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La carità che uccide

Dambisa Moyo, 2009
Africa
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La carità che uccide
La carità che uccide, Dambisa Moyo

Perché leggere questo libro

La carità che uccide è la storia del fallimento della politica postbellica di sviluppo basata sugli aiuti. L’autrice, l’economista zambiana Dambisa Moyo, smantella i presupposti e le argomentazioni che hanno sostenuto questa scelta come soluzione al problema della povertà in Africa, presentando delle prove lampanti. Il libro mette a confronto paesi che hanno respinto la via dell’assistenza e prosperato, con altri che ne sono diventati dipendenti e sono rimasti intrappolati in un circolo vizioso di corruzione, distorsione dell’economia, ulteriore povertà e quindi ulteriore “necessità” di sussidi.

Questo libro tratta di come ottenere uno sviluppo senza ricorrere agli aiuti: una via meno battuta, più dura, più impegnativa, più difficile, ma che altrove ha funzionato e che rappresenta l’unica prospettiva per il futuro dei paesi più poveri del mondo. Nel 2009, grazie al successo mondiale di questo libro, la rivista Time ha inserito Dambisa Moyo tra le cento personalità più influenti del mondo.

 

Punti chiave

  • La cultura pop ha diffuso l’idea sbagliata che gli africani non possano uscire da soli dalla povertà
  • Dal 1970 a oggi l’Africa ha ricevuto più di trecento miliardi di dollari per promuovere lo sviluppo
  • Questo fiume di denaro proveniente dall’estero ha alimentato corruzione e conflitti, scoraggiando al tempo stesso la libera iniziativa
  • L’assistenzialismo costringe l’Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga
  • Negli ultimi trent’anni i paesi più dipendenti dagli aiuti hanno mostrato tassi di crescita media di –0,2 percento all’anno.
  • Tra il 1970 e il 1998, quando l’erogazione di aiuti era al culmine, in Africa la povertà salì dall’11 percento al 66 percento
  • Gli investimenti esteri e le esportazioni sono la chiave dello sviluppo
  • Gli investitori cinesi hanno portato più benefici all’Africa dei donatori occidentali
  • Il protezionismo europeo e americano danneggia gravemente gli agricoltori africani
  • È venuto il momento di fermare il ciclo dell’assistenza

 

Titolo originale: Dead Aid. Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa

 

Riassunto

I danni della cultura pop

Il 13 luglio 1985 va in scena il concerto Live Aid, con un miliardo e mezzo di spettatori in diretta: l’apice del programma di donazioni dei Paesi occidentali benestanti alle disastrate economie dell’Africa subsahariana, che a partire dagli anni Cinquanta ha elargito centinaia di miliardi di dollari. Gli aiuti internazionali sono diventati infatti parte dell’industria dell’intrattenimento.

Personalità mediatiche, stelle del cinema, leggende del rock abbracciano con entusiasmo la filosofia degli aiuti, ne propagandano la necessità, rimproverano il pubblico e i governi per non aver dato abbastanza. I governi si adeguano, timorosi di perdere popolarità e ansiosi di ottenere consenso. Gli aiuti sono diventati un bene di consumo culturale, milioni di persone si impegnano a promuoverli e i governi occidentali vengono giudicati in base ad essi.

Il concetto secondo cui gli aiuti possono alleviare la povertà sistemica, e che ci siano riusciti, è però un mito, e la cultura pop ha rafforzato questa idea sbagliata. Venticinque anni dopo, infatti, la situazione è ancora rovinosa. Cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica?

Perché la maggior parte dei paesi subsahariani affonda in un ciclo apparentemente infinito di corruzione, malattie, povertà e dipendenza dagli aiuti, nonostante dal 1970 a oggi abbia ricevuto più di trecento miliardi di dollari per promuovere lo sviluppo?

La verità è che oggi in Africa milioni di persone sono più povere proprio a causa degli aiuti, che sono stati e continuano a essere un totale disastro politico, economico e umanitario. Alcune donazioni, come quelle elargite privatamente o quelle destinate alle emergenze umanitarie, sono state utili. Questi due tipi di aiuti però costituiscono delle briciole a paragone dei miliardi trasferiti ogni anno dagli Stati o dalle organizzazioni internazionali direttamente ai governi dei paesi poveri.

L’assistenzialismo pubblico è una specie di maledizione perché incoraggia corruzione e conflitti, scoraggiando al tempo stesso la libera iniziativa. È un’elemosina che costringe l’Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga. In breve, è la malattia di cui dovrebbe essere la terapia.

 

La storia degli aiuti

La storia degli aiuti comincia nel 1944 con la riunione di Bretton Woods, nel New Hampshire, quando si posero le basi del futuro sistema finanziario internazionale prevedendo la nascita di tre istituzioni: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Internazionale del Commercio. Nel 1947 il segretario di Stato americano George C. Marshall presentò una proposta in base alla quale l’America avrebbe fornito un pacchetto di aiuti per l’Europa devastata. Nei cinque anni di vita del Piano, dal 1948 al 1952, gli Stati Uniti versarono ai paesi europei 13 miliardi di dollari.

Il Piano Marshall parve un successo perché l’economia europea rinacque e gli Stati Uniti poterono influenzarne la politica estera e conquistare alleati. Se gli aiuti all’Europa si erano rivelati utili, si pensò, perché non avrebbero potuto ottenere gli stessi risultati altrove? Alla fine degli anni Cinquanta l’attenzione si spostò quindi verso l’Africa. L’elemento più determinante per il programma di assistenza fu la diffusa convinzione che per mettere in moto lo sviluppo fosse cruciale il capitale d’investimento. In assenza di risparmio interno e della capacità di attirare investimenti privati, le donazioni internazionali erano considerate l’unico modo per dare il via al processo di accumulazione di capitale da investire per la crescita economica.

Negli anni Sessanta si cominciò a convogliare gli aiuti verso progetti industriali su vasta scala, come strade, ferrovie e dighe perché, secondo l’ottica prevalente, il lungo periodo di ammortamento di questi progetti rendevano improbabile il loro finanziamento da parte del settore privato. Nel 1965 i sussidi agli Stati subsahariani avevano già raggiunto i 950 milioni di dollari, ma lo sviluppo economico tardava a materializzarsi.

Agli inizi degli anni Settanta si constatò che la strategia mirata a innescare dall’alto una durevole crescita economica fosse stata un fallimento, e l’attenzione si spostò sul problema della povertà. Dai grandi investimenti per le infrastrutture gli aiuti vennero dirottati vero le forniture di cibo per le popolazioni malnutrite, i progetti per lo sviluppo agricolo e rurale, i programmi di vaccinazione, le campagne per l’alfabetizzazione. Verso la fine degli anni Settanta l’Africa sguazzava negli aiuti. In totale il continente aveva ammassato circa 36 miliardi di dollari in assistenza internazionale.

Fino agli anni Ottanta la pianificazione allo sviluppo aveva sempre ruotato attorno all’idea che arbitri ultimi dell’assegnazione di risorse fossero i governi, lasciando così poco spazio a qualsiasi tipo di iniziativa privata. Questa pianificazione a guida governativa sembrava avesse funzionato bene in Unione Sovietica. Le politiche socialiste, che avevano collocato il governo al centro dell’attività economica e nazionalizzato parte dell’industria privata, erano ritenute la via più veloce allo sviluppo.

Dal 1972 al 1982 tuttavia il debito africano verso l’estero quadruplicò, minacciando di minare le fondamenta della stabilità finanziaria globale. La soluzione della crisi fu la ristrutturazione del debito. La Banca Mondiale e l’FMI vararono programmi di aiuti aggressivi in cambio di riforme strutturali che includessero privatizzazioni e liberalizzazioni, sull’onda del pensiero neoliberista che fiorì nel decennio successivo.

Ma neanche questo programma funzionò. Alla fine degli anni Ottanta il debito dei paesi emergenti era salito a un trilione di dollari. Gli interessi divennero così ingenti da provocare un flusso inverso dai paesi poveri a quelli ricchi al ritmo di 15 miliardi di dollari all’anno tra il 1978 e il 1989. Dopo aver constatato l’inutilità di cinquant’anni di interventi umanitari, i donatori ora diedero la colpa dei mali economici dell’Africa alla sua dirigenza politica e alla debolezza delle sue istituzioni. L’instaurazione della democrazia divenne l’ultimo rifugio del donatore, il tentativo in extremis di mostrare che, se soltanto fossero esistite le condizioni politiche adeguate, gli interventi umanitari avrebbero funzionato.

Negli anni Duemila aumentarono ulteriormente le donazioni promosse da personaggi del mondo dello spettacolo che desideravano ritagliarsi nicchie di notorietà personale facendosi carico della battaglia per un maggiore invio di soldi in Africa, perfino dopo che erano stati cancellati miliardi di dollari di debiti. Nel 2005 il musicista irlandese Bono portò la sua causa direttamente alla Casa Bianca, mentre Bob Geldof fu ospite al G8. Queste star sfruttarono il successo della raccolta di denaro destinato alle emergenze per promuovere un programma di sostegno allo sviluppo che in sostanza prevedeva la cancellazione dei debiti per sostituirli con una massa di nuovi aiuti, con la prospettiva quindi di cominciare con nuovi debiti.

 

Un fallimento conclamato

Perché tutte queste diverse forme di assistenza non hanno funzionato? Il Piano Marshall era molto più esiguo, mentre l’Africa è stata inondata di denaro: il suo contributo corrispondeva al 2,5 percento del pil, mentre l’Africa riceve attualmente assistenza allo sviluppo per un valore pari al 15 percento del PIL. Il Piano Marshall serviva solo alla ricostruzione, non allo sviluppo. Era quindi temporaneo, mentre l’Africa ha ricevuto sussidi in continuazione, privi di scadenze da rispettare. Senza la minaccia di chiudere i cordoni della borsa, i governi africani considerano gli aiuti come un’entrata permanente, e non hanno motivo di credere che i flussi non continueranno a tempo indeterminato.

Anche gli aiuti dati sotto condizione che venissero fatte le riforme economiche (liberalizzazioni e privatizzazioni) non hanno funzionato. Sulla carta l’imposizione di condizioni era sensata, ma all’atto pratico questa linea di condotta ha fallito miseramente nel frenare la corruzione e il malgoverno. Almeno l’85 percento degli aiuti è stato infatti usato per scopi diversi da quelli pensati in origine, e spesso sono stati dirottati verso attività improduttive se non grottesche. Gli aiuti tuttavia hanno continuato ad affluire in gran quantità perfino quando le condizioni venivano sfacciatamente violate.

Nemmeno la democrazia, se il sistema politico si regge sull’assistenzialismo, favorisce lo sviluppo. Ciò che contano non sono il pluripartitismo e le elezioni, ma le istituzioni favorevoli alla crescita economica: efficace applicazione delle leggi, rispetto dei diritti di proprietà, indipendenza del potere giudiziario e così via. La mentalità occidentale erroneamente fa coincidere la democrazia multipartitica con l’esistenza di istituzioni ottimali, mentre in realtà non sono sinonimi. Infatti alcuni paesi asiatici (Cina, Corea, Indonesia, Malaysia, Taiwan e Thailandia) e sudamericani (Cile e Perù) hanno avuto successo economico pur in assenza di democrazia.

In fondo al cuore, donatori, uomini politici, governi, accademici, economisti ed esperti dello sviluppo sono consapevoli che gli aiuti non servono, non sono serviti e non serviranno. Sono troppo numerosi gli studi che dimostrano che, dopo molti decenni e molti milioni di dollari, l’assistenzialismo non ha esercitato un impatto apprezzabile sullo sviluppo. Perfino un’occhiata superficiale ai dati suggerisce che, con l’aumentare delle sovvenzioni, la crescita dell’Africa diminuiva, ed era accompagnata da una maggiore incidenza della povertà. Negli ultimi trent’anni, i paesi più dipendenti dagli aiuti hanno mostrato tassi di crescita media di –0,2 percento all’anno.

Una conseguenza diretta degli interventi basati sugli aiuti è stata un drastico aumento della povertà. Tra il 1970 e il 1998, quando l’erogazione di aiuti era al culmine, in Africa la povertà salì dall’11 percento a uno sbalorditivo 66 percento. Le prove contro l’assistenzialismo sono tanto forti e indiscutibili che perfino l’FMI, uno dei principali sovvenzionatori, ha ammonito i fautori a non riporvi eccessive speranze. Ormai è chiaro che gli aiuti non fanno parte della soluzione del problema, ma sono il problema stesso.

 

Perché gli aiuti uccidono la crescita

Se si pensa alla politica africana, la prima immagine che viene in mente è quella di una corruzione sfrenata su scala strabiliante. Naturalmente non è mai una sola persona a sottrarre il denaro: ce ne sono molte a diversi livelli della burocrazia, che nel corso degli anni si sono appropriate indebitamente di miliardi di dollari. Il punto è che le enormi somme degli aiuti non solo incoraggiano la corruzione, ma la generano. I fondi che arrivano dall’estero sono infatti molto facili da sottrarre o dirottare.

Questo fiume di denaro che arriva dall’alto è estremamente distruttivo perché fa piombare le nazioni in un circolo vizioso di assistenzialismo creando una cultura della dipendenza. Le persone più dotate, che dovrebbero costruire le fondamenta della prosperità economica, vengono distolte dal lavoro produttivo a favore di attività disoneste. Coloro che si mantengono corretti vengono allontanati, e si rifugiano nel settore privato o all’estero.

Un’economia basata sugli aiuti porta anche a un’eccessiva influenza della politica sul paese. Gli aiuti distolgono l’attenzione della gente da attività economiche produttive a favore della vita politica. La ricchezza delle persone dipende quindi soprattutto dalla lealtà politica al governo in carica, più che dal successo economico. Le ingenti sovvenzioni che arrivano da fuori e la cultura della dipendenza incoraggiano i governi a sostenere settori pubblici gonfiati, lenti e spesso improduttivi, che è un modo per ricompensare i propri amici.

Gli aiuti non solo fanno aumentare le dimensioni del governo, ma fomentano i conflitti, dato che la prospettiva di impadronirsi del potere e ottenere accesso a una ricchezza illimitata è irresistibile. Lo scopo fondamentale della ribellione è la conquista dello Stato per trarne vantaggi finanziari, anche con mezzi violenti. Gli aiuti sono dunque la prima causa dei disordini sociali e forse perfino delle guerre civili.

 

Dagli aiuti agli investimenti

L’Africa è assuefatta agli aiuti, e come chiunque dipenda da una droga trova difficile, se non impossibile, prendere in considerazione l’ipotesi di vivere senza aiuti. Come per un drogato, dover affrontare l’astinenza sarà per forza doloroso, ma alla fine qualcuno deve trovare il coraggio di dire di no. Questo libro propone una graduale ma rigorosa riduzione degli aiuti nell’arco di un periodo che va da cinque a dieci anni. La meta ultima è un mondo senza aiuti.

Gli aiuti potrebbero essere sostituiti con i capitali d’investimento internazionali. L’Africa attira pochi investimenti a causa della corruzione diffusa e della burocrazia. Sono queste le ragioni principali per cui concludere affari in Africa è un incubo. In Camerun un investitore che cerchi di ottenere una licenza commerciale impiega in media 426 giorni, mentre in Cina 336, negli USA 40, in Corea del Sud solo 17. La Cina però negli ultimi anni ha investito massicciamente in Africa, offrendo la costruzione di infrastrutture in cambio di materie prime come il petrolio, l’oro e il rame: strade in Etiopia, oleodotti in Sudan, ferrovie in Nigeria, centrali elettriche in Ghana.

Barattare infrastrutture con riserve energetiche è una prassi ben compresa sia dai cinesi sia dagli africani. Si tratta di uno scambio di favori, senza illusioni altruistiche. Gli africani giudicano molto più positivamente la presenza della Cina di quella dei paesi occidentali. Per loro i vantaggi sono davvero tangibili: ora ci sono strade dove non ne esistevano, e posti di lavoro dove mancavano; invece di fissare il deserto degli aiuti internazionali, possono vedere con i propri occhi i frutti dell’impegno cinese. L’errore compiuto dall’Occidente è stato quello di dare qualcosa in cambio di nulla; il segreto del successo della Cina è che la sua penetrazione in Africa è stata solo affaristica.

L’Occidente ha mandato soldi senza curarsi del risultato, finendo così per favorire le cricche politiche che escludono dalla ricchezza la maggioranza della popolazione e per causare instabilità politica. La Cina, all’opposto, manda in Africa denaro e in cambio pretende di guadagnare. Gli africani ottengono così quello di cui hanno bisogno: capitali che finanzino gli investimenti, posti di lavoro e crescita economica. È quanto gli aiuti internazionali promettevano e non sono mai riusciti a realizzare.

 

Il commercio è la chiave

I vantaggi economici del commercio sono perlopiù una verità universalmente accettata. Gli scambi commerciali contribuiscono alla crescita perché aumentano la quantità di beni e servizi che un paese vende all’estero, e aumentano la produttività della forza-lavoro. Tuttavia l’Occidente ha eretto delle barriere protezioniste per tener fuori i prodotti agricoli africani. I membri dell’Ocse spendono quasi 300 miliardi in sussidi all’agricoltura, quasi il triplo degli aiuti complessivi erogati alle nazioni in via di sviluppo. Le stime suggeriscono che l’Africa perde circa 500 miliardi di dollari l’anno a causa delle clausole restrittive sul commercio, in gran parte a causa dei sussidi concessi dai governi occidentali ai propri coltivatori.

Questi sussidi hanno un doppio impatto: i coltivatori occidentali vendono i loro prodotti in patria a un consumatore prigioniero, a prezzi superiori a quelli di mercato; i coltivatori africani non possono assolutamente competere con i milioni di tonnellate di esportazioni sovvenzionate. Ciò spiega perché la quota africana degli scambi globali resti attorno all’1 percento (da un picco del 3 percento raggiunto sessant’anni fa), anche se il continente è ricco di materie prime.

Tuttavia gli stessi paesi africani applicano un’imposta media del 34 percento sui prodotti agricoli di altre nazioni africane, e del 21 sui propri prodotti. I leader africani potrebbero eliminare, con un semplice decreto, le barriere commerciali tra i loro paesi. È assurdo che spedire un’auto dal Giappone in Costa d’Avorio costi 1500 dollari, mentre portarla dal Costa D’Avorio all’Etiopia costi 5000 dollari.

 

È possibile un mondo senza aiuti?

Che cosa succederebbe se tutti i paesi africani ricevessero una telefonata dai maggiori donatori (Banca Mondiale, paesi occidentali) in cui si comunica che entro cinque anni esatti i rubinetti degli aiuti verranno chiusi per sempre? Un numero molto maggiore di africani morirebbe di povertà e di fame? Probabilmente no, perché le attuali vittime della povertà non sono toccate dal flusso degli aiuti. Ci sarebbero più guerre, più colpi di Stato, più despoti? Quasi sicuramente no, perché senza aiuti internazionali si toglie un grosso incentivo ai conflitti.

Le alternative all’assistenzialismo pubblico ci sono: commercio, accesso al mercato internazionale dei capitali, rimesse, microfinanza, risparmi. Non dovrebbe sorprendere che si basino sul mercato, dato che nessuna teoria economica tranne quella radicata nel movimento del capitale e nella concorrenza è stata in grado di far uscire dalla povertà il maggior numero di persone nel più breve tempo possibile.

È più probabile quindi che in un mondo liberato dagli aiuti, la vita economica della maggioranza degli africani possa effettivamente migliorare, che la corruzione diminuisca, nascano imprenditori, e si inneschi finalmente il motore della crescita africana. Questo è l’esito più verosimile.

Se altri paesi del mondo sviluppato lo hanno fatto senza aiuti internazionali, perché non l’Africa? Soltanto trent’anni fa il reddito pro-capite del Malawi, del Burundi o del Burkina Faso era superiore a quello della Cina. La chiave del successivo miracolo cinese sono stati gli investimenti esteri e le esportazioni, non certo gli aiuti. L’Africa dovrebbe imparare dall’Asia.

Il regime degli aiuti è stato in auge per sessant’anni e ha fallito in modo evidente nel generare la crescita economica e alleviare la povertà. Dato che in nessun altro ambito a un primato così scadente è stato permesso di durare tanto, è venuto il momento di fermare questo ciclo.

 

Citazioni rilevanti

Il business degli aiuti

«La Banca Mondiale dà lavoro a diecimila dipendenti, l’FMI a oltre duemilacinquecento; se ne aggiungano altri cinquemila di altre agenzie ONU, più i dipendenti delle almeno venticinquemila ONG registrate, istituzioni assistenziali private e la schiera di agenzie governative, presi assieme si tratta di cinquecentomila persone … Anche il sostentamento di questi lavoratori dipende dagli aiuti. Per la maggior parte delle organizzazioni per lo sviluppo il successo di un prestito si misura quasi interamente in base all’entità della cifra ottenuta dal donatore, e non in base alla quantità di denaro effettivamente investita per gli scopi cui era destinata: questo spiega perché si continua a concedere prestiti perfino ai paesi più corrotti … se il denaro non viene distribuito, aumenta la probabilità che i successivi programmi di aiuti vengano tagliati» (p. 97).

 

Il denaro privato si può rubare una volta sola

«Si possono rubare i soldi degli aiuti ogni giorno della settimana, mentre con il capitale privato lo si può fare una volta sola … Inoltre, nonostante gli utili del commercio arrivino a tante migliaia di esportatori e le rimesse arrivino a innumerevoli famiglie, gli aiuti internazionali finiscono quasi esclusivamente nelle tasche di pochi “fortunati”. È abbastanza semplice: il denaro degli investimenti non è così facile da rubare» (p. 216-217).

 

Un politico africano consapevole

«il presidente del Senegal Wade, nel 2002 sottolineava: “Non ho mai visto un paese svilupparsi grazie agli aiuti o al credito. I paesi che si sono sviluppati – in Europa, in America, il Giappone, paesi asiatici come Taiwan, Corea e Singapore – hanno tutti creduto nel libero mercato. Non c’è alcun mistero. Dopo l’indipendenza l’Africa ha imboccato la strada sbagliata”» (p. 226).

 

L’autrice

Dambisa Moyo

Dambisa Moyo è nata a Lusaka, capitale dello Zambia, il 2 febbraio 1969. Ha studiato a Oxford e Harvard, e ha lavorato per la Banca Mondiale e Goldman Sachs.

Nel 2009, grazie al successo mondiale del libro La carità che uccide, la rivista Time l’ha segnalata tra le cento personalità più influenti del mondo. Scrive sull’Economist e sul Financial Times.

 

INDICE DEL LIBRO

Prefazione di Niall Ferguson, p. 7

Premessa, p. 15

Introduzione, p. 21

Parte I. Il mondo degli aiuti

1. Il mito degli aiuti, p. 27

2. Breve storia degli aiuti, p. 36

3. Gli aiuti non servono, p. 63

4. Il killer silenzioso della crescita, p. 89

Parte II. Un mondo senza aiuti

La repubblica del Dongo, p. 119

5. Un ripensamento radicale del modello di dipendenza, p. 123

6. Capitali risolutivi, p. 127

7. I cinesi sono nostri amici, p. 155

8. Commerciamo, p. 177

9. Contare su chi non ha conto, p. 194

Ritornare nel Dongo

10. Realizzare lo sviluppo, p. 219

Note, p. 237

Bibliografia, p. 245

Ringraziamenti, p. 259

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Dambisa Moyo, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo, Rizzoli, Milano, 2010, p. 262, prefazione di Niall Ferguson, traduzione di Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini.