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Brevi cenni sul reato di falso ideologico

Il falso ideologico è la menzogna contenuta in un documento.

Si distingue, quindi, dal falso materiale, che è la contraffazione documentale (cioè la creazione di un documento da parte di colui che non ne è l’autore) o l’alterazione (cioè la modifica del documento originale). In particolare, gli artt. 479-493 c.p. puniscono il falso ideologico del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio, realizzato in un atto pubblico; l’art. 480 c.p. riguarda specificamente i certificati e le autorizzazioni amministrative; l’art. 483 c.p. sanziona il privato che realizza la falsità in atto pubblico.

Il legislatore penale, quindi, si occupa della falsità ideologica solo qualora essa riguardi il contenuto di un atto inerente la sfera dell’attività pubblica. Infatti il falso in scrittura privata non è punito, in quanto non sussiste alcun generale obbligo in capo al privato di redigere atti veritieri, salve specifiche eccezioni (artt. 481 e 484 c.p. e 2621 c.c.).

Tra i delitti che puniscono la falsità in atti, gli artt. 476 c.p. (falso materiale) e 479 c.p. hanno ad oggetto specifico i cosiddetti atti pubblici. Il legislatore, però, ha omesso di dettare una precisa definizione, lasciando all’interprete il compito di perimetrarne la nozione in ambito penalistico.

Nell’ampio genus dei documenti, l’opinione prevalente non ha ritenuto di individuare la categoria dell’atto pubblico facendo pedissequo riferimento al significato civilistico, per cui, ai sensi degli artt. 2699 e 2700 c.c., è tale il documento redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato.

Infatti, in questo modo, si restringerebbe eccessivamente il campo della tutela penale.

Senza contare che la diversa interpretazione sembra imposta da precise indicazioni sistematiche. Innanzitutto, l’art. 476, comma 2°, c.p. prevede un trattamento sanzionatorio più aspro per la falsità materiale di atti che fanno fede fino a querela di falso.

In questo modo si fa riferimento proprio all’atto pubblico civilistico, che, quindi, rappresenta solo una specie di un genus più ampio.

Ciò è confermato dal fatto che l’art. 493 c.p. contempla come soggetto attivo anche l’incaricato di pubblico servizio, dalle cui competenze sicuramente esulano gli atti pubblici in senso civilistico, cosiddetti fidefacenti (i quali possono identificarsi con i poteri certificativi che, ai sensi dell’art. 358, comma 2°, c.p. sono propri della pubblica funzione).

La giurisprudenza pressoché totalitaria, quindi, ha forgiato una definizione più ampia tenendo conto della ratio della tutela penalistica, che non si limita a proteggere la genuinità e veridicità del documento pubblico come strumento probatorio, ma anche come mezzo attraverso il quale si svolge l’attività pubblica.

Viene, così, considerato atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, che contenga attestazioni di verità suscettibili di produrre effetti giuridici per la pubblica amministrazione.

Dunque i due requisiti cui viene data rilevanza sono la qualifica soggettiva dell’autore ed il fatto che l’atto sia redatto per una ragione inerente all’ufficio o al servizio.

E’, così, necessario e sufficiente un nesso di collegamento con l’attività istituzionale.

Viene, quindi, considerato irrilevante che il documento sia meramente interno, cioè non destinato a spiegare efficacia nei confronti dei terzi.

L’assenza di efficacia esterna non esclude il reato quando l’atto è volto a documentare fatti inerenti l’attività svolta dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) o attinenti alla regolarità delle operazioni amministrative cui costui è addetto (ad esempio Cass. pen., 26 marzo 1997, in “Cassazione penale”, 1998, 1628).

Sono stati, altresì, considerati atto pubblico la mera corrispondenza tra uffici e gli atti cosiddetti occasionali, cioè compiuti per il più agevole svolgimento delle proprie funzioni, pur senza una previa disposizione di legge che li contempli (ad esempio Cass. pen., sez. V, 10 marzo 1994).

La nozione illustrata impone ulteriori distinzioni, dovendosi tener conto del fatto che gli artt. 477 e 480 c.p. prevedono pene meno gravi per il caso di falsità materiale ed ideologica in certificati od autorizzazioni amministrative.

La differenza tra atto pubblico e certificato viene ravvisata dall’opinione prevalente nell’appartenenza o meno del fatto attestato alla sfera di attività del pubblico ufficiale.

In altri termini, il certificato è un documento “derivato”, contenente fatti e dati che sono noti al pubblico ufficiale in quanto provenienti da altri atti pubblici preesistenti, per cui la sua efficacia è meramente dichiarativa di verità e di scienza relativa a fatti conosciuti aluinde dal pubblico ufficiale.

L’atto pubblico, invece, documenta un fatto che il pubblico ufficiale ha direttamente compiuto o che è avvenuto in sua presenza, oppure contiene manifestazioni di volontà del medesimo.

La distinzione è più agevole con riferimento alle autorizzazioni amministrative, che sono i provvedimenti che hanno la funzione di rimuovere, anche solo temporaneamente, i limiti posti dalla legge all’esercizio di un diritto preesistente.

Un’importante applicazione di tale categoria si è avuta con riferimento agli atti a contenuto dispositivo, cioè quelli che rappresentano una dichiarazione di volontà dell’autore.

E’ stato, infatti, sostenuto che, per loro natura, fossero incompatibili con la falsità ideologica.

Tale genere di falsità è ipotizzabile solo riguardo ad atti descrittivi, che hanno la funzione di riprodurre la realtà e non quella di esprimere una volontà, che può semmai essere oggetto di simulazione.

Se, infatti, il falso ideologico è riferimento mendace, ossia rappresentazione o narrazione di un fatto non veritiero, evidentemente -si assume- esso è concepibile unicamente per gli atti a contenuto descrittivo o narrativo, ma non anche in atti che contengano deliberazioni o statuizioni (disposizioni) ovvero l’espressione di un giudizio o di un parere: questi – si afferma - non sono “predicabili” in termini di vero (storicamente vero) o non vero (storicamente falso), bensì secondo diversi parametri di catalogazione (giusto o sbagliato, corretto o scorretto, legittimo o illegittimo).

La giurisprudenza si è orientata in questo senso riguardo ai rari atti di natura esclusivamente dispositiva. Peraltro, la Cassazione individua delle situazioni in cui può comunque parlarsi di falsità ideologica in atti espressivi di volontà o di giudizio.

La configurabilità del reato in esame è stata affermata qualora gli atti abbiano come necessario presupposto l’attestata esistenza di una certa situazione di fatto (non conforme alla realtà) con l’obbligo per il pubblico ufficiale di indicarla nell’atto (cfr. Cass., Sez. V, 11-02-2005, n. 5397), dal momento che su tale situazione di fatto si genera l’affidamento dei terzi (cfr. Cass., Sez. Un., 03-02-1995, n. 1827; Cass., Sez. V, 05-05-2003, n. 20073).

Tale principio è stato affermato dalla giurisprudenza in relazione al diploma di laurea, avente contenuto dispositivo nella parte in cui contiene la proclamazione a <>, in merito all’attribuzione di verità di documenti e certificati concernenti esami di profitto mai sostenuti.

Naturalmente, perché il falso ideologico in atto pubblico dia luogo al reato sulla base dei principi esposti, è necessario pur sempre che la falsità riguardi fatti o circostanze di cui l’atto è destinato a far prova.

Se ciò non avviene, la falsità del tutto innocua è irrilevante.

Il falso ideologico è la menzogna contenuta in un documento.

Si distingue, quindi, dal falso materiale, che è la contraffazione documentale (cioè la creazione di un documento da parte di colui che non ne è l’autore) o l’alterazione (cioè la modifica del documento originale). In particolare, gli artt. 479-493 c.p. puniscono il falso ideologico del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio, realizzato in un atto pubblico; l’art. 480 c.p. riguarda specificamente i certificati e le autorizzazioni amministrative; l’art. 483 c.p. sanziona il privato che realizza la falsità in atto pubblico.

Il legislatore penale, quindi, si occupa della falsità ideologica solo qualora essa riguardi il contenuto di un atto inerente la sfera dell’attività pubblica. Infatti il falso in scrittura privata non è punito, in quanto non sussiste alcun generale obbligo in capo al privato di redigere atti veritieri, salve specifiche eccezioni (artt. 481 e 484 c.p. e 2621 c.c.).

Tra i delitti che puniscono la falsità in atti, gli artt. 476 c.p. (falso materiale) e 479 c.p. hanno ad oggetto specifico i cosiddetti atti pubblici. Il legislatore, però, ha omesso di dettare una precisa definizione, lasciando all’interprete il compito di perimetrarne la nozione in ambito penalistico.

Nell’ampio genus dei documenti, l’opinione prevalente non ha ritenuto di individuare la categoria dell’atto pubblico facendo pedissequo riferimento al significato civilistico, per cui, ai sensi degli artt. 2699 e 2700 c.c., è tale il documento redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato.

Infatti, in questo modo, si restringerebbe eccessivamente il campo della tutela penale.

Senza contare che la diversa interpretazione sembra imposta da precise indicazioni sistematiche. Innanzitutto, l’art. 476, comma 2°, c.p. prevede un trattamento sanzionatorio più aspro per la falsità materiale di atti che fanno fede fino a querela di falso.

In questo modo si fa riferimento proprio all’atto pubblico civilistico, che, quindi, rappresenta solo una specie di un genus più ampio.

Ciò è confermato dal fatto che l’art. 493 c.p. contempla come soggetto attivo anche l’incaricato di pubblico servizio, dalle cui competenze sicuramente esulano gli atti pubblici in senso civilistico, cosiddetti fidefacenti (i quali possono identificarsi con i poteri certificativi che, ai sensi dell’art. 358, comma 2°, c.p. sono propri della pubblica funzione).

La giurisprudenza pressoché totalitaria, quindi, ha forgiato una definizione più ampia tenendo conto della ratio della tutela penalistica, che non si limita a proteggere la genuinità e veridicità del documento pubblico come strumento probatorio, ma anche come mezzo attraverso il quale si svolge l’attività pubblica.

Viene, così, considerato atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, che contenga attestazioni di verità suscettibili di produrre effetti giuridici per la pubblica amministrazione.

Dunque i due requisiti cui viene data rilevanza sono la qualifica soggettiva dell’autore ed il fatto che l’atto sia redatto per una ragione inerente all’ufficio o al servizio.

E’, così, necessario e sufficiente un nesso di collegamento con l’attività istituzionale.

Viene, quindi, considerato irrilevante che il documento sia meramente interno, cioè non destinato a spiegare efficacia nei confronti dei terzi.

L’assenza di efficacia esterna non esclude il reato quando l’atto è volto a documentare fatti inerenti l’attività svolta dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) o attinenti alla regolarità delle operazioni amministrative cui costui è addetto (ad esempio Cass. pen., 26 marzo 1997, in “Cassazione penale”, 1998, 1628).

Sono stati, altresì, considerati atto pubblico la mera corrispondenza tra uffici e gli atti cosiddetti occasionali, cioè compiuti per il più agevole svolgimento delle proprie funzioni, pur senza una previa disposizione di legge che li contempli (ad esempio Cass. pen., sez. V, 10 marzo 1994).

La nozione illustrata impone ulteriori distinzioni, dovendosi tener conto del fatto che gli artt. 477 e 480 c.p. prevedono pene meno gravi per il caso di falsità materiale ed ideologica in certificati od autorizzazioni amministrative.

La differenza tra atto pubblico e certificato viene ravvisata dall’opinione prevalente nell’appartenenza o meno del fatto attestato alla sfera di attività del pubblico ufficiale.

In altri termini, il certificato è un documento “derivato”, contenente fatti e dati che sono noti al pubblico ufficiale in quanto provenienti da altri atti pubblici preesistenti, per cui la sua efficacia è meramente dichiarativa di verità e di scienza relativa a fatti conosciuti aluinde dal pubblico ufficiale.

L’atto pubblico, invece, documenta un fatto che il pubblico ufficiale ha direttamente compiuto o che è avvenuto in sua presenza, oppure contiene manifestazioni di volontà del medesimo.

La distinzione è più agevole con riferimento alle autorizzazioni amministrative, che sono i provvedimenti che hanno la funzione di rimuovere, anche solo temporaneamente, i limiti posti dalla legge all’esercizio di un diritto preesistente.

Un’importante applicazione di tale categoria si è avuta con riferimento agli atti a contenuto dispositivo, cioè quelli che rappresentano una dichiarazione di volontà dell’autore.

E’ stato, infatti, sostenuto che, per loro natura, fossero incompatibili con la falsità ideologica.

Tale genere di falsità è ipotizzabile solo riguardo ad atti descrittivi, che hanno la funzione di riprodurre la realtà e non quella di esprimere una volontà, che può semmai essere oggetto di simulazione.

Se, infatti, il falso ideologico è riferimento mendace, ossia rappresentazione o narrazione di un fatto non veritiero, evidentemente -si assume- esso è concepibile unicamente per gli atti a contenuto descrittivo o narrativo, ma non anche in atti che contengano deliberazioni o statuizioni (disposizioni) ovvero l’espressione di un giudizio o di un parere: questi – si afferma - non sono “predicabili” in termini di vero (storicamente vero) o non vero (storicamente falso), bensì secondo diversi parametri di catalogazione (giusto o sbagliato, corretto o scorretto, legittimo o illegittimo).

La giurisprudenza si è orientata in questo senso riguardo ai rari atti di natura esclusivamente dispositiva. Peraltro, la Cassazione individua delle situazioni in cui può comunque parlarsi di falsità ideologica in atti espressivi di volontà o di giudizio.

La configurabilità del reato in esame è stata affermata qualora gli atti abbiano come necessario presupposto l’attestata esistenza di una certa situazione di fatto (non conforme alla realtà) con l’obbligo per il pubblico ufficiale di indicarla nell’atto (cfr. Cass., Sez. V, 11-02-2005, n. 5397), dal momento che su tale situazione di fatto si genera l’affidamento dei terzi (cfr. Cass., Sez. Un., 03-02-1995, n. 1827; Cass., Sez. V, 05-05-2003, n. 20073).

Tale principio è stato affermato dalla giurisprudenza in relazione al diploma di laurea, avente contenuto dispositivo nella parte in cui contiene la proclamazione a <>, in merito all’attribuzione di verità di documenti e certificati concernenti esami di profitto mai sostenuti.

Naturalmente, perché il falso ideologico in atto pubblico dia luogo al reato sulla base dei principi esposti, è necessario pur sempre che la falsità riguardi fatti o circostanze di cui l’atto è destinato a far prova.

Se ciò non avviene, la falsità del tutto innocua è irrilevante.