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Almerigo Grilz, reporter coraggioso e dimenticato

Trabocchi
Ph. Riccardo Radi / Trabocchi

L'Africa è purtroppo un continente che, nel corso della sua lunga storia, è stato in lungo e in largo attraversato da guerre che l'hanno profondamente martoriato. Guerre a proposito delle quali nella maggior parte dei casi nel resto del mondo si è conosciuta appena l'esistenza. Sotto quest'ultimo aspetto vale la pena dire che l'ignoranza più o meno marcata sui conflitti in questione è legata al fatto che non vi siano stati e non vi siano tutt'ora molti inviati pronti ad andare sul campo per raccontare con capacità e competenza quel che veramente accade.

Se è vero, infatti che nel corso degli anni il modo di fare giornalismo è molto cambiato anche grazie allo sviluppo dei mezzi tecnologici e delle conseguenti possibilità di comunicazione, lo è altrettanto il fatto che anche il più sofisticato strumento a disposizione non sostituisce e non sostituirà mai l'effettiva presenza sul terreno di un reporter che osserva con i suoi occhi quel che accade e lo testimonia nei suoi articoli e nei suoi servizi.

Osservazione diretta dunque, anche a costo di correre più di qualche rischio. È esattamente questo lo spirito con cui, a proposito di Africa (ma non solo), Almerigo Grilz negli anni Ottanta - quelli delle “guerre dimenticate” - ha fondato insieme ai suoi due colleghi Gian Micalessin e Fausto Biloslavo (ancora oggi tra i massimi esempi di giornalismo di guerra), l'agenzia di stampa Albatross.

L'idea dei tre giovani giornalisti, che per la loro intraprendenza coraggiosa e un po' folle venivano chiamati dai colleghi di allora “crazy italians”, era appunto quella di andare in giro per il mondo per documentare e raccontare (corredando i loro servizi con testimonianze, fotografie e filmati fondamentali per ricostruire le posizioni di entrambe le parti in causa) moltissimi dei conflitti di cui altrimenti si sarebbe saputo poco o nulla.

Uno di questi, l'ultimo per Grilz, fu quello, civile, che si combatté in Mozambico tra le truppe governative e i ribelli della Renamo. Un conflitto iniziato nel 1981, che nel corso del suo svolgersi provocò circa un milione di morti. Tra loro c'è stato, purtroppo, anche Almerigo Grilz.

Era l'alba del 19 maggio 1987 quando, mentre filmava, in piedi, la ritirata dei miliziani della Renamo dopo un fallito attacco alla città di Caya, il giovane reporter triestino (aveva appena 34 anni) venne colpito alla testa da una pallottola vagante. Morì sul colpo e, come da sue volontà, venne seppellito non lontano dal campo della battaglia che stava raccontando.

Almerigo è stato il primo giornalista italiano caduto mentre faceva il proprio lavoro dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Eppure la notizia della sua morte - salvo qualche lodevole eccezione - trovò pochissimo spazio sui media italiani. E quando lo trovò, era pieno di accuse a dir poco infamanti. Come quelle di chi lo descrisse come un mercenario, una spia e un mercante d'armi. Uno, insomma, che in fondo se l'era cercata. Non così all'estero, dove peraltro il suo lavoro (e quello dei suoi colleghi ed amici dell'Albatross) era molto apprezzato. Vale su questo punto, a titolo di esempio, il fatto che il nome di Almerigo è stato inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha dedicato a tutti i giornalisti caduti sul campo.

Perché, invece, in Italia se ne parlò poco o nulla? A cosa fu dovuta l'indifferenza e l'infamia che la stampa nostrana ha riservato a Grilz?

La risposta è tanto semplice quanto aberrante nella sua bassezza. L'hanno sintetizzata perfettamente i DDT (gruppo milanese di rock identitario) in una loro bellissima ballata intitolata “Almerigo”, nel cui testo tra l'altro si legge: “Coraggio quanto serve e stoffa da cronista ma non ti han perdonato quegli anni da fascista. E allora niente fiori, niente telegiornale, sei solo un camerata a cui è andata male”.

La “colpa” di Grilz era quella di aver militato nel Fronte della Gioventù di Trieste. È dunque il suo impegno politico, abbandonato dal punto di vista attivistico ma non ideale per seguire la passione del giornalismo, il motivo della damnatio memoriae che gli è stata riservata dai media mainstream nostrani. Non importa se i suoi servizi e articoli dal Mozambico, ma anche, in precedenza, da Afghanistan, Eritrea, Angola, Cambogia, Birmania, Medio Oriente, Etiopia, Irlanda del Nord e Filippine (solo per citare alcuni dei luoghi in cui Grilz e i suoi colleghi sono stati), hanno trovato spazio tra gli altri sul Sunday Times e su numerosi importanti network internazionali. Non importa se la sua professionalità era di un livello tale che molti giornalisti di oggi se la sognano. Non facciamo nomi, non è necessario. Basta aver seguito, per esempio, la guerra in Siria per sapere che spesso e volentieri, con buona pace dell'etica professionale e della verità, oggi si raccontano cose “per sentito dire” o peggio per dare spazio a “veline” al servizio di un “pensiero unico” politicamente e ideologicamente orientato. Un modo di fare questo assai distante da Almerigo, che aveva come unico scopo quello di raccontare la verità. Tutta la verità. Anche a costo della vita.

Piuttosto che riconoscere che un fascista, come venne sprezzantemente definito Grilz, fu un grande cronista, la casta dei burocrati del giornalismo preferisce il ridicolo” afferma Maurizio Belpietro in un suo scritto dedicato al reporter triestino. E aggiunge che tale atteggiamento “è un monumento di meschinità, ma è anche il sepolcro della stupidità e della faziosità del giornalismo italiano. Un contraltare perfetto al coraggio di Almerigo”.

Un coraggio che i suoi colleghi dell'Albatross Micalessin e Biloslavo hanno fatto di tutto per far conoscere. Oltre a raccontare di lui in ogni occasione possibile, hanno scritto la postfazione di un albo a fumetti (“Almerigo Grilz. Avventure di una vita al fronte”, Ferrogallico, 2017); hanno realizzato un meraviglioso ed emozionante filmato (“L'albero di Almerigo”, 2002) in cui, andando alla ricerca del luogo in cui è sepolto, si ripercorrono gli ultimi istanti di vita di Grilz (estremamente evocativo il montaggio, che unisce le immagini girate da Almerigo a quelle riprese quindici anni dopo dai suoi amici e colleghi); hanno organizzato una mostra e relativo libro fotografico (“Gli occhi della guerra”) in cui si ripropongono i loro reportage realizzati in giro per il mondo. Un'iniziativa questa che, spiegano, è dedicata ad Almerigo e si conclude con un settore dedicato a lui, in cui, tra l'altro, è dettagliatamente spiegato il progetto di costruire in sua memoria (in collaborazione con Modavi onlus) un dispensario sanitario nella Repubblica democratica del Congo. Un'iniziativa questa che “porta anche la firma di Almerigo” concludono Biloslavo e Micalessin. “Perché contiene molte sue foto, scattate prima di morire in Mozambico. C’è il suo nome perché lui è e resterà uno di noi. Nonostante tutto e tutti”.