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Applicazione d’ufficio delle norme comunitarie da parte delle Commissioni tributarie

Come è noto esiste l’obbligo, a carico del giudice nazionale, di disapplicare direttamente nel giudizio di merito la norma interna confliggente. La Corte di Giustizia ha escluso l’obbligo del rinvio pregiudiziale, a norma dell’art. 234 del Trattato CE, non solo nei casi in cui la normativa comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione da parte dei giudici comunitari, ma anche in quelli in cui non vi sia alcun ragionevole dubbio circa il significato della disposizione da applicare (la cosiddetta teoria dell’acte clair) . La Corte ha affermato che in tali casi "è lo stesso giudice nazionale che, assumendosene la responsabilità, deve dare soluzione alle questioni di diritto comunitario".

Il dubbio si pone invece quando si tratta di individuare le condizioni temporali che fanno insorgere l’obbligo di disapplicazione a carico del giudice interno e cioè se detto obbligo nasca solo allorché il giudice sia espressamente investito dal singolo della questione di illegittimità della norma interna per contrasto con quella comunitaria o se, invece, esso sussista anche in assenza di una corrispondente specifica e puntuale domanda.

Pare proprio scontato, almeno sul piano del diritto comunitario, ritenere corretta la seconda interpretazione, necessaria conseguenza applicativa del principio del primato dell’ordinamento comunitario e della sua diretta ed immediata applicazione a tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei singoli. Ma anche sul piano del diritto interno la risposta non dovrebbe essere, in via generale e astratta, diversa, perchè non esistono nell’ordinamento italiano norme processuali che precludano, in via diretta e di principio, la rilevabilità d’ufficio delle divergenze tra i due ordini di norme e, conseguentemente, l’applicabilità della norma comunitaria prevalente. Tale principio è racchiuso nella norma dell’ art. 113 del codice di procedura civile, secondo cui il giudice può risolvere una questione di diritto ricercando ed applicando di sua iniziativa ogni norma atta a dipanarla senza trovare alcun limite al suo potere decisorio che non sia, quanto al solo fatto, quello derivante dal principio dispositivo. Il fatto che nei motivi del ricorso o dell’appello la norma comunitaria violata non sia stata invocata non costituisce un ostacolo all’applicazione d’ufficio di essa da parte della Commissione tributaria (o della Corte di Cassazione) e alla conseguente disapplicazione della norma interna.

Le norme comunitarie, in quanto di rango superiore, vanno applicate anche se non richiamate, quando sono ritenute violate da quelle interne o comunque incompatibili. La Sezione Tributaria della Suprema Corte nella sentenza n. 7909 del 9 giugno 2000, confermata da altra sentenza, n. 17564 del 20 dicembre 200l, basandosi sul presupposto indiscutibile del primato del diritto comunitario, ha fissato il principio secondo cui “i giudici nazionali hanno l’obbligo di verificare la compatibilità del diritto interno con le norme di diritto comunitario primario e secondario, indipendentemente da una specifica domanda” e, quindi, “dalla deduzione di uno specifico motivo”. La Suprema Corte non richiama espressamente al riguardo l’art. 113 del codice di procedura civile, ma sembra presupporlo quando fa applicazione della norma comunitaria come una delle tante norme di rango superiore di cui il giudice può e deve liberamente conoscere e che può e deve applicare d’ufficio per risolvere la questione di diritto. Il fatto che la sentenza consideri esistente il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’incompatibilità “indipendentemente da una specifica domanda”, significherebbe che, perchè il giudice di ultima istanza sia legittimato ad applicare la norma comunitaria, è sufficiente che i motivi contengano la prospettazione della questione di diritto da risolvere e non anche la domanda "specifica" di applicazione di quella norma.

Le sentenze della Corte di Giustizia che la Suprema Corte richiama per dar forza sul piano comunitario al principio di applicabilità d’ufficio sono quelle ben note, emesse nei casi Peterbroeck, Van Schijndel e Morellato. Tutte si fondano sul primato della legge comunitaria, giungendo puntualmente in termini generali alla stessa conclusione cui si è finora pervenuti in termini di diritto interno. La peculiarità (e la forza interpretativa) di tali sentenze è che esse affrontano per la prima volta il problema della applicabilità d’ufficio delle norme comunitarie, considerando in contrasto con l’ordinamento comunitario proprio le norme processuali di diritto interno che precludono il potere dell’organo decidente di applicare d’iniziativa la norma tributaria che si ritiene violata. Come già anticipato, la Corte di Giustizia, così ragionando, giunge a ritenere la rilevabilità d’ufficio delle incompatibilità comunitarie come un valore da tutelare e garantire in se.

Perchè la norma comunitaria sia applicata d’ufficio è sufficiente, cioè, che sia sovraordinata e, più semplicemente, costituisca uno strumento di una pronuncia di diritto, ex art. 113 del codice di procedura civile.

Per quanto riguarda la questione della limitazione posta da una legge nazionale all’applicazione d’ufficio di una norma comunitaria, la Corte opta, molto prudentemente, per la disapplicazione d’ufficio da parte del giudice interno delle norme che escludono la rilevabilità d’ufficio solo in quei casi in cui le preclusioni siano tali da rendere “impossibile o eccessivamente difficile la tutela delle posizioni giuridiche dei singoli e, comunque, implichino il rispetto di termini irragionevoli”.

Insomma, il problema se debba permanere il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri e in quali casi esso vada superato a favore dell’applicazione della norma comunitaria dovrebbe essere risolto, secondo la Corte, solo attraverso l’esame attento della disciplina processuale nazionale alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche garantite ai singoli dal diritto comunitario.

La Corte costituzionale ha più volte affermato il principio che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge), tanto se dotati di poteri di dichiarazione di diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi, sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli articoli (…) del Trattato CEE nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea” (Sentenza 11/7/1989, n. 389).

Il potere di disapplicazione, dunque, è espressione del cosiddetto “primato o supremazia del diritto comunitario” (e delle sentenze della Corte che ne forniscono l’interpretazione autentica) sulla norma interna incompatibile, che autorizza il giudice nazionale a disapplicare la dìsposizione confliggente, sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria.

Il giudice nazionale è chiamato a fare applicazione immediata della norma comunitaria così come interpretata dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale e persino delle direttive che abbiano i requisiti per avere effetto immediato.

L’esercizio di questo potere trova parallelo, sul piano processuale tributario, nell’art. 7, comma 5, del D.Lgs. n. 546/1992 quando stabilisce che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio ...”: riconoscimento questo di un potere generale di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo.

Altrettanto avviene per la norma interna configgente con il diritto comunitario che non può essere dichiarata nè nulla nè invalida ma solo inapplicabile al rapporto controverso senza bisogno di ricorrere al giudizio di costituzionalità.

La “verifica di compatibilità” rientra nei poteri d’ufficio del giudice indipendentemente dalla domanda di parte o dalla deduzione di uno specifico motivo di impugnazione, trovando limitazione solo nell’avvenuta definizione del rapporto controverso. Questa verifica, comunque, è di regola sollecitata dalle parti nei loro scritti difensivi, ed implica, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, un accertamento in concreto del rispetto della norma interna ai parametri comunitari ed all’elaborazione giurisprudenziale su essi formatasi e può, naturalmente, condurre anche ad un esito di “compatibilità” rafforzativa della norma interna sottratta alla disapplicazione.

Permane, comunque, una sostanziale differenza tra l’interpretazione fornita dal giudice nazionale e quella proveniente dalla Corte di Giustizia.

L’una non va oltre l’interpretazione necessaria all’applicazione della norma al caso di specie ed è suscettibile di progressiva impugnazione, l’altra assume autorità di precedente capace di assumere effetti rilevanti e cogenti anche per giudici diversi rispetto a quelli che l’hanno sollecitata.

Questo inquadramento delle sentenze interpretative in termini di efficacia erga omnes intesa in senso "normativo", al pari di quanto accade con regolamenti e direttive, con l’effetto di riconoscere anche ad esse la loro "diretta applicabilità", è stato ampiamente criticato. Parte della dottrina inquadra le sentenze nel principio dello stare decisis, anche se non nella sua forma perfettamente compiuta, quale cioè vincolo assoluto per i giudici di grado inferiore. Il principio enunciato dalla Corte vincolerebbe semplicemente “i giudici ad applicare tale principio, salva la possibilità di rimettere nuovamente la questione alla Corte di giustizia: un effetto obbligatorio, al di là delle parti del giudizio da cui ciascuna questione scaturisce, nei limiti segnati dalla accennata facoltà di ogni giudice nazionale. Si tratterebbe dunque di un vincolo per il potere giudiziario, legando il giudice al precedente di un altro giudice, ma non di un vincolo per chiunque. La sentenza della Corte di giustizia costituirebbe così solo espressione di una regola casistica, come tale non fissata una volta per tutte, ma suscettibile di svilupparsi grazie ad apporti successivi”.

Per concludere, occorre evidenziare che il principio del primato del diritto comunitario viene ora sancito dalla Costituzione europea che con l’articolo I-6 stabilisce la supremazia della Costituzione e del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri.

Come è noto esiste l’obbligo, a carico del giudice nazionale, di disapplicare direttamente nel giudizio di merito la norma interna confliggente. La Corte di Giustizia ha escluso l’obbligo del rinvio pregiudiziale, a norma dell’art. 234 del Trattato CE, non solo nei casi in cui la normativa comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione da parte dei giudici comunitari, ma anche in quelli in cui non vi sia alcun ragionevole dubbio circa il significato della disposizione da applicare (la cosiddetta teoria dell’acte clair) . La Corte ha affermato che in tali casi "è lo stesso giudice nazionale che, assumendosene la responsabilità, deve dare soluzione alle questioni di diritto comunitario".

Il dubbio si pone invece quando si tratta di individuare le condizioni temporali che fanno insorgere l’obbligo di disapplicazione a carico del giudice interno e cioè se detto obbligo nasca solo allorché il giudice sia espressamente investito dal singolo della questione di illegittimità della norma interna per contrasto con quella comunitaria o se, invece, esso sussista anche in assenza di una corrispondente specifica e puntuale domanda.

Pare proprio scontato, almeno sul piano del diritto comunitario, ritenere corretta la seconda interpretazione, necessaria conseguenza applicativa del principio del primato dell’ordinamento comunitario e della sua diretta ed immediata applicazione a tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei singoli. Ma anche sul piano del diritto interno la risposta non dovrebbe essere, in via generale e astratta, diversa, perchè non esistono nell’ordinamento italiano norme processuali che precludano, in via diretta e di principio, la rilevabilità d’ufficio delle divergenze tra i due ordini di norme e, conseguentemente, l’applicabilità della norma comunitaria prevalente. Tale principio è racchiuso nella norma dell’ art. 113 del codice di procedura civile, secondo cui il giudice può risolvere una questione di diritto ricercando ed applicando di sua iniziativa ogni norma atta a dipanarla senza trovare alcun limite al suo potere decisorio che non sia, quanto al solo fatto, quello derivante dal principio dispositivo. Il fatto che nei motivi del ricorso o dell’appello la norma comunitaria violata non sia stata invocata non costituisce un ostacolo all’applicazione d’ufficio di essa da parte della Commissione tributaria (o della Corte di Cassazione) e alla conseguente disapplicazione della norma interna.

Le norme comunitarie, in quanto di rango superiore, vanno applicate anche se non richiamate, quando sono ritenute violate da quelle interne o comunque incompatibili. La Sezione Tributaria della Suprema Corte nella sentenza n. 7909 del 9 giugno 2000, confermata da altra sentenza, n. 17564 del 20 dicembre 200l, basandosi sul presupposto indiscutibile del primato del diritto comunitario, ha fissato il principio secondo cui “i giudici nazionali hanno l’obbligo di verificare la compatibilità del diritto interno con le norme di diritto comunitario primario e secondario, indipendentemente da una specifica domanda” e, quindi, “dalla deduzione di uno specifico motivo”. La Suprema Corte non richiama espressamente al riguardo l’art. 113 del codice di procedura civile, ma sembra presupporlo quando fa applicazione della norma comunitaria come una delle tante norme di rango superiore di cui il giudice può e deve liberamente conoscere e che può e deve applicare d’ufficio per risolvere la questione di diritto. Il fatto che la sentenza consideri esistente il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’incompatibilità “indipendentemente da una specifica domanda”, significherebbe che, perchè il giudice di ultima istanza sia legittimato ad applicare la norma comunitaria, è sufficiente che i motivi contengano la prospettazione della questione di diritto da risolvere e non anche la domanda "specifica" di applicazione di quella norma.

Le sentenze della Corte di Giustizia che la Suprema Corte richiama per dar forza sul piano comunitario al principio di applicabilità d’ufficio sono quelle ben note, emesse nei casi Peterbroeck, Van Schijndel e Morellato. Tutte si fondano sul primato della legge comunitaria, giungendo puntualmente in termini generali alla stessa conclusione cui si è finora pervenuti in termini di diritto interno. La peculiarità (e la forza interpretativa) di tali sentenze è che esse affrontano per la prima volta il problema della applicabilità d’ufficio delle norme comunitarie, considerando in contrasto con l’ordinamento comunitario proprio le norme processuali di diritto interno che precludono il potere dell’organo decidente di applicare d’iniziativa la norma tributaria che si ritiene violata. Come già anticipato, la Corte di Giustizia, così ragionando, giunge a ritenere la rilevabilità d’ufficio delle incompatibilità comunitarie come un valore da tutelare e garantire in se.

Perchè la norma comunitaria sia applicata d’ufficio è sufficiente, cioè, che sia sovraordinata e, più semplicemente, costituisca uno strumento di una pronuncia di diritto, ex art. 113 del codice di procedura civile.

Per quanto riguarda la questione della limitazione posta da una legge nazionale all’applicazione d’ufficio di una norma comunitaria, la Corte opta, molto prudentemente, per la disapplicazione d’ufficio da parte del giudice interno delle norme che escludono la rilevabilità d’ufficio solo in quei casi in cui le preclusioni siano tali da rendere “impossibile o eccessivamente difficile la tutela delle posizioni giuridiche dei singoli e, comunque, implichino il rispetto di termini irragionevoli”.

Insomma, il problema se debba permanere il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri e in quali casi esso vada superato a favore dell’applicazione della norma comunitaria dovrebbe essere risolto, secondo la Corte, solo attraverso l’esame attento della disciplina processuale nazionale alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche garantite ai singoli dal diritto comunitario.

La Corte costituzionale ha più volte affermato il principio che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge), tanto se dotati di poteri di dichiarazione di diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi, sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli articoli (…) del Trattato CEE nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea” (Sentenza 11/7/1989, n. 389).

Il potere di disapplicazione, dunque, è espressione del cosiddetto “primato o supremazia del diritto comunitario” (e delle sentenze della Corte che ne forniscono l’interpretazione autentica) sulla norma interna incompatibile, che autorizza il giudice nazionale a disapplicare la dìsposizione confliggente, sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria.

Il giudice nazionale è chiamato a fare applicazione immediata della norma comunitaria così come interpretata dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale e persino delle direttive che abbiano i requisiti per avere effetto immediato.

L’esercizio di questo potere trova parallelo, sul piano processuale tributario, nell’art. 7, comma 5, del D.Lgs. n. 546/1992 quando stabilisce che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio ...”: riconoscimento questo di un potere generale di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo.

Altrettanto avviene per la norma interna configgente con il diritto comunitario che non può essere dichiarata nè nulla nè invalida ma solo inapplicabile al rapporto controverso senza bisogno di ricorrere al giudizio di costituzionalità.

La “verifica di compatibilità” rientra nei poteri d’ufficio del giudice indipendentemente dalla domanda di parte o dalla deduzione di uno specifico motivo di impugnazione, trovando limitazione solo nell’avvenuta definizione del rapporto controverso. Questa verifica, comunque, è di regola sollecitata dalle parti nei loro scritti difensivi, ed implica, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, un accertamento in concreto del rispetto della norma interna ai parametri comunitari ed all’elaborazione giurisprudenziale su essi formatasi e può, naturalmente, condurre anche ad un esito di “compatibilità” rafforzativa della norma interna sottratta alla disapplicazione.

Permane, comunque, una sostanziale differenza tra l’interpretazione fornita dal giudice nazionale e quella proveniente dalla Corte di Giustizia.

L’una non va oltre l’interpretazione necessaria all’applicazione della norma al caso di specie ed è suscettibile di progressiva impugnazione, l’altra assume autorità di precedente capace di assumere effetti rilevanti e cogenti anche per giudici diversi rispetto a quelli che l’hanno sollecitata.

Questo inquadramento delle sentenze interpretative in termini di efficacia erga omnes intesa in senso "normativo", al pari di quanto accade con regolamenti e direttive, con l’effetto di riconoscere anche ad esse la loro "diretta applicabilità", è stato ampiamente criticato. Parte della dottrina inquadra le sentenze nel principio dello stare decisis, anche se non nella sua forma perfettamente compiuta, quale cioè vincolo assoluto per i giudici di grado inferiore. Il principio enunciato dalla Corte vincolerebbe semplicemente “i giudici ad applicare tale principio, salva la possibilità di rimettere nuovamente la questione alla Corte di giustizia: un effetto obbligatorio, al di là delle parti del giudizio da cui ciascuna questione scaturisce, nei limiti segnati dalla accennata facoltà di ogni giudice nazionale. Si tratterebbe dunque di un vincolo per il potere giudiziario, legando il giudice al precedente di un altro giudice, ma non di un vincolo per chiunque. La sentenza della Corte di giustizia costituirebbe così solo espressione di una regola casistica, come tale non fissata una volta per tutte, ma suscettibile di svilupparsi grazie ad apporti successivi”.

Per concludere, occorre evidenziare che il principio del primato del diritto comunitario viene ora sancito dalla Costituzione europea che con l’articolo I-6 stabilisce la supremazia della Costituzione e del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri.