Art. 614 - Violazione di domicilio
1. Chiunque s’introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione da uno a quattro anni (1) (2).
2. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l’espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno.
3. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.
4. La pena è da due a sei anni, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato (3).
(1) Comma così modificato dal comma 24 dell’art. 3, L. 94/2009.
(2) Gli attuali limiti edittali sono stati introdotti dall’art. 4 della L. 36/2019. In precedenza la pena era fissata nel minimo a sei mesi e nel massimo a tre anni.
(3) Gli attuali limiti edittali sono stati introdotti dall’art. 4 della L. 36/2019. In precedenza la pena era fissata nel minimo a un anno e nel massimo a cinque anni.
Rassegna di giurisprudenza
L’art. 614 comma 1 equipara l’introduzione nell’altrui abitazione invito domino a quella realizzata clandestinamente o con inganno, sicché integra violazione di domicilio la condotta di colui che si introduce nel domicilio altrui con intenzioni illecite, in quanto, in tal caso, si ritiene implicita la contraria volontà del titolare dello ius excludendi e nessun rilievo svolge la mancanza di clandestinità nell’agente (Sez. 5, 16721/2016).
In tema di violazione di domicilio, l’art. 14 della Costituzione tutela, contro illegittime intrusioni dall’esterno, la inviolabilità del domicilio, inteso come luogo nel quale si estrinseca, in ambito privato, la vita e la personalità del cittadino.
Esorbitano tuttavia dal campo di applicazione del suddetto principio tutti gli aspetti che concernono il bene immobile in quanto tale e dunque l’acquisto e la perdita, legittimi, della proprietà, del possesso o della detenzione, specie quando costituiscono oggetto di interventi della autorità giudiziaria o di quella amministrativa.
Pertanto, ogniqualvolta sia venuto legittimamente meno il titolo che giustifica la proprietà, il possesso o la detenzione dell’immobile, non può mai invocarsi il diritto alla inviolabilità del domicilio (nella fattispecie, la Corte ha escluso la configurabilità del delitto di violazione di domicilio, dedotta dal ricorrente, persona offesa, con riferimento alla occupazione di urgenza di un suo fondo, disposta dalla pubblica amministrazione nell’ambito di un procedimento di espropriazione) (Sez. 5, 2257/2000).
Nozione di domicilio e privata dimora
Secondo i canoni interpretativi tracciati dalla giurisprudenza di legittimità, privata dimora va intesa in ragione della destinazione del luogo allo svolgimento di attività della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne. Va, inoltre, valorizzata la durata del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da apprezzabile stabilità e non da mera occasionalità. Deve essere, infine, significativa l’inaccessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (SU, 31345/2017).
Si è infatti precisato come il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli, quindi, la riservatezza. Si tratta di rapporto tra la persona ed il luogo tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole, la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia questo o meno presente.
Assume, dunque, rilievo, quale elemento caratterizzante della nozione di privata dimora, il requisito della stabilità, anche se intesa in senso relativo, elemento che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità (Sez. 5, 7805/2019).
È necessario premettere delle osservazioni di carattere generale quanto alla nozione di “privata dimora” accolta dalla giurisprudenza nelle diverse fattispecie del codice penale e processuale penale nelle quali essa viene in considerazione, dovendosi evidenziare che si tende a proporne una interpretazione a volte estensiva e altre volte restrittiva, che denuncia una incomprimibile divergenza di vedute.
Tenuto conto che l’art. 624-bis nasce da una novella del 2001, che intese ampliare l’ambito di punizione del furto, non più soltanto in “luogo destinato ad abitazione” (art. 625 n. 1), ma anche in ogni “luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora”, fondamentale appare richiamare le sentenze riguardanti il reato di violazione di domicilio (art. 614), che per prime hanno fornito una elaborazione della nozione di “privata dimora”, espressamente evocata nell’art. 624-bis.
In quelle sentenze si era sottolineato, sulla base della stessa lettera dell’art. 614, che il concetto di “privata dimora” fosse più ampio di quello di “abitazione”, comprendendo ogni altro luogo che, pur non essendo destinato a casa di abitazione, venisse usato, anche in modo transitorio e contingente, per lo svolgimento dell’attività privata, come quella di studio, di svago, di lavoro, di commercio, rientranti nella larga accezione di “libertà domestica”.
Sono stati considerati, pertanto, “luoghi di privata dimora” il bar, il negozio e gli altri luoghi, nei quali l’avente diritto, dopo la chiusura dell’esercizio al pubblico, si soffermi per l’esplicazione di un’attività privata. Si è considerato luogo di privata dimora anche quello adibito all’esercizio di una attività, ove «ogni persona ha diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbamenti da parte di terzi, ai quali può essere vietata la introduzione o la permanenza nel luogo stesso.
Ne consegue che anche il ristorante, ove il soggetto esplica la propria attività commerciale, è luogo che viene protetto dalla norma su indicata, che attribuisce, perciò, al gestore del locale il potere di impedire l’accesso e di espellere coloro che si introducono per azioni illecite» (Sez. 2, 1353/1985). La stessa nozione di “privata dimora” è quella utilizzata, mediante richiamo espresso dell’art. 614, - nel delitto di cui all’art. 615 (in relazione al quale si è ribadito che il concetto di “privata dimora” è più ampio di quello di casa d’abitazione, comprendendo ogni altro luogo che assolva alla funzione di proteggere la vita privata, come quello destinato ad attività culturale con soggiorno che, per quanto breve, abbia comunque una certa durata.
Si è quindi ritenuto che anche le aree adiacenti ed esterne a un “castello” non possano che avere le medesime caratteristiche di esplicazione della vita privata e, quindi, rientrano pienamente nel disposto di cui all’art. 615 (Sez. 5, 29093/2015); - nel delitto di cui all’ art. 615-bis (il riferimento contenuto nel primo comma di tale norma ai luoghi indicati nell’art. 614 “ha la funzione di delimitare gli ambienti nei quali l’interferenza nella altrui vita privata assume penale rilevanza” (Sez. 5, 9235/2012); - nell’ aggravante prevista dall’art. 52, comma 2 si è posto il problema di delimitare l’ambito di applicabilità della norma, sicché – per esempio – si è escluso che la presunzione di proporzionalità a favore della reazione di difesa in luoghi di domicilio o ad esso equiparabili operi con riguardo a condotte compiute nell’abitacolo di una autovettura, precisandosi al riguardo che si tratta di spazio privo dei requisiti minimi necessari per potervi soggiornare per un apprezzabile periodo di tempo e nel quale non si compiono atti caratteristici della vita domestica (Sez. 4, 19375/2013).
In proposito le Sezioni unite hanno sottolineato che nel «richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall’art. 614 (vale a dire a quelli di privata dimora). Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell’art. 52 per estendere l’applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro» (SU, 31345/2017). Nelle disposizioni sul furto in abitazione (art. 624-bis) e sulla rapina aggravata (art. 628, terzo comma, n. 3-bis, mediante richiamo all’art. 624-bis), invece, senza operare un rinvio all’art. 614, vi è il riferimento diretto ai luoghi “destinati in tutto o in parte a privata dimora”.
È del tutto evidente che la precisazione fatta dal legislatore sulla “destinazione” anche “parziale” del luogo a “privata dimora” abbia consentito una lettura ampia della tutela apprestata dalla norma, così da ricomprendere anche quei luoghi che, pur se accessibili al pubblico, comunque abbiano per alcuni soggetti la funzione di proteggere la vita privata.
Si è tuttavia precisato che, al fine di individuare una linea di discrimine tra la più grave fattispecie sanzionata dall’art. 624-bis e quella di cui all’art. 624, occorre pur sempre – poiché altrimenti vi sarebbe una tendenziale e arbitraria sovrapposizione delle due ipotesi – che il luogo nel quale è perpetrato il furto abbia, per sua struttura o per l’uso che ne è fatto in concreto, una destinazione legata e riservata alla esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica.
Deve, cioè, trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per taluna delle finalità predette: «Ciò del resto conformemente alla ratio della previsione che è quella della tutela della sicurezza fisica della vittima che si trovi all’interno di luoghi nei quali essa soggiorni sia pure per breve tempo per attività privata, essendo inoltre tale tipo di condotta sintomatico di una maggiore audacia e pericolosità dell’agente e, quindi, determinante un maggiore allarme sociale» (Sez. 4, 51749/2014).
Giova qui sottolineare che anche l’ordinamento processuale – ed in particolare la disciplina sulle intercettazioni di conversazioni tra presenti – modula regime e strumenti autorizzatori del mezzo di ricerca della prova rispetto al presupposto che esso si realizzi o meno nei luoghi indicati dall’art. 614. Invero, a norma dell’art. 266, comma 2, CPP, qualora le attività investigative «avvengano nei luoghi indicati dall’articolo 614, l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.
Anche in tale ambito si sono dunque registrate puntualizzazioni sui “luoghi indicati dall’articolo 614” in cui è legittimo effettuare l’intercettazione. Fondamentali in materia sono state le indicazioni delle Sezioni unite, che – in relazione alla nozione di “domicilio”, soggetta alla tutela costituzionale – esigono “un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza” (SU, 28 marzo 2006).
Così, con affermazione di carattere generale, sebbene resa nel contesto dell’interpretazione della normativa processuale in tema di videoriprese, si è osservato che «non c’è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza.
Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente».
La citata sentenza delle Sezioni unite ha senz’altro influito anche sulla interpretazione delle fattispecie penali sostanziali. Quindi, in tema di tutela ex art. 624-bis relativa a luoghi destinati al lavoro, l’estensione è stata considerata “ragionevole” solo per chi vi presti stabilmente la propria opera (e, ovviamente, vi esplichi attività della vita privata soggette a riservatezza) e non per coloro che di questi luoghi siano utenti o comunque avventori più o meno occasionali. In altri termini, la tutela opera con riferimento a chi, in relazione ad un determinato luogo, abbia un potere dispositivo, come certamente accade nei contesti in cui un soggetto presti la propria attività lavorativa insieme ad atti della vita privata (tra le tante, Sez. 5, 2768/2014).
Le maggiori applicazioni della medesima sentenza si sono avute però in tema di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis), dando luogo ad indirizzi contrastanti. In applicazione dei principi della citata sentenza delle Sezioni unite, si è affermato che integra «il reato di violenza privata (art. 610 cod. pen.) – e non quello di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis) - la condotta di colui che introduca una telecamera sotto la porta di una ‘toilette pubblica in modo da captare immagini di un minore che si trovi all’interno di essa (nella specie bagno di una stazione ferroviaria) – considerato che la toilette pubblica non può essere considerata un domicilio, ex art. 614 richiamato dall’art. 615-bis, neppure nel tempo in cui sia occupata da una persona» (Sez. 5, 11522/2009).
In una decisione più recente si è precisato che deve ritenersi luogo di privata dimora la “toilette” di uno studio professionale, trattandosi di locale il cui accesso è riservato al titolare ed ai dipendenti dello studio ed è consentito a clienti e fornitori solo in presenza di positiva volontà del personale (Sez. 3, 27847/2015). In altra decisione, invece, si è escluso che i locali dove sono posizionate le docce di una piscina comunale possano essere considerati luoghi tutelati a norma dell’art. 615-bis, giacché essi sono frequentati da un pubblico di avventori in numero non determinabile e che si avvicendano quali utenti del servizio (Sez. 5, 28174/2015).
In senso contrario, si è affermata la sussistenza del reato di cui all’art. 615-bis con riferimento alla condotta di colui che con l’uso di una macchina fotografica si procuri indebitamente immagini di ragazze, partecipanti al concorso di “Miss Italia”, ritratte nude o seminude nel camerino appositamente adibito per consentire loro di cambiarsi d’abito, in quanto detto camerino rientra nei luoghi di privata dimora, intesi come luoghi che consentono una sia pur temporanea esclusiva disponibilità dello spazio, nel quale sia temporaneamente garantita un’area d’intimità e di riservatezza (Sez. 5, 36032/2008).
Venendo al tema specifico riguardante la interpretazione della nozione di “privata dimora” come rilevante ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 624-bis (destinata, però, a ripercuotersi sulla interpretazione delle norme sopra citate oltre che sull’art. 628, terzo comma, n. 3-bis, aggiunto da una novella del 2009), va detto che la esatta locuzione utilizzata nel precetto, e cioè il riferimento a “ luoghi destinati in tutto o in parte a privata dimora”, ha fatto registrare evidenti contrasti.
E la categoria di luoghi contemplati ex art. 624-bis che ha dato vita alla maggior parte della casistica è quella degli esercizi commerciali, stabilimenti industriali, studi professionali e luoghi aperti al pubblico con gestione di un’attività d’impresa. È stato in passato prevalente l’orientamento interpretativo fondato sul rilievo che per “luogo di privata dimora” possa intendersi pure ogni luogo che serva all’esplicazione di attività culturali, professionali e politiche ovvero nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. Si è così ritenuto ravvisabile il delitto ex art. 624-bis nella condotta di chi, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia durante l’orario di apertura (Sez. 4, 37908/2009), nel ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5, 22725/2010), all’interno di un bar (Sez. 5, 30957/2010) o in uno studio odontoiatrico (Sez. 5, 10187/2011).
In senso conforme risulta essersi pronunziata altra sentenza massimata nei seguenti termini: «In tema di furto in abitazione, “luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora” è qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata, comprese le parti accessorie di un edificio (fattispecie relativa al furto di denaro contenuto in una cassetta per la raccolta di elemosina, posta all’esterno di un edificio di culto, ritenuto rientrare nel paradigma dell’art. 624-bis in quando parte accessoria del fabbricato)» (Sez. 5, 7266/2015).
Allo stesso modo si è ritenuto che integri il delitto di furto in abitazione la condotta di colui che sottragga del danaro dal cestino delle offerte custodito in una sagrestia, la quale, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, serve non solo l’edificio sacro, ma altresì la casa canonica e dunque deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a “privata dimora”, trattandosi di luogo in cui l’ingresso può essere selezionato a iniziativa di chi ne abbia la disponibilità (Sez. 4, 40245/2008).
Secondo altra sentenza, poi, integra il reato previsto dall’art. 624-bis la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia, quando l’introduzione clandestina avvenga nelle parti dell’immobile destinate, per l’uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora (Sez. 4, 51749/2014).
Un secondo orientamento si è assestato sul criterio discretivo della considerazione della pubblica accessibilità del luogo, reputata incompatibile con la nozione di privata dimora. Si è così escluso, in linea generale, che i locali adibiti alla produzione e vendita di pane possano essere considerati luoghi tutelati a norma dell’art. 624-bis, giacché essi sono frequentati da un pubblico di avventori in numero non determinabile e che si avvicendano quali clienti (Sez. 5, 43672/2015).
Sulla stessa linea altra decisione (Sez. 6, 18200/2012) nega la possibilità di configurare il reato di cui all’art. 624-bis nell’ipotesi di condotta commessa in un negozio durante l’orario di apertura, valorizzando anche la circostanza che il fatto è stato commesso ai danni di un avventore, cliente dell’esercizio commerciale (e non, dunque, del lavoratore addetto al negozio).
Negli stessi termini si è affermato che non integra il delitto di furto in luogo di privata dimora, ex art. 624-bis, la condotta di colui che sottragga del danaro dalla cassetta delle elemosine custodita non all’interno della sagrestia, ma nella zona della chiesa destinata al culto, atteso che quest’ultima non può considerarsi privata dimora, trattandosi di luogo frequentato da un numero indeterminato di persone e non destinato allo svolgimento di atti della vita privata (Sez. 5, 23641/2016).
Egualmente nega la configurabilità del reato di furto in privata dimora altra pronunzia (Sez. 2, 39134/2012) in un’ipotesi riferita a furto di merce esposta e venduta in orario di apertura. Il criterio della libera e pubblica accessibilità è stato adottato – non senza contrasti – anche dalla giurisprudenza formatasi in tema di rapina aggravata ai sensi dell’art. 628, comma terzo, n. 3-bis, che richiama i luoghi di cui all’art. 624-bis. Si è precisato che, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante citata costituisce “luogo di privata dimora” ogni ambiente in cui le persone autorizzate a soggiornarvi siano titolari di uno “ius excludendi alios” e che sia in concreto idoneo a proteggere il diritto alla riservatezza, consentendo lo svolgimento di atti di vita privata.
Si è, pertanto, escluso che, all’interno dell’ufficio postale, possa considerarsi luogo di privata dimora lo spazio di fronte agli sportelli, dove chiunque può accedere liberamente a differenza dell’area degli uffici in cui il pubblico non può accedere senza autorizzazione, in quanto il divieto di accesso consente di attribuire all’ambiente le caratteristiche di privata dimora (Sez. 2, 20200/2016). In senso contrario si è affermato, che, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3-bis, costituisce “luogo di privata dimora” l’area aperta al pubblico durante gli orari di ufficio di un’agenzia bancaria (Sez. 2, 28045/2012).
A fronte del variegato e contrastato panorama interpretativo prospettato, la questione è stata risolta da un recente arresto delle Sezioni unite, secondo cui «ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624-bis, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (SU, 31345/2017).
Si è precisato che la interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale in tema di privata dimora, nonché dalla sentenza Prisco delle Sezioni unite, «consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi: a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
Ne consegue, quindi, che la circostanza per cui nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti di vita privata non può considerarsi, da sola, sufficiente «per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di privata dimora e che, per i reati di furto in essi commessi, trovi applicazione la norma rubricata come furto in abitazione (con conseguente tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio)».
Ciò in quanto «i luoghi di lavoro sono, generalmente, accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto: ad essi è quindi estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione alla “intrusione” altrui». Ferma tale affermazione di principio, le Sezioni unite hanno comunque precisato che la disciplina dettata dall’art. 624-bis può essere estesa ai luoghi di lavoro laddove essi presentino «le caratteristiche proprie dell’abitazione».
Non può, dunque, revocarsi in dubbio la possibilità che la privata dimora possa essere costituita anche dal luogo ove solitamente si svolge attività lavorativa, a condizione che in esso la persona, pur svolgendo attività lavorativa per molte ore nel corso della giornata, esplichi altresì attività “di vita e dimora privata”, manifestando (in uno dei molteplici modi in cui può atteggiarsi la realtà) alcuni dei propri diritti individuali. E proprio alla luce di ciò, la giurisprudenza di legittimità ha modulato le sue linee interpretative rispetto ai casi concreti, nei quali va accertato, di volta in volta, se il luogo in cui il soggetto svolge la propria attività costituisca, o meno, privata dimora.Si tratta di un accertamento rimesso, naturalmente, al giudice di merito, il quale, sulla base degli elementi raccolti, deve valutare se nel luogo in cui è stata posta in essere l’azione furtiva, sostanzialmente destinato ad attività lavorativa, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi, con la conseguente riconducibilità dello stesso nella categoria dei luoghi di privata dimora. Il principio enucleato dalle Sezioni unite non trova applicazione indiscriminata in ordine a tutti i luoghi di lavoro, essendo invece necessario condurre, caso per caso, una valutazione di fatto: un’indagine volta ad accertare la sussistenza contestuale di tutte le caratteristiche, richiamate dalle predette Sezioni unite, proprie della privata dimora. Solo l’esito positivo di tale accertamento consente di affermare con certezza la sussumibilità della condotta nell’alveo della previsione di cui all’art. 624-bis, anche se perpetrata in un luogo in cui si svolge, solitamente, attività lavorativa.
In altri termini, gli estremi del predetto reato risultano sicuramente integrati nei casi in cui l’azione furtiva venga posta in essere nei luoghi di lavoro comunque utilizzati per lo svolgimento, in modo riservato, di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), nell’ambito di un rapporto tra il luogo (cui i terzi non possono accedere senza il consenso del titolare) e la persona caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità. In quest’ultima categoria rientrano, generalmente, i locali di luoghi di lavoro destinati a atti della vita privata, come gli spogliatoi, i bagni privati e le zone riservate al deposito di effetti personali, giacché tali luoghi possiedono tutte le caratteristiche generali individuate dalla giurisprudenza di legittimità: a) lo ius excludendi alios, secondo cui è luogo di privata dimora quello nei confronti del quale sussiste il diritto di ammettere o di escludere altre persone, poiché vi si svolge la vita intima di ciascun individuo; b) la apertura limitata del luogo al pubblico, secondo cui non può invocarsi la riservatezza in relazione a luoghi ai quali possono accedere un numero indiscriminato di persone; e) la stabilità della presenza nel luogo, secondo cui non può invocarsi la riservatezza in relazione a luoghi nei quali ci si trovi occasionalmente o transitoriamente. d) la “visibilità protetta dei luoghi”, enunciata dalla Corte costituzionale nella sentenza 149/08 e dalle Sezioni unite nella sentenza Prisco (SU, 26795/2006), che analizza e richiama la sentenza 135/2002 della Corte costituzionale, riferita al dubbio di costituzionalità, ritenuto infondato, della disciplina normativa codicistica nella parte in cui non estende alle riprese visive in luoghi di privata dimora il procedimento autorizzatorio previsto per le intercettazioni ambientali nei medesimi luoghi (Sez. 5, 35788/2018).
Ai fini della configurabilità del reato di violazione di domicilio, non possono essere considerati luoghi di privata dimora quelli normalmente destinati ad attività di lavoro, di studio e di svago, ai quali chiunque possa accedere senza necessità di preventivo consenso da parte dell’avente diritto, nulla rilevando che in essi possano anche svolgersi occasionalmente atti della vita privata, ferma restando, tuttavia, l’operatività della tutela penale con riguardo alle parti di detti luoghi (quali, ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi), che abbiano eventualmente assunto le caratteristiche proprie dell’abitazione in quanto destinate anche allo svolgimento di atti della vita privata in modo riservato e con preclusione dell’accesso da parte di estranei (ella specie, in applicazione di tali principii, è stata esclusa la sussistenza del reato di violazione di domicilio in un caso in cui la condotta posta in essere dagli imputati era consistita nell’ingresso arbitrario, a scopo dimostrativo, nei locali di un istituto privato di istruzione) (Sez. 5, 10498/2018).
L’abitacolo di un’autovettura non può essere considerato privata dimora, in quanto sfornito dei requisiti minimi indispensabili per potersi risiedere in modo stabile per un apprezzabile lasso di tempo, né tanto meno appartenenza di privata dimora, in quanto non collegato in un rapporto funzionale di accessorietà o di servizio con la stessa (Sez, 5, 43246/2004).
Ai fini della configurazione del delitto di violazione di domicilio, per “abitazione” si intende il luogo adibito ad uso domestico di una o più persone; non è tale – difettando del requisito dell’attualità dell’uso domestico – l’appartamento non ancora abitato dal proprietario, tanto più se esso contiene mobili ed effetti personali di pertinenza del soggetto imputato (Sez. 6, 31982/2003).
In tema di violazione di domicilio, rientra nella nozione di «appartenenza» di privata dimora il pianerottolo condominiale antistante la porta di un’abitazione. Commette pertanto il reato in questione, nella sua forma consumata e non di semplice tentativo, chi si introduca, invito domino, all’interno di un edificio condominiale sul pianerottolo e avanti alla soglia dell’abitazione di uno dei condomini, avente, come gli altri, diritto di escludere l’intruso (Sez. 5, 12751/1999).
Ai fini della configurabilità del delitto di violazione di domicilio, la casa da gioco (casinò) gestita in regime privatistico va considerata alla stregua di locale aperto al pubblico per lo svolgimento di attività di natura privata, come bar, negozi ed altri consimili, rispetto ai quali sussiste lo ius excludendi del titolare dell’esercizio, e rientra pertanto nella tutela della norma dell’art. 614 (Sez. 5, 11277/1995).
Aggravanti
Ai fini della configurabilità dell’aggravante prevista dall’ultimo comma dell’art. 614 (fatto commesso con violenza su persone o cose o da soggetto armato) non è sufficiente un rapporto occasionale tra gli atti di violenza e la violazione di domicilio, ma occorre un nesso teleologico tra le due azioni. Ne consegue che se la violenza è usata non per entrare o intrattenersi nell’altrui abitazione, ma per commettere un altro reato, la violazione è aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 2 e il reato è procedibile a querela (Sez. 6, 9084/2018).
Il solo uso di una pistola giocattolo – qualora si accerti che il fatto non sia stato commesso anche con violenza sulle cose o alle persone – non è sufficiente ad integrare l’aggravante prevista dall’ultima parte dell’art. 614., la quale richiede il possesso di un’arma effettiva e non solo apparente (Sez. 2, 15575/1989).
Nel delitto di violazione di domicilio, l’aggravante della violenza sulle persone presuppone che la violenza si manifesti in uno qualsiasi dei diversi momenti nei quali si estrinseca la fase esecutiva del reato e, pertanto, ricorre anche quando essa non sia usata inizialmente per l’illecita introduzione, ma successivamente per intrattenersi nel domicilio contro la volontà dell’avente diritto (Sez. 1, 11746/2012).
La condotta di colui che penetra nell’abitazione altrui dopo aver infranto il vetro della finestra di un balcone integra il delitto di violazione di domicilio aggravato dalla violenza sulle cose, nel quale rimane assorbito quello di danneggiamento (Sez. 6, 11780/2010).
Casistica
Non è configurabile il reato di violazione di domicilio nella condotta del locatario che, pur avendo subito un provvedimento di sfratto emesso dal giudice civile, si introduce nell’immobile prima che il locatore venga reimmesso effettivamente nel possesso (Sez. 5, 52749/2017).
La violazione del domicilio (art. 614) presuppone la sua esistenza reale ed attuale, con l’esercizio di tutte le attività domestiche che godono della tutela della legge penale. L’attualità dell’uso, cui è collegato il diritto alla tutela della libertà individuale, sotto il profilo della libertà domestica, non implica la sua continuità e, pertanto, non viene meno in ragione dell’assenza, più o meno prolungata nel tempo, dell’avente diritto, la quale, qualora non sia accompagnata da indici rivelatori di un diverso divisamento, non comporta affatto, di per se sola, la volontà di non tornare ad accedere all’abitazione e meno che mai quella di abbandonare definitivamente il domicilio (in applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto che integrasse il reato di cui all’art. 614 la condotta dell’imputato che si era introdotto all’interno di una abitazione, contro la volontà del titolare, effettuando opere di demolizione di un muro seguite dall’apertura di una porta, comunicante con il proprio adiacente studio professionale, il tutto in assenza del proprietario per ricovero ospedaliero dovuto a grave malattia, conclusasi con il decesso).
Deve ritenersi pienamente configurabile il reato di violazione di domicilio, nel caso di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali dello studio di un libero professionista il quale eserciti compiti che si inseriscono in un’attività procedimentale di rilevanza pubblicistica; ed invero, l’esercizio di tali compiti, da parte del libero professionista, non comporta la perdita della qualità di luogo non aperto indiscriminatamente al pubblico del suo studio professionale e non priva il professionista stesso del diritto di escludere dall’ingresso dei propri locali – o di invitare ad allontanarsene – le persone che ritenga di non ammettere, per qualunque motivo non contrario alla legge (Sez. 5, 879/1997).
Nella violazione di domicilio, il diritto di querela spetta non solo al proprietario dell’immobile, ma anche a chi, avendone la disponibilità, subisce, con l’introduzione invito domino di altro soggetto, una lesione del diritto di libertà domestica che gli spetta in tale sua qualità (Sez. 1, 864/1996).
Rapporti con altre fattispecie
L’assorbimento del reato di violazione di domicilio in quello di ragion fattasi si verifica solo quando l’esercizio del preteso diritto si concreta nel semplice ingresso e nella sola permanenza invito domino nella altrui abitazione (o negli altri luoghi indicati dall’art. 614), mentre quando l’agente si introduce nei luoghi predetti contro la volontà del titolare del diritto di esclusione, al fine di asportare cose che egli ritiene aver diritto di prendere, perché di sua proprietà, e la introduzione sia avvenuta con violenza sulle cose o sulle persone, egli infrange sia le disposizioni concernenti la inviolabilità del domicilio, sia quelle che vietano la tutela arbitraria delle proprie ragioni (Sez. 5, 8996/2001).