece perché, perdendo riferimenti e maestri, questo settore si sta spaccando tra i progressisti (che stanno vincendo a mani basse la contesa mediatica) e i nostalgici, che si chiudono in se stessi a rimpiangere non solo il sistema calcio di decenni or sono - con tutte le ragioni del caso -, ma addirittura gli stessi giocatori, che per il solo fatto di essere “passati” diventano automaticamente migliori: sul web è questo lo scontro in atto, con i conservatori ben più numerosi ma ampiamente sconfitti dalla storia, e quindi dagli organi di informazione

Il problema è che gli altri, i fautori del progresso, stanno trasformando il calcio in una scienza, in una questione da nerd ultra-settorializzata di cui il grande pubblico non può discorrere.

È un’impostazione specialistica, elitaria, un po’ snob, che non ha tra l’altro portato bene né ai media tradizionali né alla stessa politica, sommersi da quel popolaccio che avevano troppo a lungo ignorato; e allora li vedi che iniziano a discorrere di temporizzazioni, pressing settoriale, difesa tattico-situazionale, expected goals e tecnicismi simili (meglio se in inglese, ovviamente). Tuttavia il progresso applicato al calcio rischia di svuotare e di schiacciare il pallone, di essere il braccio armato di quella spettacolarizzazione di cui parlavamo nello scorso appuntamento.

Questo è un modo per allontanare il grande pubblico che non si sente più rappresentato dagli “intellettuali”, alla conquista anche dello sport: d’altronde Gianni Brera, vero maestro del giornalismo sportivo italiano, pur con tutti i suoi neologismi e con un nuovo linguaggio calcistico da lui stesso inaugurato, non dimenticò mai le sue origini.

Legatissimo alla terra natia, in un quasi ossessivo richiamo al proprio territorio del Pavese, egli le rivendicava orgogliosamente, quelle origini (Gioannfucarlo, nome con cui lui stesso si definiva, è proprio una reminiscenza contadina del primo Novecento).

 

E il suo retroterra confluiva immancabilmente nel racconto sportivo, che fosse di cronaca o di critica: Brera restò infatti, pur con tutta l’energia dell’innovazione, sempre ancorato al contesto nazionale. Seguì l’atletica, il ciclismo e infine il calcio, in comunione d’intenti con il popolo italiano.

E fu, se così vogliamo dire, un “conservatore pallonaro”, uno strenuo difensore delle nostre tradizioni sportive e un partigiano del “catenaccio” tipicamente italiano, rappresentazione autentica di un territorio;

il determinismo ambientale anche nel calcio, un concetto che a dirlo oggi, nell’epoca della scomparsa di tutti i confini e di tutte le rappresentazioni, ti ridono in faccia. 

E allora il difficile, tornando a noi, sta proprio qui: tenere i piedi ben saldi a terra, in una tradizione sportiva e veramente intellettuale, e allo stesso tempo muoverci in un contesto radicalmente cambiato. Né con il nostalgismo sconsolato e fine a sé stesso, né con il progresso elitario che esclude milioni di appassionati.

Spesso lo sport parla da sé, tra l’altro: basterebbe renderlo il meno ideologico possibile e, tornando a Brera, assecondare semplicemente quella che lui stesso chiamava Eupalla, «la Divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi». Magari cambiando forma e stile, certo, ma mantenendo l’epica o quantomeno il valore sociale.