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Art. 56 - Delitto tentato

1. Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

2. Il colpevole di delitto tentato è punito: [con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte] (1); con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.

3. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.

4. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.

(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita con l’art. 1 DLGS LGT 224/1944 e sostituita con la pena dell’ergastolo.

Rassegna di giurisprudenza

Atti idonei diretti in modo non equivoco

In tema di delitto tentato, il requisito dell'univocità degli atti assume una connotazione non già di criterio di mera prova ma di "criterio di essenza": l'univocità degli atti nel delitto tentato, dunque, deve essere considerata come una caratteristica oggettiva della condotta, sicché è necessario che gli atti, in sé stessi, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, rivelino, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall'agente (Sez. 1, 31177/2021).

Il reato tentato, disciplinato dall’ art. 56, costituisce fattispecie autonoma rispetto al reato consumato e, per la sua configurabilità, richiede la sussistenza sia dell’elemento soggettivo che di quello oggettivo; mentre l’elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere, l’elemento oggettivo ruota intorno altri concetti di idoneità degli atti, univocità degli atti e mancato compimento dell’azione o mancato verificarsi dell’evento.

La problematica del delitto tentato si inserisce, dunque, tra gli estremi della semplice "cogitatio" o semplice accordo (non punibile ai sensi dell’art. 115) ed il delitto consumato. Per il reato tentato, è necessario, quindi, stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera "cogitatio", pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, sia ugualmente punibile (Sez. 2, 31334/2017).

È ben diversa l’ipotesi del mero accordo criminoso (anche solo tentato) dalla ipotesi di un accordo criminoso che si sia tradotto in atti di tentativo (come è nella fattispecie per le ragioni sopra esplicate). Solo nel primo caso, infatti, non sussiste la punibilità in virtù dell’art 115; nel secondo caso, invece, si è fuori della sfera dell art 115 citato e gli atti compiuti, sorretti dalla coscienza e volontà dei partecipi all’accordo, ancorché non abbiano perfezionato la consumazione del reato, sono regolati dalla disciplina dell’art 56, assumendo rilevanza di illecito penale punibile nella fattispecie di tentativo, sempre che abbiano acquisito quei caratteri di idoneità e di direzione univoca oggettiva e soggettiva degli atti medesimi al fine di commettere un delitto, sì come previsto dalla norma suddetta (Sez. 2, 17563/2017).

Gli elementi strutturali oggettivi del tentativo, rappresentati dalla idoneità degli atti e dalla loro direzione non equivoca, sono ricostruiti dalla giurisprudenza di legittimità secondo coordinate sistematico-interpretative ormai consolidate. La nozione di idoneità, in particolare, rinvia all’adeguatezza in concreto della condotta a realizzare il risultato tipico, costituito dal reato consumato, alla luce di una valutazione prognostica compiuta ex post (e quindi postuma), con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti e, quindi, tenendosi conto con giudizio ex ante, nella prospettiva del bene protetto, delle circostanze in cui ha operato l’agente e delle modalità dell’azione.

Il carattere di univocità richiede che gli atti siano oggettivamente rivelatori, per il contesto nel quale si inseriscono e per la loro natura ed essenza, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, del fine perseguito dall’agente, rilevando in tal senso non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, indipendenti dalla volontà del reo, che ne impediscano la realizzazione.

Con riferimento particolare all’elemento psicologico del dolo, riguardo al reato di tentato omicidio, è costante l’orientamento alla cui stregua la figura di reato prevista dall’art. 56 non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo eventuale), ricomprendendo invece gli atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale).

La prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, deve essere, in particolare, desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni o certi, aventi un sicuro valore sintomatico, e in particolare da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei a esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, 2119/2019).

L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio "ex ante", tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto (Sez, 1, 56421/2018).

Il requisito, richiesto dall’art. 56, della idoneità della condotta posta in essere dal reo onera il giudice dell’accertamento circa la capacità della condotta a produrre l’evento che integra la consumazione del delitto voluto, ma in realtà non consumato. Va quindi esaminata la condotta posta in essere nel contesto fattuale del momento della stessa e noto all’agente, senza che in tale valutazione possano venire in rilievo condizioni sopravvenute né preesistenti, ma non conosciute dall’agente (Sez. 1, 56695/2018).

In tema di delitto tentato, anche gli atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo punibile, purché in sé univoci, ossia oggettivamente rivelatori, per il contesto nel quale si inseriscono e per la loro natura ed essenza, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, del fine perseguito dall’agente (Sez. 5, 18981/2017). Di gran lunga maggioritario, nella giurisprudenza di legittimità, è l’orientamento secondo cui deve escludersi che la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, recepita dal codice Zanardelli (che all’art. 61 puniva «colui che, a fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione ...»), rappresenti tuttora il discrimen per delimitare l’area del tentativo penalmente rilevante.

Secondo l’indirizzo maggioritario, l’atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione ex ante e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto (Sez. 2, 40912/2015); per la configurabilità del tentativo, dunque, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 2, 25264/2016).

Al difforme indirizzo, secondo cui, nel delitto tentato, gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata (Sez. 1, 40058/2008), si è replicato sulla base, da un lato, del riferimento al dato testuale offerto dall’art. 56, dal quale non è consentito sottrarsi, se non a costo di un’interpretatio abrogans, e, dall’altro, del rilievo che il rischio di estendere oltre il dovuto il limite della punibilità degli atti idonei e univoci deve essere scongiurato mediante un’interpretazione rispettosa, in particolare, del principio di offensività (Sez. 5, 43255/2009) (ricostruzione sistematica fatta da Sez. 5, 1965/2019).

La "disputa" sulla rilevanza dei soli atti c.d. esecutivi ovvero anche di quelli c.d. preparatori perde di significato una volta correttamente inteso il requisito della idoneità degli atti, il quale deve essere valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati, esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’intrinseca attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito, rivelando la propria. L’unico criterio di ordine generale, che può essere di valido ausilio nel riconoscimento dell’univocità, d’altro canto, è costituito dall’imprevedibilità della non consumazione, ovvero da quella complessiva situazione di fatto in cui tutto fa supporre che il reato sarà commesso, e non appaiono percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità.

A tal fine, saranno quindi esclusi solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente, atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 comma 3) o il recesso attivo (art. 56 comma 4). Ne consegue, quindi, che il tentativo è punibile non solo quando l’esecuzione è compiuta, ma anche quando l’agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto; ovvero, in tutti quei casi in cui l’agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria, ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto detto trova, peraltro, conferma nei commi successivi dell’art. 56 c.p. che, nel prevedere il caso di desistenza dell’azione e di impedimento da parte dell’agente dell’evento determinato dagli atti esecutivi veri e propri, confermano i due livelli del tentativo punibile sanzionati in modo differente. Del pari, riprova della bontà della tesi soggettiva può trarsi dall’art. 49, comma 2, che esclude la punibilità per "l’inidoneità dell’azione" e non degli atti esecutivi, così confermando che bisogna aver riguardo più che alla idoneità dei singoli atti, alla idoneità dell’azione valutata nel suo complesso.

Per tali motivi deve quindi essere ribadito il principio secondo cui per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come "preparatori", facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo; "che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 2, 47295/2018).

 

Desistenza volontaria

La mancata consumazione del delitto deve dipendere dalla volontarietà che, pur non dovendo essere intesa come spontaneità, richiede che la scelta di non proseguire nell’azione criminosa non sia necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendentemente da circostanze esterne che rendono irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa (Sez. 1, 448/2919).

La legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l’agente a desistere dall’azione criminosa ma richiede, invece, con la previsione del requisito della volontarietà che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile o gravemente rischiosa la prosecuzione dell’azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell’azione medesima; la scelta deve, quindi, essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente (Sez. 2, 57923/2018).

Nei reati di danno a forma libera, la desistenza volontaria può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento (Sez. 5, 50079/2017).

 

Recesso attivo

L’istituto del recesso attivo previsto dall’art. 56, ultimo comma, presuppone che l’evento non si sia ancora verificato, di modo che l’agente possa ancora impedirne la realizzazione. Nel recesso attivo, in sostanza, l’autore del reato mette in pratica una "controcondotta" in modo da evitare che si produca l’evento criminale finale (la differenza con la desistenza è, quindi, che l’agente non si limita a sospendere la sua attività ma ne pone in essere una successiva atta a porre nel nulla quella fino a quel momento agita che avrebbe portato alla consumazione del reato) (Sez. 7, 58166/2018).

 

Casistica

In tema di tentato omicidio, in linea generale la prova del dolo, quando, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta e deve essere desunta mediante un procedimento inferenziale, analogo a quello indiziario, in modo da ricavare il fine perseguito dall’agente, partendo da dati certi, ossia dagli elementi della condotta, ed applicando consolidate massime di esperienza. Allo scopo può farsi ricorso ai seguenti indici, apprezzabili ex post, dotati della capacità di rivelare in via sintomatica l’atteggiamento soggettivo dell’agente: il comportamento antecedente e susseguente al reato; la natura del mezzo usato e le sue caratteristiche intrinseche di potenzialità lesiva; le parti del corpo della vittima attinte; la reiterazione dei colpi; le ragioni della mancata verificazione dell’evento (nel caso di specie, la Corte ha stabilito che la decisione impugnata ha rispettato anche la tradizionale distinzione tra la fattispecie di lesioni personali e quella di tentato omicidio, incentrata sul diverso atteggiamento psicologico dell’agente e sulla differente potenzialità dell’azione lesiva: nel primo reato l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, eccedendo l’evento realizzato, tende ed è idoneo a cagionare un esito ulteriore e più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore dello stesso soggetto, senza però poter sortire il risultato perseguito per ragioni estranee alla volontà dell’agente). (Sez. 1, 36079/2020).

In tema di tentato omicidio, la scarsa entità delle lesioni cagionate alla vittima e la inesistenza di lesioni non sono circostanze idonee a escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa. Si è anche ripetutamente affermato che, al fine della qualificazione del fatto quale tentato omicidio, invece che quale lesione personale o altro, si deve avere riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e alla diversa potenzialità dell’azione lesiva, richiedendosi nel primo un quid pluris che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente (Sez. 1, 2119/2019).

In tema di estorsione va considerata integrata l’ipotesi tentata ed esclusa la desistenza quando la consegna della somma di denaro, costituente oggetto di una richiesta effettuata con violenza o minaccia, non abbia avuto luogo non per autonoma volontà dell’imputato, bensì per la ferma resistenza, come nel caso di specie, opposta dalla vittima (Sez. 2, 57923/2018).

Il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell’ordine presenti in loco), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l’agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo (SU, 52117/2014).

Risponde del delitto consumato e non tentato di riciclaggio il soggetto sorpreso dalla polizia giudiziaria nell’atto di smontare un’autovettura rubata in quanto l’art. 648-bis configura un’ipotesi di reato a consumazione anticipata (Sez. 2, 5505/2014).

In senso contrario: il nuovo testo dell’art. 648-bis, introdotto dall’art. 23 della L. 55/1990, ha ridisegnato la fattispecie abbandonando la configurazione  tipica di reato a consumazione anticipata  della materialità del reato come fatti o atti diretti alla sostituzione di denaro o altre utilità provenienti da particolari, gravi delitti. L’attuale fattispecie, infatti, si articola in due ipotesi fattuali: la prima consiste nella sostituzione del denaro o delle altre utilità provenienti da specifici delitti; la seconda opera come formula di chiusura, incriminando qualsiasi condotta  distinta dalla sostituzione  che sia tale da frapporre ostacoli all’identificazione del denaro, dei valori o altro di provenienza illecita) ed in entrambe le ipotesi è astrattamente configurabile il tentativo.

Muovendo da tali considerazioni, proprio in ragione della attuale formulazione della norma la quale fa riferimento alla condotta di chi "compie" delle "operazioni" volte ad "ostacolare l’ identificazione della provenienza delittuosa" non pare possa escludersi il compimento, inquadrabile nell’ ipotesi di cui all’ art. 56, di "atti idonei diretti in modo non equivoco" ad ostacolare la provenienza delittuosa del bene quale può ritenersi, ad esempio, il momento in cui si sta procedendo a smontare le targhe di un mezzo rubato per montare sul medesimo altre targhe lecitamente detenute.

Così allorquando, in generale, si sta procedendo alla atomizzazione di un veicolo rubato nelle sue singole componenti meccaniche elementari di modo che, una volta installate su altri veicoli, di esse se ne perda la traccia, così ostacolando l’identificazione della provenienza delittuosa e facendo perdere la sua originaria identità. Il delitto in esame rientra, invero, nella categoria dei reati a forma libera poiché il legislatore ha inteso perseguire un ampio spettro di condotte inclusivo di tutte quelle attività dirette a neutralizzare o comunque ad intralciare l’accertamento dell’origine illecita dei proventi ricavati dalle attività delittuose.

Ciò vale, in particolare, con riguardo a tutte quelle fattispecie in cui sugli stessi beni vengano poste in essere molteplici e successive operazioni di sostituzione volte a fare disperdere l’origine illecita degli stessi; si tratta del cosiddetto riciclaggio indiretto che viene a costituire in concreto un ulteriore ostacolo alla tracciabilità della provenienza dei beni e quindi non può che integrare l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 648-bis, nella sua attuale formulazione anche sotto la forma del tentativo (Sez. 2, 55416/2018).

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dell’art. 12-sexies DL 306/1992, convertito dalla L. 336/1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 L. 203/1991 (SU, 40985/2018).