La corriera per Tebessa
Ancora la situazione non mi consente di tornare verso i luoghi che amo in Asia orientale. E ancora, in questa parte ricca del mondo, come un pugno in pancia apprendo notizie di profughi che inseguono i loro sogni in una fuga che ha spesso come esito la morte e più raramente una accoglienza civile.
Alcuni, per arrivare alla agognata Europa, percorrono le rotte del Mediterraneo. Mi viene alla mente che anche io lo feci, ma in sicurezza e nella direzione opposta tanti anni orsono, quando ero un ragazzo.
Dal mio diario:
“Con il tramonto del sole la luce diminuisce rapidamente e con essa la temperatura. Cerchiamo sollievo nel passamontagna calato. Insieme al mio amico Federico è la prima volta che attraversiamo questo territorio montuoso, tuttavia non possiamo sbagliarci. Le indicazioni sono state precise: basta seguire la strada nella terra di nessuno e dal posto di frontiera tunisino di Bou Chebka arriveremo a quello algerino.
Dopo averlo finalmente scorto nell’oscurità, entriamo in cerca di tepore e di informazioni su come proseguire. L’espressione di paura sul volto dei gendarmi ci fa realizzare che siamo stati scambiati per terroristi. Ci scopriamo immediatamente il viso pronunciando la parola magica “sahbi” (amici) e l’ospitalità maghrebina prevale sull’equivoco.
Comunque, non ci sono al momento mezzi per continuare il nostro viaggio e ci mettiamo quindi a dormire per terra nei sacchi a pelo.
La mattina alle 05.00, come ci era stato annunciato, compare la corriera per Tebessa. Corriera è una definizione alquanto ottimistica. Quella è piuttosto ciò che ne rimane, ma saliamo comunque sfoggiando fiducia.
Non ci sono quasi più vetri ai finestrini e grossi fiocchi di neve entrano liberamente. In questa atmosfera ovattata all’improvviso, con un fragore trascinato, ci rendiamo conto che abbiamo perso il paraurti posteriore, ma viene prontamente recuperato.
Ogni tanto la corriera si ferma avvolta dalla nebbia in luoghi dove sembra non esserci nulla, ma da quel nulla come fantasmi appaiono ragazzini con libri e quaderni, infagottati in poveri vestiti e il mezzo si riempie progressivamente.
Tutti cercano di rianimare le proprie mani nude con il vapore del fiato, unico riscaldamento a bordo.
Arrivati a Tebessa, i bambini corrono via e noi rimaniamo soli con il conducente ed il bigliettaio. “Avete fame?” “Beh, abbastanza. Dove si può trovare qualcosa da mangiare?” “Se vi accontentate siete nostri ospiti”.
Non siamo certi di aver capito bene, a maggior ragione quando vediamo i due tirare fuori della legna e disporla all’interno del mezzo sul pianale di metallo.
Ci guardiamo increduli quando, con un sorriso, i due algerini accendono un fuoco, sì proprio un fuoco, e ci mettono sopra una pentola con qualcosa dentro. Non dimenticherò il profumo ed il sapore di questa minestra bollente condivisa con noi due appena conosciuti.”