Tribunale di Palermo: inammissibilità dell’immediata fissazione dell’udienza nel processo societario
G.I. Dott. Pres. Monteleone
TRIBUNALE DI PALERMO - SEZIONE III CIVILE
CAUSA CIVILE
TRA
TIZIO
Avv. Alessandro Palmigiano
E
BANCA FIDEURAM
Avv. Marco Morici
Palermo, 30 aprile 2007
8107/2006 R.G.
TRIBUNALE DI PALERMO
Terza Sezione Civile
Il Presidente, letti gli atti e sciolta la riserva;
Osserva
Le numerose questioni nascenti dalla improvvida e malaccorta formulazione dell’art. 8 del D. Lgs. n. 5 del 2003, con riguardo alla facoltà riconosciuta al convenuto di proporre istanza di fissazione di udienza subito dopo la sua costituzione, sono state affrontate da questo Tribunale in numerose precedenti decisioni. Mette conto di riportare qui di seguito le relative argomentazioni:
Nel sistema delineato dall’art. 8 del D. Lgs. 17/01/2003, n. 5, l’iniziativa di presentare istanza di fissazione dell’udienza e di por fine, così, allo scambio degli scritti difensivi, con la conseguente preclusione in ordine all’esercizio delle connesse facoltà processuali delle parti (deduzioni probatorie, produzione di documenti, proposizione di eccezioni etc.) e con la definitiva cristallizzazione del thema decidendum e del thema probandum, spetta l’ordinario a quella delle parti che, ricevuta la notificazione dell’ultima memoria dell’avversario, decida di non interloquire ulteriormente, ovvero consegue all’inutile spirare del termine da una delle parti assegnato all’altra parte per la replica all’ultimo suo scritto difensivo. Nel primo caso si tratterà di una valutazione della parte interessata, che riterrà: a) di avere esaurientemente apprestato le proprie difese; b) che l’ultimo scritto di parte avversa non contiene alcuna deduzione (fattuale o istruttoria) cui sia necessario o utile replicare. Nel secondo caso si tratterà semplicemente di una iniziativa imposta dalla necessità di non fare estinguere il processo.
Unica eccezione, la facoltà riconosciuta al convenuto di chiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la notificazione della comparsa di risposta e la sua costituzione, senza fissare all’attore il termine per la replica. Tale eccezione introduce una pericolosa distorsione nel sistema, proprio perché consente di por fine al dibattito, precludendo ogni ulteriore arricchimento dei temi di prova e di decisione, alla parte che ha avuto per ultima la parola. Il pericolo che ne deriva insidia l’ordinato svolgimento della dialettica processuale e il diritto di difesa dell’attore, tutte le volte che nella comparsa di risposta siano state svolte difese che, lungi dal chiudere il cerchio, introducono – per così dire – valenze processuali insature: in altri termini, tutte le volte che tali difese aprano l’adito ad una possibilità di replica (in termini assertivi o propositivi, e non semplicemente argomentativi) da parte dell’attore, con l’esercizio di correlate e contrapposte facoltà processuali.
Il neo-legislatore, ben vero, ha tenuto conto dei possibili effetti distorsivi della facoltà accordata al convenuto di richiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la sua costituzione, ma il rimedio approntato, con l’esclusione di tale facoltà in caso di domanda riconvenzionale o di eccezione non rilevabile d’ufficio, si rivela assolutamente inadeguato, essendo intuitivamente molto più vasto il campo delle attività difensive del convenuto il cui esercizio riapre la dialettica e implica potenzialmente un diritto di replica dell’attore o legittima comunque quest’ultimo all’esercizio di facoltà processuali rese necessarie dalle avverse difese.
È questo il caso, innanzitutto, delle facoltà riconosciute all’attore dall’art. 6, comma 2, lett. b) e c), del citato D. Lgs.: la proposizione di nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza – oltre che della domanda riconvenzionale – delle difese proposte dal convenuto; la chiamata di un terzo nel processo, se la relativa esigenza sia sorta dalle difese del convenuto. È evidente, infatti, come di tali facoltà l’attore possa essere incongruamente espropriato in dipendenza dell’immediata richiesta di fissazione dell’udienza da parte del convenuto.
Altrettanto grave l’incongruenza in caso di produzione di documenti suscettibili di essere “impugnati” col disconoscimento o con la querela di falso. Giacchè delle due l’una. O si ritiene che con l’immediata richiesta di fissazione dell’udienza resti preclusa anche la possibilità, per l’attore, di esperire i suddetti mezzi: e allora sarebbe evidentissima la violazione del diritto di difesa. Oppure si ammette che disconoscimento e querela incidentale di falso possano essere effettuate (con il corredo di istanze istruttorie che la seconda comporta) anche dopo la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza: ma si tratterebbe allora – oltrechè di una palese forzatura interpretativa – di una grave disarmonia sistematica, di un vulnus alla concezione bifasica del processo, per la quale nessuna attività assertiva e propositiva, nessuna istanza o eccezione in senso proprio può trovar luogo nella fase successiva alla postulazione dell’intervento del giudice. Che dire poi dell’ipotesi inversa, nella quale il convenuto, in comparsa di risposta, abbia disconosciuto la scrittura prodotta dall’attore ed abbia quindi instato per la fissazione dell’udienza? Anche qui la medesima alternativa: o si ritiene preclusa per l’attore l’istanza di verificazione, oppure se ne ammette la proposizione (e, necessariamente, si ammette pure la produzione delle scritture di comparazione) dopo l’istanza di fissazione dell’udienza; mentre soffre congiuntamente delle incongruenze e delle aporie, che affliggono l’una e l’altra delle suddette soluzioni, una terza soluzione, che pure è stata adottata dalla giurisprudenza: quella di ammettere l’istanza di verificazione dopo la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, ma di ritenere inammissibile la contestuale produzione dei documenti offerti come scritture di comparazione.
Anche la mancata considerazione, quale fattore ostativo dell’immediata richiesta di fissazione dell’udienza, delle c. d. eccezioni rilevabili d’ufficio che siano state sollevate dal convenuto in comparsa di risposta, appare potenzialmente limitativa del diritto di difesa dell’attore. Sicuramente, quando il convenuto chieda di provare il fatto costitutivo dell’eccezione, perché, in tal caso, la contestuale richiesta di fissazione dell’udienza precluderebbe all’attore di articolare prova contraria. Ma anche nel caso in cui, non essendo stata allegata dal convenuto alcuna prova a sostegno dell’eccezione, l’attore intenda provare, ad esempio, la propria legittimazione (sostanziale o processuale) negata dal convenuto.
Le prove, infine. Secondo un indirizzo non privo di seguito in giurisprudenza, quando il convenuto abbia proposto istanze istruttorie nella comparsa di risposta o abbia prodotto documenti, l’impossibilità per l’attore di replicare (chiedendo prova contraria o producendo a sua volta documenti), in dipendenza della preclusione di cui all’art. 10 della legge processuale societaria, non altera in alcun modo l’equilibrio processuale in suo danno.
Questo tribunale, in alcune precedenti decisioni, ha aderito a tale orientamento, testualmente argomentando:
Il denunciato squilibrio processuale non sussiste affatto. La dialettica processuale si definisce, invero, in funzione della polarità domanda/risposta. L’attore delimita il campo dell’indagine e della decisione esponendo i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda e indicando i mezzi di prova dei quali intende avvalersi e in particolare i documenti che offre in comunicazione (art. 163 c.p.c.). Il convenuto, in perfetto pendant, propone tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, e indica i mezzi di prova di cui a sua volta intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione (art. 167 c.p.c. e 4 D. Lgs. n. 5 del 2003). Finchè il convenuto si limita a rispondere alla pretesa avversa, difendendosi e contestando la fondatezza di quella pretesa, il tema di indagine e di decisione sottoposto al giudice resta invariato: in tal modo il cerchio si chiude a la dialettica del processo si impianta con perfetta simmetria di tesi ed antitesi. Non così se il convenuto, uscendo dal campo della mera difesa, agisce in riconvenzione o propone eccezioni in senso proprio, perché in tal modo si propongono nuovi temi di indagine e di decisione (anche in dipendenza delle sole eccezioni: reus in excipiendo fit actor), alle quali l’attore deve poter replicare. Questo e non altro è il fondamento della disposizione contenuta nell’art. 8, comma 2, lett. a), della legge processuale societaria, per la quale il convenuto, ove abbia proposto domande riconvenzionali o eccezioni in senso proprio, non può cristallizzare la dialettica processuale instando per la fissazione dell’udienza immediatamente dopo la sua costituzione.
L’odierno attore pretende che la suddetta ratio comprenda anche l’ipotesi in cui il convenuto, pur non avendo proposto né domande riconvenzionali né eccezioni in senso proprio, abbia tuttavia prodotto documenti o formulato “richieste istruttorie indirette”. Tale opinione non può essere condivisa. Ed invero, non si comprende affatto per quale ragione, inerente all’equilibrio della dialettica processuale, la richiesta di prove costituende in comparsa di risposta e la produzione di documenti da parte del convenuto all’atto della sua costituzione dovrebbe (necessariamente) restituire l’iniziativa all’attore perchè possa a sua volta produrre nuovi documenti e formulare nuove istanze istruttorie. Si tratterà, infatti, di (ulteriori) documenti e mezzi istruttori rilevanti ai fini della prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere con la domanda. Ma allora l’attore aveva l’onere di indicarli, tutti, nella citazione. Se non l’ha fatto, è unicamente per una sua insindacabile – ma rischiosa – opzione tattica: quella di dilazionare nel tempo (in dipendenza del comportamento processuale del convenuto) la propria attività istruttoria, avvalendosi della possibilità di depositare nuovi documenti, così come di proporre nuove istanze istruttorie, con la memoria di replica di cui all’art. 6 del citato decreto legislativo. Scelta rischiosa, s’è detto, proprio perché poteva essere vanificata dal convenuto con l’istanza di fissazione di udienza ex art. 8 comma 2, lett. c), del medesimo decreto”.
Perno di tutta l’argomentazione sopra riportata è, dunque, l’onere imposto all’attore, in via generale, dall’art. 163 c.p.c.: di esporre compiutamente nell’atto di citazione i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, e di indicare nello stesso atto tutti i mezzi di prova, compresi i documenti, di cui intende avvalersi. Il quale onere, nel processo societario, sarebbe solo reso più stringente, per così dire, dalla possibilità che il convenuto si astenga dal proporre eccezioni in senso proprio o domande riconvenzionali e chieda la fissazione dell’udienza subito dopo la sua costituzione, determinando la cristallizzazione del tema di indagine sottoposto al collegio: con una iniziativa che – come pure talora s’è affermato – sarebbe conforme alla ratio del rito speciale, che è “quella di far sì che le parti definiscano le rispettive domande ed istanze istruttorie in termini di concentrazione e speditezza.
Orbene, quel che non convince nell’orientamento in esame – e che pare anzi una pericolosa forzatura – è proprio la concezione estremistica dell’onere di cui all’art. 163 c.p.c., secondo la quale la complessiva posizione difensiva dell’attore dovrebbe balzar fuori tutta d’un tratto, come Minerva di tutto punto armata dalla testa di Padre Giove: di modo che la risposta del convenuto, sol che questi eviti di proporre eccezioni in senso proprio o domande riconvenzionali, non implichi alcuna necessità di replica da parte dell’attore, perché tutto ciò che quest’ultimo poteva esporre e chiedere è già contenuto nell’atto di citazione.
Ma tale concezione è fuori dalla realtà, poiché la posizione difensiva dell’attore (così come quella del convenuto) è qualcosa che si definisce e si completa attraverso progressivi aggiustamenti, in funzione delle allegazioni e delle istanze di parte avversa. Sicchè solo dopo la risposta dell’avversario ciascuna parte può discernere con piena consapevolezza se le sue difese abbisognino o meno di una ulteriore puntualizzazione. Quest’esigenza, di dare massimo spazio alla dialettica processuale ed alle esigenze difensive delle parti, è pienamente rispettata nel processo ordinario uscito dalla riforma di cui alla legge 26.11.1990, n. 353, e successive modificazioni, e non è minimamente sacrificata sull’altare della contrapposta esigenza di massima concentrazione nella definitiva fissazione del thema decidendi e del thema probandi (la quale, come è noto, fu tenuta in massimo conto dal legislatore del 1990 e costituì anzi il principale tratto distintivo di quella riforma), grazie al saggio contemperamento tra le due confliggenti istanze realizzato col sistema del doppio termine per entrambe le parti, previsto dall’art. 183 c.p.c. (per gli aggiustamenti del tema della decisione) e dall’art. 184 (per le istanze di prova e la produzione di documenti).
Messo da parte il suddetto meccanismo (col polemico plauso di tanti laudatores del nuovo corso, visibilmente ispirati da astratti furori teorici), il nuovo sistema della sequenza di alterni scritti difensivi scambiati tra le parti sarebbe stato immune da irrazionali amputazioni della dialettica processuale e delle esigenze difensive delle parti stesse, sol che si fosse rispettato senza alcuna deroga il principio per cui l’iniziativa di chiedere la fissazione dell’udienza, e di determinare in tal modo le preclusioni di cui all’art. 10, spetta unicamente a quella delle parti che ritenga di non dover replicare all’ultimo scritto difensivo dell’avversario (ovvero anche alla parte che abbia notificato per ultima il suo scritto difensivo, quando sia vanamente spirato il termine assegnato all’altra per la replica). Ma poiché una deroga di tal fatta è stata prevista, col consentire al convenuto di chiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la notifica della comparsa di risposta (e la sua costituzione), deve dirsi che non appare presidio sufficiente (in vista del corretto svolgimento della dialettica processuale e del pieno rispetto del contraddittorio) l’unica condizione cui – secondo l’interpretazione letterale del combinato disposto dell’art. 8, comma 2, lett. a) e lett. c) – l’esercizio di tale facoltà appare subordinato: la mancata proposizione da parte del convenuto di domande riconvenzionali e di eccezioni in senso proprio.
S’è già detto di talune ipotesi in cui, ove ci si arrestasse alla lettera delle norme in esame, si determinerebbero gravi incongruenze e irrazionali compressioni del diritto di difesa dell’attore. Analogo discorso deve ora farsi in tema di diritto di diritto alla prova. Giacchè, se il convenuto produce un documento o chiede una prova costituenda, mai o quasi mai si proporrà di dimostrare semplicemente e direttamente l’inesistenza del fatto costitutivo della pretesa attorea: non foss’altro perché una prova siffatta è comunemente (e a buon titolo) ritenuta impossibile. Si tratterà, piuttosto, della prova di un fatto diverso, che il convenuto stesso ha allegato perché lo ritiene idoneo a neutralizzare in tutto o in parte l’efficacia dei fatti addotti ex adverso, ovvero a contrastare per via indiretta la prova offerta o fornita dall’attore. Ora, l’allegazione di un fatto del genere non altera il tema della decisione, ma estende certamente il campo dell’indagine, introducendo un tema affatto nuovo, sul quale dev’essere consentita all’attore una possibilità di interlocuzione e di replica, se si vuole evitare che la dialettica processuale ne esca sbilenca. Si pensi al caso in cui il convenuto opponga di aver pagato il debito per cui l’attore l’ha tratto a giudizio, e chieda di provare tale pagamento o lo provi documentalmente. Il pagamento, come è noto, secondo la costante giurisprudenza non costituisce materia di eccezione in senso proprio, tant’è che il giudice può rilevarlo d’ufficio (al pari di qualsiasi altra condizione negativa dell’azione), sol che la prova relativa emerga dagli atti: il convenuto, dunque, stando alla dizione letterale delle norme in esame, ben potrebbe proporre immediata istanza di fissazione dell’udienza, precludendo all’attore perfino la possibilità allegare a sua volta (e di provare) che il pagamento è estintivo, non già del debito dedotto in giudizio, bensì, secondo gli ordinari criteri di imputazione (art. 1193 c.c.), di un diverso debito del convenuto nei suoi confronti, ugualmente scaduto.
In conclusione, la norma risultante dal combinato disposto della lettera a) e della lettera b) dell’art. 8, comma 2, della legge processuale societaria, se interpretata letteralmente, porterebbe a conseguenze applicative gravemente lesive del diritto di difesa dell’attore, e porrebbe dunque un problema di legittimità costituzionale della norma stessa, per contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
È tuttavia possibile una interpretazione adeguatrice, con la quale, movendo dalla ratio della norma (che è quella di non consentire al convenuto di proporre immediata istanza di fissazione dell’udienza, quando, per il contenuto assertivo-propositivo della comparsa di risposta, non possano in astratto ritenersi esaurite le chances di difesa dell’attore), si estenda il suddetto divieto ad altre ipotesi (quelle di cui s’è detto nelle considerazioni sopra svolte), diverse da quelle espressamente contemplate dalla norma (proposizione di eccezioni in senso proprio o di domande riconvenzionali), ma che al pari di quelle implicano necessariamente, per il rigoroso rispetto della dialettica processuale, una possibilità di replica per l’attore.
In forza di tale interpretazione, allora, l’istanza di fissazione dell’udienza, prima che sia spirato il termine per la prima replica dell’attore, deve ritenersi consentita al convenuto solo quando lo stesso si sia limitato, nella sua comparsa di risposta, alla semplice negazione dei fatti allegati ex adverso ed alla confutazione degli argomenti giuridici spesi dall’attore, e non abbia invece prospettato circostanze di fatto diverse, sollevato eccezioni rilevabili d’ufficio, prodotto documenti o chiesto prove costituende diverse dalla c. d. controprova. Diversamente opinando, si rischierebbe di avallare patenti violazioni del principio del contraddittorio, e si rischierebbe di far ridondare a danno dell’attore il non avere potuto esercitare il suo diritto di difesa con riguardo a circostanze e ad argomenti che assumono un concreto ed attuale rilievo solo a seguito delle – non sempre prevedibili – deduzioni e produzioni operate dal convenuto.
La difesa della banca convenuta non ha addotto alcuna persuasiva ragione, per la quale l’ordine di considerazioni sopra riportato debba ritenersi superato o errato, anzi, non ne addotta alcuna e si è limitata ad affermare che il presidente o il giudice da lui delegato ha il dovere di “dare applicazione al testo letterale” dell’art. 8, comma secondo, lettera c) del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5: così richiamandosi ad un principio, quello del giudice come mero portavoce della legge, che da tempo immemorabile nessun giurista aveva pensato di riesumare dal meritato oblio in cui era caduto, e che solo in anni recenti è inopinatamente riecheggiato nelle sortite polemiche di taluni esponenti politici.
Non resta allora che confermare il precedente orientamento di questo tribunale e dichiarare inammissibile l’istanza di fissazione di udienza presentata da Banca Fideuram: la quale, invero, ha allegato circostanze di fatto nuove e diverse rispetto alla prospettazione attorea, ha chiesto su tali circostanze prova testimoniale ed ha prodotto documenti, alcuni dei quali suscettibili di disconoscimento.
La ritenuta inammissibilità dell’istanza di fissazione dell’udienza presentata da Banca Fideuram comporta la ritualità della memoria di replica che gli attori hanno comunque (e cioè nonostante quell’istanza di fissazione dell’udienza) notificato alla banca convenuta.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile l’istanza di fissazione di udienza presentata dalla Banca Fideuram S.p.A. ed assegna alla stessa il termine di trenta giorni, a far data dalla comunicazione del presente provvedimento, per la notificazione all’attrice della memoria difensiva prevista dall’art. 7, comma 1, del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5.
Si comunichi.
Palermo, 30 aprile 2007
Il Presidente Angelo Monteleone.
G.I. Dott. Pres. Monteleone
TRIBUNALE DI PALERMO - SEZIONE III CIVILE
CAUSA CIVILE
TRA
TIZIO
Avv. Alessandro Palmigiano
E
BANCA FIDEURAM
Avv. Marco Morici
Palermo, 30 aprile 2007
8107/2006 R.G.
TRIBUNALE DI PALERMO
Terza Sezione Civile
Il Presidente, letti gli atti e sciolta la riserva;
Osserva
Le numerose questioni nascenti dalla improvvida e malaccorta formulazione dell’art. 8 del D. Lgs. n. 5 del 2003, con riguardo alla facoltà riconosciuta al convenuto di proporre istanza di fissazione di udienza subito dopo la sua costituzione, sono state affrontate da questo Tribunale in numerose precedenti decisioni. Mette conto di riportare qui di seguito le relative argomentazioni:
Nel sistema delineato dall’art. 8 del D. Lgs. 17/01/2003, n. 5, l’iniziativa di presentare istanza di fissazione dell’udienza e di por fine, così, allo scambio degli scritti difensivi, con la conseguente preclusione in ordine all’esercizio delle connesse facoltà processuali delle parti (deduzioni probatorie, produzione di documenti, proposizione di eccezioni etc.) e con la definitiva cristallizzazione del thema decidendum e del thema probandum, spetta l’ordinario a quella delle parti che, ricevuta la notificazione dell’ultima memoria dell’avversario, decida di non interloquire ulteriormente, ovvero consegue all’inutile spirare del termine da una delle parti assegnato all’altra parte per la replica all’ultimo suo scritto difensivo. Nel primo caso si tratterà di una valutazione della parte interessata, che riterrà: a) di avere esaurientemente apprestato le proprie difese; b) che l’ultimo scritto di parte avversa non contiene alcuna deduzione (fattuale o istruttoria) cui sia necessario o utile replicare. Nel secondo caso si tratterà semplicemente di una iniziativa imposta dalla necessità di non fare estinguere il processo.
Unica eccezione, la facoltà riconosciuta al convenuto di chiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la notificazione della comparsa di risposta e la sua costituzione, senza fissare all’attore il termine per la replica. Tale eccezione introduce una pericolosa distorsione nel sistema, proprio perché consente di por fine al dibattito, precludendo ogni ulteriore arricchimento dei temi di prova e di decisione, alla parte che ha avuto per ultima la parola. Il pericolo che ne deriva insidia l’ordinato svolgimento della dialettica processuale e il diritto di difesa dell’attore, tutte le volte che nella comparsa di risposta siano state svolte difese che, lungi dal chiudere il cerchio, introducono – per così dire – valenze processuali insature: in altri termini, tutte le volte che tali difese aprano l’adito ad una possibilità di replica (in termini assertivi o propositivi, e non semplicemente argomentativi) da parte dell’attore, con l’esercizio di correlate e contrapposte facoltà processuali.
Il neo-legislatore, ben vero, ha tenuto conto dei possibili effetti distorsivi della facoltà accordata al convenuto di richiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la sua costituzione, ma il rimedio approntato, con l’esclusione di tale facoltà in caso di domanda riconvenzionale o di eccezione non rilevabile d’ufficio, si rivela assolutamente inadeguato, essendo intuitivamente molto più vasto il campo delle attività difensive del convenuto il cui esercizio riapre la dialettica e implica potenzialmente un diritto di replica dell’attore o legittima comunque quest’ultimo all’esercizio di facoltà processuali rese necessarie dalle avverse difese.
È questo il caso, innanzitutto, delle facoltà riconosciute all’attore dall’art. 6, comma 2, lett. b) e c), del citato D. Lgs.: la proposizione di nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza – oltre che della domanda riconvenzionale – delle difese proposte dal convenuto; la chiamata di un terzo nel processo, se la relativa esigenza sia sorta dalle difese del convenuto. È evidente, infatti, come di tali facoltà l’attore possa essere incongruamente espropriato in dipendenza dell’immediata richiesta di fissazione dell’udienza da parte del convenuto.
Altrettanto grave l’incongruenza in caso di produzione di documenti suscettibili di essere “impugnati” col disconoscimento o con la querela di falso. Giacchè delle due l’una. O si ritiene che con l’immediata richiesta di fissazione dell’udienza resti preclusa anche la possibilità, per l’attore, di esperire i suddetti mezzi: e allora sarebbe evidentissima la violazione del diritto di difesa. Oppure si ammette che disconoscimento e querela incidentale di falso possano essere effettuate (con il corredo di istanze istruttorie che la seconda comporta) anche dopo la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza: ma si tratterebbe allora – oltrechè di una palese forzatura interpretativa – di una grave disarmonia sistematica, di un vulnus alla concezione bifasica del processo, per la quale nessuna attività assertiva e propositiva, nessuna istanza o eccezione in senso proprio può trovar luogo nella fase successiva alla postulazione dell’intervento del giudice. Che dire poi dell’ipotesi inversa, nella quale il convenuto, in comparsa di risposta, abbia disconosciuto la scrittura prodotta dall’attore ed abbia quindi instato per la fissazione dell’udienza? Anche qui la medesima alternativa: o si ritiene preclusa per l’attore l’istanza di verificazione, oppure se ne ammette la proposizione (e, necessariamente, si ammette pure la produzione delle scritture di comparazione) dopo l’istanza di fissazione dell’udienza; mentre soffre congiuntamente delle incongruenze e delle aporie, che affliggono l’una e l’altra delle suddette soluzioni, una terza soluzione, che pure è stata adottata dalla giurisprudenza: quella di ammettere l’istanza di verificazione dopo la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, ma di ritenere inammissibile la contestuale produzione dei documenti offerti come scritture di comparazione.
Anche la mancata considerazione, quale fattore ostativo dell’immediata richiesta di fissazione dell’udienza, delle c. d. eccezioni rilevabili d’ufficio che siano state sollevate dal convenuto in comparsa di risposta, appare potenzialmente limitativa del diritto di difesa dell’attore. Sicuramente, quando il convenuto chieda di provare il fatto costitutivo dell’eccezione, perché, in tal caso, la contestuale richiesta di fissazione dell’udienza precluderebbe all’attore di articolare prova contraria. Ma anche nel caso in cui, non essendo stata allegata dal convenuto alcuna prova a sostegno dell’eccezione, l’attore intenda provare, ad esempio, la propria legittimazione (sostanziale o processuale) negata dal convenuto.
Le prove, infine. Secondo un indirizzo non privo di seguito in giurisprudenza, quando il convenuto abbia proposto istanze istruttorie nella comparsa di risposta o abbia prodotto documenti, l’impossibilità per l’attore di replicare (chiedendo prova contraria o producendo a sua volta documenti), in dipendenza della preclusione di cui all’art. 10 della legge processuale societaria, non altera in alcun modo l’equilibrio processuale in suo danno.
Questo tribunale, in alcune precedenti decisioni, ha aderito a tale orientamento, testualmente argomentando:
Il denunciato squilibrio processuale non sussiste affatto. La dialettica processuale si definisce, invero, in funzione della polarità domanda/risposta. L’attore delimita il campo dell’indagine e della decisione esponendo i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda e indicando i mezzi di prova dei quali intende avvalersi e in particolare i documenti che offre in comunicazione (art. 163 c.p.c.). Il convenuto, in perfetto pendant, propone tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, e indica i mezzi di prova di cui a sua volta intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione (art. 167 c.p.c. e 4 D. Lgs. n. 5 del 2003). Finchè il convenuto si limita a rispondere alla pretesa avversa, difendendosi e contestando la fondatezza di quella pretesa, il tema di indagine e di decisione sottoposto al giudice resta invariato: in tal modo il cerchio si chiude a la dialettica del processo si impianta con perfetta simmetria di tesi ed antitesi. Non così se il convenuto, uscendo dal campo della mera difesa, agisce in riconvenzione o propone eccezioni in senso proprio, perché in tal modo si propongono nuovi temi di indagine e di decisione (anche in dipendenza delle sole eccezioni: reus in excipiendo fit actor), alle quali l’attore deve poter replicare. Questo e non altro è il fondamento della disposizione contenuta nell’art. 8, comma 2, lett. a), della legge processuale societaria, per la quale il convenuto, ove abbia proposto domande riconvenzionali o eccezioni in senso proprio, non può cristallizzare la dialettica processuale instando per la fissazione dell’udienza immediatamente dopo la sua costituzione.
L’odierno attore pretende che la suddetta ratio comprenda anche l’ipotesi in cui il convenuto, pur non avendo proposto né domande riconvenzionali né eccezioni in senso proprio, abbia tuttavia prodotto documenti o formulato “richieste istruttorie indirette”. Tale opinione non può essere condivisa. Ed invero, non si comprende affatto per quale ragione, inerente all’equilibrio della dialettica processuale, la richiesta di prove costituende in comparsa di risposta e la produzione di documenti da parte del convenuto all’atto della sua costituzione dovrebbe (necessariamente) restituire l’iniziativa all’attore perchè possa a sua volta produrre nuovi documenti e formulare nuove istanze istruttorie. Si tratterà, infatti, di (ulteriori) documenti e mezzi istruttori rilevanti ai fini della prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere con la domanda. Ma allora l’attore aveva l’onere di indicarli, tutti, nella citazione. Se non l’ha fatto, è unicamente per una sua insindacabile – ma rischiosa – opzione tattica: quella di dilazionare nel tempo (in dipendenza del comportamento processuale del convenuto) la propria attività istruttoria, avvalendosi della possibilità di depositare nuovi documenti, così come di proporre nuove istanze istruttorie, con la memoria di replica di cui all’art. 6 del citato decreto legislativo. Scelta rischiosa, s’è detto, proprio perché poteva essere vanificata dal convenuto con l’istanza di fissazione di udienza ex art. 8 comma 2, lett. c), del medesimo decreto”.
Perno di tutta l’argomentazione sopra riportata è, dunque, l’onere imposto all’attore, in via generale, dall’art. 163 c.p.c.: di esporre compiutamente nell’atto di citazione i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, e di indicare nello stesso atto tutti i mezzi di prova, compresi i documenti, di cui intende avvalersi. Il quale onere, nel processo societario, sarebbe solo reso più stringente, per così dire, dalla possibilità che il convenuto si astenga dal proporre eccezioni in senso proprio o domande riconvenzionali e chieda la fissazione dell’udienza subito dopo la sua costituzione, determinando la cristallizzazione del tema di indagine sottoposto al collegio: con una iniziativa che – come pure talora s’è affermato – sarebbe conforme alla ratio del rito speciale, che è “quella di far sì che le parti definiscano le rispettive domande ed istanze istruttorie in termini di concentrazione e speditezza.
Orbene, quel che non convince nell’orientamento in esame – e che pare anzi una pericolosa forzatura – è proprio la concezione estremistica dell’onere di cui all’art. 163 c.p.c., secondo la quale la complessiva posizione difensiva dell’attore dovrebbe balzar fuori tutta d’un tratto, come Minerva di tutto punto armata dalla testa di Padre Giove: di modo che la risposta del convenuto, sol che questi eviti di proporre eccezioni in senso proprio o domande riconvenzionali, non implichi alcuna necessità di replica da parte dell’attore, perché tutto ciò che quest’ultimo poteva esporre e chiedere è già contenuto nell’atto di citazione.
Ma tale concezione è fuori dalla realtà, poiché la posizione difensiva dell’attore (così come quella del convenuto) è qualcosa che si definisce e si completa attraverso progressivi aggiustamenti, in funzione delle allegazioni e delle istanze di parte avversa. Sicchè solo dopo la risposta dell’avversario ciascuna parte può discernere con piena consapevolezza se le sue difese abbisognino o meno di una ulteriore puntualizzazione. Quest’esigenza, di dare massimo spazio alla dialettica processuale ed alle esigenze difensive delle parti, è pienamente rispettata nel processo ordinario uscito dalla riforma di cui alla legge 26.11.1990, n. 353, e successive modificazioni, e non è minimamente sacrificata sull’altare della contrapposta esigenza di massima concentrazione nella definitiva fissazione del thema decidendi e del thema probandi (la quale, come è noto, fu tenuta in massimo conto dal legislatore del 1990 e costituì anzi il principale tratto distintivo di quella riforma), grazie al saggio contemperamento tra le due confliggenti istanze realizzato col sistema del doppio termine per entrambe le parti, previsto dall’art. 183 c.p.c. (per gli aggiustamenti del tema della decisione) e dall’art. 184 (per le istanze di prova e la produzione di documenti).
Messo da parte il suddetto meccanismo (col polemico plauso di tanti laudatores del nuovo corso, visibilmente ispirati da astratti furori teorici), il nuovo sistema della sequenza di alterni scritti difensivi scambiati tra le parti sarebbe stato immune da irrazionali amputazioni della dialettica processuale e delle esigenze difensive delle parti stesse, sol che si fosse rispettato senza alcuna deroga il principio per cui l’iniziativa di chiedere la fissazione dell’udienza, e di determinare in tal modo le preclusioni di cui all’art. 10, spetta unicamente a quella delle parti che ritenga di non dover replicare all’ultimo scritto difensivo dell’avversario (ovvero anche alla parte che abbia notificato per ultima il suo scritto difensivo, quando sia vanamente spirato il termine assegnato all’altra per la replica). Ma poiché una deroga di tal fatta è stata prevista, col consentire al convenuto di chiedere la fissazione dell’udienza subito dopo la notifica della comparsa di risposta (e la sua costituzione), deve dirsi che non appare presidio sufficiente (in vista del corretto svolgimento della dialettica processuale e del pieno rispetto del contraddittorio) l’unica condizione cui – secondo l’interpretazione letterale del combinato disposto dell’art. 8, comma 2, lett. a) e lett. c) – l’esercizio di tale facoltà appare subordinato: la mancata proposizione da parte del convenuto di domande riconvenzionali e di eccezioni in senso proprio.
S’è già detto di talune ipotesi in cui, ove ci si arrestasse alla lettera delle norme in esame, si determinerebbero gravi incongruenze e irrazionali compressioni del diritto di difesa dell’attore. Analogo discorso deve ora farsi in tema di diritto di diritto alla prova. Giacchè, se il convenuto produce un documento o chiede una prova costituenda, mai o quasi mai si proporrà di dimostrare semplicemente e direttamente l’inesistenza del fatto costitutivo della pretesa attorea: non foss’altro perché una prova siffatta è comunemente (e a buon titolo) ritenuta impossibile. Si tratterà, piuttosto, della prova di un fatto diverso, che il convenuto stesso ha allegato perché lo ritiene idoneo a neutralizzare in tutto o in parte l’efficacia dei fatti addotti ex adverso, ovvero a contrastare per via indiretta la prova offerta o fornita dall’attore. Ora, l’allegazione di un fatto del genere non altera il tema della decisione, ma estende certamente il campo dell’indagine, introducendo un tema affatto nuovo, sul quale dev’essere consentita all’attore una possibilità di interlocuzione e di replica, se si vuole evitare che la dialettica processuale ne esca sbilenca. Si pensi al caso in cui il convenuto opponga di aver pagato il debito per cui l’attore l’ha tratto a giudizio, e chieda di provare tale pagamento o lo provi documentalmente. Il pagamento, come è noto, secondo la costante giurisprudenza non costituisce materia di eccezione in senso proprio, tant’è che il giudice può rilevarlo d’ufficio (al pari di qualsiasi altra condizione negativa dell’azione), sol che la prova relativa emerga dagli atti: il convenuto, dunque, stando alla dizione letterale delle norme in esame, ben potrebbe proporre immediata istanza di fissazione dell’udienza, precludendo all’attore perfino la possibilità allegare a sua volta (e di provare) che il pagamento è estintivo, non già del debito dedotto in giudizio, bensì, secondo gli ordinari criteri di imputazione (art. 1193 c.c.), di un diverso debito del convenuto nei suoi confronti, ugualmente scaduto.
In conclusione, la norma risultante dal combinato disposto della lettera a) e della lettera b) dell’art. 8, comma 2, della legge processuale societaria, se interpretata letteralmente, porterebbe a conseguenze applicative gravemente lesive del diritto di difesa dell’attore, e porrebbe dunque un problema di legittimità costituzionale della norma stessa, per contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
È tuttavia possibile una interpretazione adeguatrice, con la quale, movendo dalla ratio della norma (che è quella di non consentire al convenuto di proporre immediata istanza di fissazione dell’udienza, quando, per il contenuto assertivo-propositivo della comparsa di risposta, non possano in astratto ritenersi esaurite le chances di difesa dell’attore), si estenda il suddetto divieto ad altre ipotesi (quelle di cui s’è detto nelle considerazioni sopra svolte), diverse da quelle espressamente contemplate dalla norma (proposizione di eccezioni in senso proprio o di domande riconvenzionali), ma che al pari di quelle implicano necessariamente, per il rigoroso rispetto della dialettica processuale, una possibilità di replica per l’attore.
In forza di tale interpretazione, allora, l’istanza di fissazione dell’udienza, prima che sia spirato il termine per la prima replica dell’attore, deve ritenersi consentita al convenuto solo quando lo stesso si sia limitato, nella sua comparsa di risposta, alla semplice negazione dei fatti allegati ex adverso ed alla confutazione degli argomenti giuridici spesi dall’attore, e non abbia invece prospettato circostanze di fatto diverse, sollevato eccezioni rilevabili d’ufficio, prodotto documenti o chiesto prove costituende diverse dalla c. d. controprova. Diversamente opinando, si rischierebbe di avallare patenti violazioni del principio del contraddittorio, e si rischierebbe di far ridondare a danno dell’attore il non avere potuto esercitare il suo diritto di difesa con riguardo a circostanze e ad argomenti che assumono un concreto ed attuale rilievo solo a seguito delle – non sempre prevedibili – deduzioni e produzioni operate dal convenuto.
La difesa della banca convenuta non ha addotto alcuna persuasiva ragione, per la quale l’ordine di considerazioni sopra riportato debba ritenersi superato o errato, anzi, non ne addotta alcuna e si è limitata ad affermare che il presidente o il giudice da lui delegato ha il dovere di “dare applicazione al testo letterale” dell’art. 8, comma secondo, lettera c) del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5: così richiamandosi ad un principio, quello del giudice come mero portavoce della legge, che da tempo immemorabile nessun giurista aveva pensato di riesumare dal meritato oblio in cui era caduto, e che solo in anni recenti è inopinatamente riecheggiato nelle sortite polemiche di taluni esponenti politici.
Non resta allora che confermare il precedente orientamento di questo tribunale e dichiarare inammissibile l’istanza di fissazione di udienza presentata da Banca Fideuram: la quale, invero, ha allegato circostanze di fatto nuove e diverse rispetto alla prospettazione attorea, ha chiesto su tali circostanze prova testimoniale ed ha prodotto documenti, alcuni dei quali suscettibili di disconoscimento.
La ritenuta inammissibilità dell’istanza di fissazione dell’udienza presentata da Banca Fideuram comporta la ritualità della memoria di replica che gli attori hanno comunque (e cioè nonostante quell’istanza di fissazione dell’udienza) notificato alla banca convenuta.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile l’istanza di fissazione di udienza presentata dalla Banca Fideuram S.p.A. ed assegna alla stessa il termine di trenta giorni, a far data dalla comunicazione del presente provvedimento, per la notificazione all’attrice della memoria difensiva prevista dall’art. 7, comma 1, del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5.
Si comunichi.
Palermo, 30 aprile 2007
Il Presidente Angelo Monteleone.