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Art. 613-ter - Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (1)

1. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

(1) Articolo inserito dall’art. 1, comma 1, L. 110/2017.

Rassegna di giurisprudenza

In linea di principio, per stabilire se una determinata forma di maltrattamento debba essere definita tortura, la Corte deve tenere presente la distinzione operata dall’articolo 3 tra questa nozione e quella di trattamenti inumani o degradanti. Come la Corte ha già osservato, questa distinzione sembra essere stata sancita dalla Convenzione per marchiare di una particolare infamia alcuni trattamenti inumani deliberati che provocano sofferenze estremamente gravi e crudeli. Il carattere acuto delle sofferenze è «per la sua stessa natura relativo; esso dipende dai dati della causa considerati complessivamente, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o psichici nonché, a volte, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute della vittima, ecc.».

Oltre alla gravità dei trattamenti, la «tortura» implica una volontà deliberata, come riconosciuto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, entrata in vigore il 26 giugno 1987 nei confronti dell’Italia, che definisce la «tortura» come qualsiasi atto con il quale vengono intenzionalmente inflitti a una persona un dolore o delle sofferenze acute allo scopo, soprattutto, di ottenere dalla stessa informazioni, di punirla o di intimidirla.

In alcuni casi, i fatti di causa hanno portato la Corte a ritenere che i maltrattamenti in questione dovessero essere definiti «tortura» dopo aver applicato congiuntamente i due criteri sopra menzionati, ossia la gravità delle sofferenze e la volontà deliberata. In alcune cause la Corte, nel suo ragionamento, ha basato la constatazione di «tortura» non tanto sul carattere intenzionale dei maltrattamenti, quanto piuttosto sul fatto che essi avevano «provocato dolori e sofferenze acuti» e che rivestivano «un carattere particolarmente grave e crudele».

In altre sentenze, essa ha attribuito un peso particolare al carattere gratuito delle violenze commesse nei confronti del ricorrente, detenuto, per giungere ad una constatazione di «tortura». In alcune cause relative a violenze commesse da agenti di polizia in occasione di arresti, la Corte ha esaminato anche la questione di stabilire se i maltrattamenti controversi fossero costitutivi di «tortura» nel senso dell’articolo 3 della Convenzione.

Tuttavia, essa non ha concluso in tal senso, alla luce del fatto che lo scopo degli agenti di polizia non era stato quello di estorcere delle confessioni al ricorrente, e in considerazione della breve durata delle violenze commesse in un contesto di particolarmente tensione. Infine, nella causa Gäfgen, la Corte ha tenuto conto: a)  della durata del maltrattamento inflitto al ricorrente, ossia circa dieci minuti; b)  degli effetti fisici o psichici che questo trattamento aveva avuto sul ricorrente; la Corte ha ritenuto che le minacce di maltrattamenti avessero suscitato in quest’ultimo una paura, un’angoscia e delle sofferenze psichiche considerevoli, ma non conseguenze a lungo termine; c)  della questione di stabilire se il maltrattamento fosse intenzionale o meno; la Corte ha ritenuto che le minacce non fossero un atto spontaneo ma fossero state premeditate e concepite in maniera deliberata e intenzionale; d)  dello scopo perseguito dal maltrattamento e del contesto in cui era stato inflitto; la Corte ha sottolineato che gli agenti di polizia avevano minacciato il ricorrente di maltrattamenti allo scopo di estorcergli informazioni sul luogo in cui si trovava un bambino rapito e che essi credevano ancora vivo, ma in grave pericolo.

Perciò la Corte, pur tenendo conto della «motivazione che ispirava il comportamento degli agenti di polizia e l’idea che essi [avevano] nell’intento di salvare la vita di un minore», ha giudicato che il metodo di interrogatorio al quale il ricorrente era stato sottoposto nelle circostanze della presente causa era stato sufficientemente grave per essere qualificato come un trattamento inumano vietato dall’articolo 3, ma non aveva avuto il livello di crudeltà richiesto per raggiungere la soglia della tortura.

Nella presente causa, la Corte non può ignorare che, secondo la Corte di cassazione, le violenze nella scuola Diaz-Pertini, di cui è stato vittima il ricorrente, erano state esercitate con finalità «punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime» e che le stesse potevano definirsi «tortura» ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione contro la tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

Inoltre, dal fascicolo risulta che il ricorrente è stato aggredito da agenti che lo hanno preso a calci e colpi di manganello tipo tonfa, considerato potenzialmente letale dalla sentenza di appello, e che è stato colpito molte volte in varie parti del corpo. I colpi inferti al ricorrente gli hanno causato fratture multiple (dell’ulna destra, dello stiloide destro, del perone destro e di varie costole) che hanno causato un ricovero di quattro giorni, una incapacità temporanea superiore a quaranta giorni, un intervento chirurgico durante il ricovero suddetto nonché un intervento alcuni anni dopo; il ricorrente ne ha mantenuto una debolezza permanente del braccio destro e della gamba destra (paragrafi 34-35 e 155 supra). Le conseguenze fisiche dei maltrattamenti subiti dal ricorrente sono dunque importanti. Non possono essere sottovalutati nemmeno i sentimenti di paura e di angoscia suscitati nel ricorrente.

Essendosi rifugiato in un riparo notturno, il ricorrente è stato svegliato dal rumore causato dall’irruzione della polizia. Oltre ai colpi subiti, ha visto gli agenti della polizia colpire altri occupanti senza alcun motivo apparente. Insomma, non si può negare che i maltrattamenti commessi nei confronti del ricorrente abbiano «provocato dolori e sofferenze acuti» e siano stati «di natura particolarmente grave e crudele». La Corte rileva anche l’assenza di un qualsiasi nesso di causalità tra la condotta del ricorrente e l’uso della forza da parte degli agenti di polizia. Pertanto, la presente causa si distingue dalle cause nelle quali l’uso (sproporzionato) della forza da parte degli agenti di polizia era da mettere in relazione con atti di resistenza fisica o tentativi di fuga. I maltrattamenti in contestazione nella presente causa sono dunque stati inflitti al ricorrente in maniera totalmente gratuita e non possono essere considerati un mezzo utilizzato in maniera proporzionata da parte delle autorità per raggiungere lo scopo perseguito.

A questo proposito, si deve ricordare che l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini doveva essere una perquisizione: la polizia sarebbe dovuta entrare nella scuola, dove il ricorrente e gli altri occupanti si erano rifugiati legittimamente, per cercare elementi di prova che potessero portare all’identificazione dei membri dei black bloc, autori dei saccheggi nella città e, se del caso, al loro arresto. Ora, andando oltre qualsiasi considerazione sugli indizi riguardanti la presenza di black bloc nella scuola Diaz-Pertini la sera del 21 luglio, le modalità operative seguite in concreto non sono coerenti con lo scopo dichiarato dalle autorità: la polizia ha fatto irruzione forzando la griglia e le porte di ingresso della scuola, ha picchiato quasi tutti gli occupanti e ha rastrellato i loro effetti personali, senza nemmeno cercare di identificarne i rispettivi proprietari.

L’operazione controversa doveva essere condotta da una formazione costituita per la maggior parte da agenti appartenenti a un reparto specializzato nelle operazioni «antisommossa». Questa formazione, secondo le spiegazioni fornite dalle autorità, doveva «mettere in sicurezza» l’edificio, ossia svolgere un compito che è più affine a una obbligazione di risultato che a una obbligazione di mezzi. Non risulta che agli agenti fossero state impartite direttive riguardanti l’uso della forza. La polizia ha attaccato immediatamente delle persone chiaramente inoffensive all’esterno della scuola. Gli agenti non hanno cercato in nessun momento di discutere con le persone che avevano trovato legittimamente rifugio nell’edificio in questione né di farsi aprire le porte che queste persone avevano legittimamente chiuso, preferendo subito sfondarle.

Infine, essa ha sistematicamente picchiato tutti gli occupanti in tutti i locali dell’edificio. Pertanto, non si può ignorare il carattere intenzionale e premeditato dei maltrattamenti di cui il ricorrente è stato vittima. In conclusione, considerate nel complesso le circostanze sopra esposte, la Corte ritiene che i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini debbano essere qualificati come «tortura» nel senso dell’articolo 3 della Convenzione (Corte EDU, Sez. 4, 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia).