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Art. 110 - Pena per coloro che concorrono nel reato

1. Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti.

Rassegna di giurisprudenza

Requisiti del concorso

Ai fini della prova del contributo fornito da un soggetto nella commissione di un reato, il giudice di merito deve dare conto degli elementi fattuali dai quali ricavare l’esistenza di una reale partecipazione nella fase preparatoria o esecutiva del reato, precisando sotto quale forma essa si sia concretamente manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività delittuose poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta concorsuale con l’indifferenza del suo manifestarsi, conformemente alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110, con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà» (SU, 45276/2003, richiamata adesivamente da Sez. 1, 44/2019).

In tema di concorso di persone nel reato, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, fermo restando l'obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell'esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. 5, 4837/2022).

Affinché una condotta sia ritenuta punibile a titolo di concorso in un determinato reato, ai sensi dell’art. 110, sono necessari il contributo causale (materiale o semplicemente morale o psichico) e il dolo richiesti per il reato medesimo. Ne consegue che quando tali condizioni si siano verificate in relazione al delitto di associazione per delinquere sono integrati gli estremi della partecipazione a detta associazione; mentre, allorché le dette condizioni non si siano verificate, il fatto potrà integrare gli estremi di altri reati (corruzione, favoreggiamento o altro), ma non quello di concorso in associazione per delinquere. Dall’esclusione della configurabilità del concorso materiale nel delitto di associazione per delinquere non necessariamente discende l’esclusione della responsabilità dell’agente per il delitto associativo, in quanto spetta al giudice di merito valutare se gli elementi posti a base dell’erroneamente ritenuto suo concorso giustifichino l’accusa di partecipazione al sodalizio criminoso, e cioè la sussistenza di un contributo causale alla realizzazione dei suoi scopi e l’adesione all’associazione stessa, anche se in relazione a un periodo di tempo relativamente breve: e ciò prescindendo dal fatto che l’associazione possa considerare gli adepti come non partecipi, in quanto non sottoposti a particolari riti di affiliazione, giacché della sussistenza dell’associazione e della partecipazione ad essa di singoli soggetti si deve giudicare in base ai principi di legge in materia e non in base alle regole stabilite dall’associazione per delinquere (Sez. 3, 1915/2019).

In tema di concorso di persone nel reato il contributo causale del concorrente morale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa e quindi anche nell’agevolazione alla sua preparazione o consumazione, tuttavia il giudice di merito deve motivare adeguatamente sulla prova dell’esistenza di una “reale” partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. 5, 37329/2019).

In tema di concorso nel reato, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo, in quanto l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso, talché assume carattere decisivo l’unitarietà del "fatto collettivo" realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Sez. 7, 5567/2019).

Ai fini della compartecipazione nel delitto ai sensi dell'art. 110 è necessario che ciascun correo fornisca un contributo, materiale o "morale" - nel senso, quantomeno, del rafforzamento dell'altrui proposito criminoso - nella realizzazione collettiva del fatto. Tale contributo può manifestarsi in forma sia tipica, ossia realizzando, in tutto o in parte, la condotta vietata, ovvero atipica, e quindi ponendo in essere una condotta che non rientra nello schema legale della fattispecie incriminatrice ma che, proprio in forza dell'art. 110, è punibile se ed in quanto assume una valenza causale rispetto alla commissione del fatto. Tra i contributi atipici, può essere annoverata anche la presenza del correo sul luogo e nel momento di consumazione del reato, alla condizione, però, che essa sia servita a fornire all'autore del fatto stimolo all'azione o maggior senso di sicurezza nel proprio agire, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa (Sez. 3, 22319/2021).

In tema di concorso di persone nel reato, il contributo causale del concorrente morale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso), sempre che il giudice di merito assolva all’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. 1, 7643/2015, richiamata da Sez. 5, 4773/2019).

A fronte delle forme differenziate e atipiche nelle quali può manifestarsi il contributo causale del concorrente nel reato, assorbente rilievo deve riconnettersi all’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. 4, 1236/2018).

Il giudice di merito non è tenuto a precisare il ruolo specifico svolto da ciascun concorrente nell’ambito dell’impresa criminosa, essendo sufficiente l’indicazione, con adeguata e logica motivazione, delle prove sulle quali ha fondato il libero convincimento dell’esistenza di un consapevole e volontario contributo, morale o materiale, dato dall’agente alla realizzazione del reato (Sez. 2, 48029/2016).

Ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato. Infatti, ai fini della rilevanza causale della condotta partecipativa è sufficiente che la stessa si manifesti in forme idonee ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, facilitandone l’esecuzione e aumentando la possibilità della produzione del reato (Sez. 2, 4150/2019).

Il contributo causale del concorrente morale si può manifestare attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) e tuttavia ciò non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110, con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Sez. 6, 6335/2019).

La presenza fisica allo svolgimento dei fatti integra un’ipotesi di concorso morale penalmente rilevante qualora si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del reato e da agevolare la sua opera, sempre che il concorrente si sia rappresentato l’evento del reato ed abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore materiale, non assumendo invece univoca rilevanza allorquando si mantenga in termini di mera passività o connivenza; perché possa ravvisarsi un concorso morale nel fatto materialmente perpetrato da altri, la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato può essere sufficiente quando, palesando chiara adesione alla condotta dell’autore del fatto, sia servita a fornirgli stimolo all’azione e un maggiore senso di sicurezza (Sez. 5, 31811/2020).

Il concorso di persone nel reato implica, tra i suoi requisiti di applicazione, che ciascuno dei concorrenti agisca per una finalità unitaria con la consapevolezza del ruolo svolto da ognuno dei partecipanti e la volontà di agire in comune. E se taluno decida di subentrare a progetto criminoso già iniziato, occorre una più attenta motivazione sul dolo di partecipazione, occorrendo la dimostrazione che il subentrante conosca quanto già sia stato realizzato dai singoli compartecipi, quanto ciascuno debba ancora da realizzare e quali siano i propri specifici compiti (Sez. 2, 4944/2019).

Differenze tra concorso di persone e associazione a delinquere

La diagnosi differenziale fra l'ipotesi del concorso, ancorché realizzatosi fra numerosi individui, di persone nella commissione di una pluralità di reati, sia pure fra loro connessi per effetto della unicità del disegno criminoso, e quella della esistenza di una struttura associativa stabile finalizzata alla realizzazione di reati è esperibile in funzione dell’esistenza di una molteplicità di elementi sintomatici dei quali, il principale, è, al di là dell'accordo volto alla commissione anche di una pluralità di reati, la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati. Della sussistenza di tale immanente vincolo sono, a loro volta indici, la esistenza di una struttura organizzata fra i vari aderenti, con l’attribuzione ad essi, anche sotto il profilo della scala gerarchica di costoro, di ruoli ben definiti e predeterminati in seno alla associazione, l'apprestamento di comuni mezzi materiali per la realizzazione, nell'interesse di tutti i partecipanti, dei reati-fine, la disponibilità della struttura associativa a prestare assistenza agli aderenti anche nella ipotesi in cui questi siano, per cause contingenti, non in condizione di assicurare la loro partecipazione ai fini associativi, la predisposizione di una comune strategia criminale, tendenzialmente indirizzata a prevenire eventuali condizioni di conflittualità interna o comunque di carenza di coordinazione fra i vari associati, la previsioni di forme di composizione, frequentemente affidate alla carismatica autorevolezza interna riconosciuta ai capi della associazione, di tali eventuali conflittualità (Sez. 3, 7114/2022).

Differenze tra concorso ordinario e concorso anomalo

Il concorso anomalo postula che il soggetto non debba "volere" né direttamente, né indirettamente, nei medesimi termini dell’esecutore materiale, il fatto compiuto; diversamente si verserebbe nell’ambito del concorso diretto ex art. 110 (Sez. 1, 1534/2019).

L’espressa adesione del concorrente a un’impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all’uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga.

Ne consegue che ricorre un’ipotesi di concorso ordinario a norma dell’art. 110 e non quella di concorso cosiddetto anomalo, ai sensi del successivo art. 116, nell’aggressione consumata con uso di tali armi in relazione all’effettivo verificarsi di qualsiasi evento lesivo del bene della vita e dell’incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, quantunque concretamente riconducibile alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell’evento dannoso (SU, 337/2009, richiamata adesivamente da Sez. 1, 462/2019).

In tema di concorso di persone nel reato, sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo qualora l’evento ulteriore, benché prevedibile in quanto collegato da un nesso di pura eventualità rispetto al delitto base programmato, non sia stato dall’agente voluto neppure nella forma del dolo indiretto; ricorre, invece, l’ipotesi del concorso ex art. 110, ove l’agente abbia effettivamente previsto l’evento o comunque accettato il rischio del suo verificarsi.

L’agente che non abbia voluto il reato diverso, pur avendolo previsto e ritenuto sicuramente evitabile, risponde pertanto di un reato doloso sulla base di un atteggiamento colposo, consistente nell’essersi affidato, per realizzare l’altra condotta concorsualmente prevista con dolo, anche all’attività altrui che, come tale, non è finalisticamente controllabile, di guisa che  al cospetto di un’azione collettiva  si dilata l’onere di previsione a carico dell’aderente al progetto comune, specie nel caso di azione violenta contro una persona (Sez. 5, 5689/2019).

La giurisprudenza ha più volte evidenziato che la "parificazione" prevista dall’art. 117  secondo la prevalente interpretazione, applicabile solo quando il concorrente cd. extraneus non abbia consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali del concorrente cd. intraneus, o dei rapporti fra questi e l’offeso, in presenza delle quali o dei quali muta il titolo di reato, perché altrimenti sarebbe configurabile il concorso per entrambi a norma dell’art. 110  trova fondamento nella necessità di evitare che alcuni concorrenti siano puniti per un reato ed altri per un diverso titolo unicamente perché abbiano interferito particolari qualità di uno di essi o particolari rapporti di costui con la persona offesa.

Di conseguenza, quando il mutamento del reato è determinato da circostanze diverse da quelle costituite dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l’offeso, ed il soggetto a carico del quale è configurabile la responsabilità per la fattispecie meno grave non ha consapevolezza degli elementi qualificanti la vicenda in modo deteriore per l’altro concorrente, la "parificazione" del titolo di responsabilità non può verificarsi né a norma dell’art. 110, né ex art. 117; sarà semmai applicabile la disciplina di cui all’art. 116, ma sempre che ne sussistano i necessari presupposti, anche con riferimento al profilo soggettivo.

Ora, l’inapplicabilità della disciplina di cui agli artt. 116 e 117, che ha la funzione di "aggravare" la responsabilità per uno o più dei concorrenti anche in deroga agli ordinari principi in tema di colpevolezza, non può, salvo l’ipotesi di diversa indicazione normativa, comportare addirittura una "parificazione" in mitius a vantaggio di uno o più di essi: le due disposizioni appena citate risultano escludere, in linea generale, che l’istituto del concorso di persone nel reato possa dare luogo ad una "mitigazione" della responsabilità penale, e rendono quindi ragionevole, in caso di loro inapplicabilità, correlare il titolo della stessa, per ciascun agente, al fatto al medesimo riferibile oggettivamente e soggettivamente, nel rispetto del principio di cui all’art. 27, primo comma, Cost. (Sez. 6, 2157/2019).

Il riconoscimento della fattispecie del concorso anomalo richiede tre necessari tre requisiti: l’adesione dell’agente a un reato concorsualmente voluto, la commissione, da parte di altro concorrente, di un reato diverso o più grave e l’esistenza di un nesso causale, anche psicologico, fra l’azione del compartecipe al reato inizialmente voluto e il diverso o più grave reato poi commesso da altro concorrente, che deve essere prevedibile, in quanto logico sviluppo di quello concordato, senza, peraltro, che l’agente abbia effettivamente previsto o ne abbia accettato il rischio, nel qual caso vi sarebbe ordinario concorso ex articolo 110 (Sez. 1, 50436/2018).

La fattispecie disciplinata dall’art. 116 nella sua formulazione letterale propone un istituto rigorosamente ancorato alla concezione causale del concorso di persone nel reato. Quel principio ne enuclea, indubbiamente, il fondamento; ciò, tuttavia, non significa che la volontà e l’atteggiamento psicologico, nell’istituto de quo, siano recessivi e non assumano portata egualmente determinante ai fini della delimitazione degli ambiti di responsabilità dei singoli concorrenti. L’art. 116 - che non contempla un’ipotesi di pura responsabilità oggettiva - postula che l’evento più grave debba essere voluto da almeno uno dei concorrenti: la norma incentra la costruzione strutturale del paradigma sulla realizzazione di un "reato diverso".

È un sintagma "aperto" che risulta idoneo ad includere i fatti legati da una relazione specifica tra il delitto eseguito e quello, di converso ed effettivamente, voluto da uno dei partecipi. Deve, innanzitutto, osservarsi che, allorquando il reato "diverso" rappresenti il mezzo o la modalità di esecuzione necessaria, per il conseguimento del risultato collettivamente voluto, esso finisce per rientrare ex se nel programma obiettivo comune. In questi casi non sembra che residui spazio concreto per pensare all’applicazione dell’art. 116.

Il concorso anomalo è escluso in tutte le ipotesi in cui il reato "diverso" si pone in un nesso "relazionale" specifico rispetto al piano comune, con crismi di tale connessione strumentale o teleologica, che lo fanno assurgere a "mezzo commissivo esclusivo" dell’ulteriore delitto programmato. In questi casi il concorso si qualifica attraverso la fattispecie di cui all’art. 110, poiché l’adesione all’azione collettiva porta con sé necessariamente la previsione e l’accettazione della modalità d’attuazione dell’iter criminis comune e, dunque, del delitto accessorio ed ulteriore attraverso cui la condotta collettiva deve necessariamente passare per conseguire l’obiettivo finale dell’azione concordata.

Si è, piuttosto, al cospetto di un "reato diverso" allorquando rilevino fattispecie collegate da un nesso di pura eventualità a quella da realizzare o che siano in possibile e consequenziale sviluppo di essa, anche avuto riguardo alla natura dei beni giuridici messi in pericolo o lesi. In questi casi il vincolo relazionale tra fattispecie non è retto da nessi di collegamento necessari ed il reato ulteriore e diverso accede al programma comune, si è detto, con carattere di pura eventualità. In questo ambito va enucleata l’ipotesi in cui il reato diverso sia frutto di eventi o fattori del tutto eccezionali ed atipici. È pacifico che in questi casi si interrompa lo stesso vincolo concausale ed il verificarsi del fatto "non voluto dal concorrente" è mosso da un’eziologia disancorata dall’azione collettiva, tale da risalire e collegarsi o al solo gesto di colui che ne risulti autore ovvero al distinto fattore estraneo che lo produce.

Là dove ciò non accada e la causalità collettiva esprima, piuttosto, un determinismo eziologico nella dinamica lesiva del bene protetto è il contenuto della posizione subiettiva ad orientare nella qualificazione del concorso a carico del partecipe. Perché ricorra concorso anomalo è richiesto un logico sviluppo e la prevedibilità in concreto, come possibile epilogo rispetto al fatto programmato, del delitto diverso. Si deve, tuttavia, trattare di un evento voluto, con dolo diretto o indiretto almeno da taluno dei concorrenti e di un risultato causalmente legato all’azione plurisoggettiva.

La ratio del meccanismo d’imputazione estensiva è evidente: se si agisce in gruppo si aderisce alle conseguenze che sono legate, in fatto, in un logico e naturale divenire, all’azione programmata. Si tratta di conseguenze che, pur non volute direttamente dal singolo agente sono, comunque, annesse all’azione oggetto di programmazione. Là dove si programmi un delitto che rientra nell’ambito di un’azione violenta orientata alla persona la progressione e la degenerazione nell’evento lesivo maggiore o, addirittura, nella morte è ipotesi plausibile. Ciò perché la stessa aggressione al bene materiale (integrità fisica), che si è accettato di mettere in discussione, può naturalmente progredire verso una lesività di maggiore intensità, nel perimetro di un bene giuridico omogeneo (Sez. 1, 57948/2018).

 

Differenze tra concorso e connivenza

La distinzione tra l'ipotesi della connivenza non punibile e il concorso nel delitto, con specifico riguardo alla disciplina degli stupefacenti, va ravvisata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel concorso di persone ex art. 110, è invece richiesto un consapevole contributo che può manifestarsi anche in forme che agevolino il proposito criminoso del concorrente, garantendogli una certa sicurezza o, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale poter contare (Sez. 3, 21264/2022).

La qualificazione della condotta è possibile come atteggiamento puramente connivente allorquando non si traduca in un fatto o in un’azione di valenza attiva. La connivenza va essenzialmente definita come comportamento a struttura negativa che si risolve nella consapevolezza che altri stia commettendo un reato o lo abbia commesso. Là dove la condotta sia collegata alla adesione all’azione delittuosa non attraverso la valorizzazione d’un dolo del post-fatto, e cioè attraverso l’adesione postuma alla altrui condotta, sorretta dunque da cosiddetto dolo successivo, ma come indicatore di rappresentazione e volizione del fatto tipico ab initio, cui si contribuisce con un apporto causalmente efficiente si è nell’ambito della fattispecie di concorso nel reato e non in quello della condotta consapevole, ma puramente negativa (di cosiddetta connivenza) (Sez. 1, 10548/2019).

Il concorso nel reato esige un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l’adesione morale, l’assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale. Pertanto, ove l’agente abbia mantenuto un comportamento «meramente passivo», privo cioè di qualsivoglia efficienza causale in ordine alla realizzazione della condotta detentiva altrui, il concorso di persone nel reato è escluso (Sez. 6, 25136/2018).

 

Differenze tra concorso di persone e partecipazione ad un’associazione a delinquere

Il discrimen fra la partecipazione all’associazione per delinquere ed il concorso di persone nel reato si individua nel diverso carattere dell’accordo criminoso, il quale nella seconda fattispecie è circoscritto alla realizzazione di uno o più reati e si esaurisce nella loro consumazione, mentre nell’associazione per delinquere è diretto all’attuazione di un generale e continuativo programma di delinquenza e non viene meno dopo che i reati sono stati commessi, continuando a sussistere per l’ulteriore attuazione del programma stesso.

Ne discende che, affinché si possa affermare la sussistenza dei presupposti dell’appartenenza all’associazione, è necessario provare l’integrazione dell’elemento aggiuntivo e distintivo del delitto di cui all’art. 74 DPR 309/1990, rispetto alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e spaccio di stupefacenti, il quid pluris che si individua nel carattere dell’accordo criminoso, contemplante la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti, con permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti, i quali, anche al di fuori dei singoli reati programmati, assicurino la propria disponibilità duratura ed indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso del sodalizio (Sez. 6, 27433/2017, richiamata da Sez. 6, 4846/2019).

La giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di individuare l’elemento aggiuntivo e distintivo del delitto di cui all’art. 74 DPR 309/1990 rispetto alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e spaccio di stupefacenti, nell’oggetto dell’accordo criminoso consistente nella commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti e nella stabilità del vincolo associativo che deve essere sostenuta da un’organizzazione che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso, attraverso l’offerta disponibilità degli associati, duratura ed indefinita nel tempo, nel perseguimento del medesimo programma criminoso.

La prova della permanenza del vincolo può darsi anche per accertamento di fatti concludenti tra cui rientrano le stesse modalità di realizzazione dei reati-fine, il loro ripetersi, i rapporti ed i continui contatti tra i loro autori, i beni utilizzati per le singole operazioni, i modelli organizzativi in uso che, strutturati in senso verticale, o gerarchico, oppure orizzontale, o con distribuzione dei compiti tra associati, devono essere finalizzati al perseguimento del comune obiettivo (Sez. 6, 18055/2018).

Ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, nella cui indistinta categoria è ricompresa quella comune, quella di tipo mafioso o, ancora, quella finalizzata al narcotraffico, nella premessa che non è sempre necessario che il vincolo si instauri nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato e per fini di esclusivo vantaggio dell’organizzazione stessa, ben potendo, al contrario, assumere rilievo forme di partecipazione destinate ab origine ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest’ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, ben può rientrare tra i modelli organizzativi adottabili quello che veda una figura di riferimento partecipare agli altri componenti del sodalizio collaudate modalità di azione per estensione di una rete operativa in atto (Sez. 6, 1719/2019).

 

Concorso esterno in associazione mafiosa

Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”. Per l’integrazione del reato è necessario che: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale, risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. A tal fine occorre provare la controprestazione da parte del politico e cioè individuare le concrete condotte successivamente poste in essere per favorire l’associazione mafiosa (Sez. 5, 2541/2021).

Le pronunzie intervenute nel corso del tempo da parte delle Sezioni unite (negli anni 1994, 2002 e 2005) hanno ormai radicato, sia pure con differenti accentuazioni di alcuni profili, il dato giuridico della ammissibilità del concorso ex art. 110 anche in riferimento alla fattispecie plurisoggettiva di associazione, nel senso che assume la qualità di concorrente «esterno» nel reato di associazione di stampo mafioso la persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (SU, 22327/2003).

A ben vedere, la rilevanza e la stessa verificabilità processuale delle condotte di concorso esterno è da sempre strettamente correlata  tanto sul piano teorico che su quello ricostruttivo  alla esatta perimetrazione delle condotte di partecipazione, nel senso che lì dove l’elemento di prova si risolva in un rassicurante «indicatore» dell’avvenuto inserimento del soggetto, con carattere di tendenziale stabilità e assunzione di un ruolo, nella compagine associativa si avrà la partecipazione, mentre il concorso esterno è necessariamente ancorato ad un modello «causalmente orientato» e presuppone da un lato la presa d’atto del non/inserimento del soggetto nel gruppo, dall’altro la ricostruzione di una condotta capace di realizzare un incremento tangibile del macro-evento rappresentato dalla esistenza e permanenza della associazione (le modalità alternative di ricostruzione delle due diverse ipotesi delittuose sono state di recente evidenziate con particolare chiarezza da Sez. 6, 16958/2014, nonché da Sez. 6, 8674/2014).

Si tratta dunque di una condotta, quella del concorrente, che per essere punibile deve essere alimentata dal dolo (diretto ma generico) inteso come previa rappresentazione e accettazione del nesso funzionale tra la propria azione e il raggiungimento (anche parziale) degli scopi della associazione (tra le molte, Sez. 5, 15727/2012, ove si è precisato che il rafforzamento del sodalizio può non essere l’unico o il primario obiettivo perseguito dall’agente, potendo concorrere con uno scopo individuale, ma deve essere previsto, accettato e perseguito come risultato quantomeno «altamente probabile» della propria condotta).

Se, infatti, l’evento (in senso giuridico e materiale) che la norma incriminatrice di cui all’art.416-bis tende a reprimere è l’esistenza ed operatività concreta di un «consorzio umano organizzato» (l’associazione mafiosa) avente determinate caratteristiche tipiche (sul piano degli scopi e delle modalità utilizzate per conseguirli) è pacifico che rispetto a tale dato fenomenico debbano assumere rilievo penalistico non soltanto le condotte direttamente espressive di «intraneità» (in quanto dimostrative della connaturale ripartizione di compiti, attribuiti agli associati in senso stretto), ma altresì tutte quelle condotte che, pur poste in essere da soggetti «esterni», contribuiscano in modo oggettivamente rilevante (e soggettivamente consapevole) alla realizzazione o al permanere dell’evento in questione.

Il tratto di maggiore problematicità teorica e ricostruttiva  nelle decisioni che hanno affrontato il tema  consiste nel criterio di apprezzamento della idoneità causale (della condotta posta in essere dal preteso concorrente esterno) in rapporto alla integrazione o meno dell’evento. La connotazione innovativa della decisione emessa dalle Sezioni unite in data 12.7.2005 (ric. Mannino) sta infatti, come è noto, nella necessità di un apprezzamento concreto di tale aspetto (ovviamente anche sulla base di un rassicurante ragionamento indiziario) con verifica processuale che tende a spostarsi dalla «prospettazione dell’agente» (valutazione ex ante) alla constatazione ex post della «efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente» (parla espressamente di accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza della condotta nella vita e nella operatività del sodalizio criminoso Sez. 6, 542/2007, relativa al caso Contrada).

Ora, tale sottolineatura è figlia di una condivisibile impostazione teorica  realizzata nella decisione Mannino del 2005  tesa a far rifluire nella costruzione dell’istituto i principi essenziali del concorso di persone nel reato, tra cui assume un indubbio rilievo la previsione normativa di cui all’art. 115 secondo cui non risulta punibile il mero «tentativo di concorso» ossia il semplice accordo per commettere un reato o l’istigazione accolta, ma non seguita dalla commissione del reato.

Da qui la necessità di un criterio oggettivo idoneo al rafforzamento della tipicità (l’efficacia causale del contributo per la realizzazione del «medesimo reato», così da poter affasciare la condotta del concorrente esterno con quella degli associati in rapporto al permanere della lesione del bene protetto, sub specie integrità dell’ordine pubblico) e la richiesta direzione del dolo, correlata alla funzionalità della condotta rispetto al perseguimento (in una con il fine individuale, che sempre muove i comportamenti umani) di almeno una delle finalità descritte dalla norma incriminatrice.

Se dunque l’evento del reato di associazione mafiosa è identificabile nella conservazione o nel rafforzamento dell’organismo criminoso e se l’adesione al modello causalmente orientato impone di individuare, nei casi in rilievo, un effettivo «raggiungimento dello scopo», è evidente che la ricostruzione processuale dell’evento deve porsi in stretta correlazione con il perseguimento delle finalità tipiche del reato associativo di cui si discute e pertanto con il catalogo offerto dal comma 3 dell’art. 416-bis (commettere delitti che siano espressivi del metodo mafioso, acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, appalti o servizi pubblici, realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé od altri etc.).

Con ciò si vuole evidenziare che la condotta del concorrente esterno  per essere punibile  non deve tendere ad un incremento della semplice potenzialità operativa dell’organismo criminoso (altrimenti si rientra nel paradigma di punibilità del mero accordo, con ricadute percepibili solo in ambito psicologico, non sufficiente a realizzare l’evento descritto nella decisione Mannino), ma deve porsi come «frammento» (la realizzazione dello scopo è necessariamente parziale e frammentaria) di una concreta utilità per la realizzazione di una delle molteplici attività espressive del programma criminoso, così da realizzare una contribuzione «percepibile» al mantenimento in vita dell’organismo criminale.

Vi sono infatti compiti che - per le loro caratteristiche  richiedono, in realtà, il loro affidamento (anche continuativo) proprio a soggetti non associati, posto che per il raggiungimento degli scopi tipici del sodalizio mafioso  così come per garantirne la stessa esistenza  è necessaria una costante «interazione» tra il gruppo criminoso e persone disposte a realizzare  per finalità personali concorrenti  attività strumentali che vanno dalla realizzazione di lavori pubblici in modo solo apparentemente lecito (ma in realtà strumentale anche agli interessi del sodalizio, cui viene restituita una parte dell’utile di impresa) alla protezione della latitanza degli esponenti di rilievo del sodalizio, al reinvestimento in attività ad oggetto lecito delle risorse accumulate, tanto per fare qualche esempio, in ciò accedendo alla realizzazione dell’offesa al bene giuridico protetto.

La verifica della effettiva efficacia causale della condotta con giudizio ex post, una volta esclusa - per citare ancora la decisione Mannino - una impostazione di tipo meramente soggettivistico («..che, operando una sorta di conversione concettuale autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da "rafforzamento" dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato..») richiede indubbiamente l’esame e la ricostruzione  in sede di merito  delle ricadute fattuali della condotta oggetto di analisi, così da poter affermare che la condivisione, da parte del concorrente, delle finalità perseguite dal gruppo abbia comportato un concreto ausilio in una o più vicende specifiche, e così da poter affermare  con la dovuta certezza processuale  che quella condotta sia stata un ingrediente effettivo per la realizzazione di uno degli scopi tipici e dunque per il permanere dell’offesa al bene giuridico protetto (Sez. 1, 452/2019).

Sotto il profilo tecnico-giuridico, la punibilità del concorso eventuale di persone nel reato nasce, nel rispetto del principio di legalità, sancito dall’art. 1 e dall’art. 25, comma 2, della Costituzione, dalla combinazione tra le singole norme penali incriminatrici speciali che tipizzano reati monosoggettivi, e l’art. 110, principio generale del concorso di persone applicabile a qualsiasi tipo di reato.

Nel vigente ordinamento, il concorso di persone nel reato è concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutte le condotte poste in essere dai concorrenti: proprio in virtù di detta unitarietà strutturale, l’evento del reato concorsuale deve essere considerato come effetto della condotta combinata di tutti i concorrenti, anche di quelli che hanno posto in essere atti privi dei requisiti di tipicità. In virtù dell’art. 110 (che ha, dunque, una funzione estensiva dell’ordinamento penale, portato a coprire fatti altrimenti non punibili, ove ciascun concorrente abbia posto in essere non l’intera condotta tipica, ma soltanto una frazione "atipica" di essa), possono, pertanto, assumere rilevanza penale tutte le condotte, anche se atipiche (ovvero singolarmente non integranti quella tipizzata dalla norma penale incriminatrice), poste in essere da soggetti diversi, che, se valutate complessivamente, siano risultate conformi alla condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice, ed abbiano contribuito causalmente alla produzione dell’evento lesivo da essa menzionato.

Come per ogni altra ipotesi di reato concorsuale, quindi, anche il c.d. "concorso esterno" nei reati associativi (il problema non si pone, infatti, per il solo reato di cui all’art. 416-bis) trova la sua giustificazione normativa nella combinazione tra la norma penale incriminatrice (nella specie, l’art. 416-bis) e la disposizione generale di cui all’art. 110, ed è caratterizzato dalle diverse modalità concrete in cui la fattispecie è suscettibile di manifestarsi.

D’altro canto, la stessa Corte costituzionale (sentenza 48/2015) ha recentissimamente ribadito che il "concorso esterno" non è, come postulato dalla Corte EDU nella sentenza Contrada, un reato di creazione giurisprudenziale, ma scaturisce «dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis. e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 110». In realtà, con riguardo alla configurabilità o meno del c.d. "concorso esterno" (od eventuale, ex art. 110) nei delitti associativi, e quindi, per quanto in questa sede più immediatamente rileva, nell’associazione per delinquere di tipo mafioso, il problema tradizionalmente discusso riguardava piuttosto la mera compatibilità dell’estensione ex art. 110 con le singole norme incriminatrici di volta in volta in questione (questo, e non altro, il contrasto devoluto per la prima volta all’esame delle Sezioni unite (SU, 16/1995) come si ricava dall’espressione che segue: «La sezione feriale, investita della questione, rilevata l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza, anche recentissima, di questa suprema corte sulla compatibilità del concorso eventuale con il reato associativo, con ordinanza in data 30 agosto 1994 rimetteva il ricorso alle sezioni unite»).

Soltanto in riferimento a tale problema - ferma la matrice esclusivamente ed inequivocabilmente normativa dell’incriminazione, ove ritenuta, in difetto di ragioni di incompatibilità, ammissibile - è stato, pertanto, attribuito rilievo all’esegesi giurisprudenziale. La dottrina ha tradizionalmente evidenziato l’insussistenza di astratti ostacoli di tipo dogmatico alla configurabilità del concorso eventuale nelle fattispecie plurisoggettive necessarie, pur ammettendo la necessità di valutare se la struttura del singolo reato plurisoggettivo sia compatibile, in concreto, con il concorso eventuale.

Il problema riguardava, in particolare, il solo concorso materiale, poiché non si era mai dubitato della configurabilità di quello morale. L’orientamento che ha negato la configurabilità del concorso esterno non afferma tout court la liceità penale delle condotte ad esso generalmente riconducibili, ma ritiene che queste ultime siano in ampia parte già qualificabili come vere e proprie condotte di partecipazione all’associazione.

Si è, infatti, inizialmente sostenuto, che "potranno essere punibili come associati anche soggetti «esterni» all’associazione criminosa, purché autori di comportamenti che obiettivamente l’avvantaggiano e purché sia presente il relativo elemento soggettivo di partecipazione"; la stessa autorevole dottrina ha, solo in seguito, auspicato, per evitare eccessi di discrezionalità giurisprudenziale, «un intervento legislativo diretto a precisare, mediante la configurazione di una o più fattispecie incriminatrici di parte speciale, le forme di contiguità davvero intollerabili, e perciò meritevoli di repressione penale».

Altra autorevole dottrina, premesso che la condotta di «partecipazione all’associazione» richiede: (a) la permanente messa a disposizione del proprio apporto e l’accettazione da parte dell’associazione, che non richiede forme espresse o addirittura rituali, ma può aver luogo anche per facta concludentia, ha evidenziato che, «così intesa la partecipazione all’associazione, appare chiaro che residua uno spazio per la valutazione di comportamenti che, per il loro carattere episodico, oppure perché provenienti da parte di soggetti non inseriti nell’associazione, non possono essere ricondotti al paradigma della partecipazione interna, ma che pure presentano un rilevante significato per la vita dell’associazione».

Nel medesimo senso, con ineccepibile applicazione dei principi generali comunemente accolti (ma dei quali non sempre chi è intervenuto nel dibattito sulla configurabilità del concorso esterno ha tratto le inevitabili conseguenze dogmatiche), ulteriore autorevole dottrina ha anche osservato che il c.d. concorso esterno è sicuramente configurabile in presenza dei tre requisiti essenziali del concorso eventuale ex articolo 110, ovvero: "(a) l’atipicità della condotta concorsuale rispetto alla fattispecie associativa»; (b) «il contributo, morale o materiale, necessario o agevolatore, occasionale o continuativo, per la costituzione, conservazione o rafforzamento dell’associazione»; (c) «il dolo di concorso, per l’esistenza del quale non è necessario il dolo specifico di perseguire il programma criminoso, ma sufficiente la coscienza e volontà di contribuire alla costituzione, conservazione o rafforzamento dell’associazione, stante il principio della possibilità del concorso con dolo generico nel reato a dolo specifico, purché almeno un altro concorrente agisca con la finalità richiesta dalla norma incriminatrice".

La giurisprudenza è ormai ferma nell’ammettere la configurabilità del concorso esterno nei reati associativi, con riguardo alle condotte consapevolmente volte a vantaggio dell’associazione, ma poste in essere da soggetto che non è, e non vuole essere, organico ad essa.

A tal fine, si richiede che il concorrente esterno: (a) sia privo della affectio societatis e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio (SU, 22327/2003); (b) fornisca, ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, dotato di un’effettiva rilevanza causale, e che quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative del sodalizio o, per le associazioni operanti su larga scala, di un suo particolare settore o ramo d’attività, o di una sua articolazione territoriale (SU, 22327/2003; SU, 33748/2005, per la quale, in particolare, l’efficienza causale in merito alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisce elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, e non è sufficiente una valutazione ex ante del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un suo apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di «certezza processuale», l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente); (c) si rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità del contributo fornito alla societas sceleris, ai fini della realizzazione anche parziale del programma criminoso (SU, 22327/2003): non è necessario, in capo al concorrente esterno, il dolo specifico proprio del partecipe (consistente nella consapevolezza di far parte dell’associazione e nella volontà di contribuire a tenerla in vita e farle raggiungere gli obiettivi prefissati), essendo sufficiente quello generico (che deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla propria condotta alla conservazione od al rafforzamento dell’associazione, agendo nella consapevolezza e volontà di fornire il proprio contributo al conseguimento, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione) (SU, 14 dicembre 1995, e SU, 33748/2005: queste ultime hanno anche evidenziato l’insufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio del verificarsi dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti).

Un’ulteriore pronuncia (Sez. 2,  18797/2012) ha così focalizzato la differenza fra il partecipe all’associazione (intraneus) ed il concorrente esterno (extraneus): (a) sotto il profilo oggettivo, essa va individuata «nel fatto che il concorrente esterno  benché fornisca un contributo che abbia una rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione  non sia inserito nella struttura criminale; (b) sotto il profilo soggettivo, essa va individuata "nel fatto che il concorrente esterno  differentemente da quello interno il cui dolo consiste nella coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione dell’accordo e quindi del programma delittuoso in modo stabile e permanente- sia privo dell’affectio societatis".

Peraltro, nella consapevolezza che detti canoni, astrattamente ineccepibili, possono in concreto risultare di nebulosa applicazione, si è condivisibilmente ritenuto di precisare, in relazione all’elemento materiale del reato associativo, che «l’art. 416-bis incrimina chiunque partecipi all’associazione, indipendentemente dalle modalità attraverso le quali entri a far parte dell’organizzazione criminosa. Infatti, non occorrono atti formali o prove particolari dell’ingresso nell’associazione che può avvenire nei modi più diversi.

La mancata legalizzazione  cioè l’atto formale di inserimento nell’ambito dell’organizzazione criminosa  non esclude, pertanto, che il partecipe sia di fatto in essa inserito e contribuisca con il suo comportamento ai fini dell’associazione; questa Corte, infatti, da tempo, ha chiarito che la prova dell’appartenenza, come intraneus, al sodalizio criminoso può essere dato anche attraverso significativi facta concludentia ove siano idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo».

Il "prendere parte" al fenomeno associativo implica, quindi, sul piano fattuale, «un ruolo dinamico e funzionale in esplicazione del quale l’interessato fornisca uno stabile contributo rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. La suddetta condotta può assumere forme e contributi diversi e variabili proprio perché, per raggiungere i fini propri dell’associazione, occorrono diverse competenze e diverse mansioni ognuna delle quali - svolta da membri diversi - contribuisce, in modo sinergico, al raggiungimento del fine comune».

Ne consegue che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416- bis, è necessaria e sufficiente l’adesione (anche non formale o rituale) al sodalizio, con impegno di mettersi a sua disposizione ricoprendo  in via tendenzialmente stabile  uno specifico ruolo, da cui promani un costante, effettivo e concreto contributo (anche atipico, ovvero di qualsiasi forma e contenuto) finalizzato alla conservazione od al rafforzamento di esso. Generalmente l’attenzione si concentra sull’aspetto più cruento dell’associazione mafiosa ossia sui reati fine (estorsioni, usura, omicidi, traffico di stupefacenti ecc.) che vengono assunti ad indice del fenomeno associativo che sta a monte»; tuttavia, ai fini del raggiungimento degli scopi associativi, risultano non meno importanti le attività poste in essere da soggetti in apparenza al di sopra di ogni sospetto, dotati di specifiche competenze professionali (la c.d. "borghesia mafiosa"), strumentalizzate al fine di consentire al sodalizio mafioso di "dilagare" nel campo della società civile per incrementare ulteriormente le propria potenzialità operative: «questi soggetti  siano essi politici, pubblici funzionali, professionisti o imprenditori  devono ritenersi far parte a pieno titolo (come concorrenti interni) all’associazione mafiosa quando rivestano, nell’ambito della medesima, una precisa e ben definita collocazione, uno specifico e duraturo ruolo  per lo più connesso e strumentale alle funzioni ufficialmente svolte  finalizzato, per la parte di competenza, al soddisfacimento delle esigenze dell’associazione.

In questi casi, ove l’attività svolta da questa particolare categoria di soggetti presenti i caratteri della specificità e continuità e sia funzionale agli interessi e alle esigenze dell’associazione alla quale fornisce un efficiente contributo causale, la partecipazione dev’essere equiparata a quella di un intraneus tanto più ove il soggetto, per la sua stabile attività, consegua vantaggi e benefici economici o altre utilità».

Andrà, pertanto, essere considerato a pieno titolo come partecipante (quanto meno) alla societas sceleris, e non come mero concorrente esterno, il soggetto (appartenente alle categorie suddette) che si sia messo a disposizione del sodalizio assumendo stabilmente, nel suo ambito, il ruolo di elemento di collegamento tra i membri del sodalizio criminale e gli ambienti istituzionali, politici e imprenditoriali: «il contributo di questi soggetti della "borghesia mafiosa" è per l’associazione fonte di potere, relazioni, contatti. Occorre ricordare, in proposito, che le associazioni mafiose sono tali perché hanno relazioni con la società civile; e, invero, tali relazioni che uniscono i boss con una rete di politici, pubblici amministratori, professionisti, imprenditori, uomini delle forze dell’ordine, avvocati e persino magistrati, costituiscono uno dei fattori che rendono forti le associazioni criminali e che spiegano perché lo Stato non sia ancora riuscito a sconfiggerle. Basti pensare che gli infiltrati, "le talpe", le fughe di notizie riservate e, in casi ancora più gravi, le collusioni di investigatori, inquirenti o magistrati, con le cosche mafiose, possono portare al fallimento parziale o totale delle indagini.

Trattasi di principi ormai pacifici nella giurisprudenza di legittimità. Si è, infatti, osservato che, nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto intraneus ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest’ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, e, sotto il profilo soggettivo, è privo della affectio societatis, laddove il partecipe intraneus è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma delittuoso in modo stabile e permanente (Sez. 6, 49757/2012).

Ritornando successivamente ad esaminare la questione, si è poi osservato che la partecipazione ad associazione mafiosa ed il concorso esterno costituiscono fenomeni completamente alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un pactum sceleris fra il singolo e l’organizzazione criminale, in forza del quale il primo rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo sociale, con la volontà di appartenere al gruppo, e l’organizzazione lo riconosce ed include nella propria struttura, anche per facta concludentia e senza necessità di manifestazioni formali o rituali, mentre il concorrente esterno è estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo causalmente orientato alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, ovvero di un suo particolare settore di attività o articolazione territoriale, e diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (Sez. 6, 16958/2014).

Si è, infine, chiarito che la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trova in rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo della associazione criminale, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi; ne consegue che è da considerare intraneus  e non semplice "concorrente esterno"  il soggetto che, consapevolmente, accetti i voti dell’associazione mafiosa e che, una volta eletto a cariche pubbliche, diventi il punto di riferimento della cosca mettendosi a disposizione, in modo stabile e continuativo, di tutti gli affiliati della consorteria, alla quale rende conto del proprio operato (Sez. 2, 53675/2014).

Nei medesimi termini la distinzione tra le due figure è stata focalizzata dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza 48/2015: a parere del giudice delle leggi, infatti, «La differenza tra il partecipante "intraneus" all’associazione mafiosa e il concorrente esterno risiede (..) nel fatto che il secondo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento, e, sotto il profilo soggettivo, è privo dell’affectio societatis, laddove invece l’ "intraneus" è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente (..). Dunque, se il soggetto che delinque con "metodo mafioso" o per agevolare l’attività di una associazione mafiosa (..) può, a seconda dei casi, appartenere o meno all’associazione stessa, il concorrente esterno è, per definizione, un soggetto che non fa parte del sodalizio: diversamente, perderebbe tale qualifica, trasformandosi in un «associato.

Nei confronti del concorrente esterno non è, quindi, in nessun caso ravvisabile quel vincolo di «adesione permanente al gruppo criminale». In conclusione, il contributo adesivo del partecipe all’associazione mafiosa deve, oggettivamente, configurarsi come tendenzialmente stabile e durevole, ovvero concretizzarsi nella continuativa disponibilità, per apprezzabile lasso di tempo, del proprio apporto, e, sotto il profilo soggettivo, essere connotato dalla coscienza e volontà di entrare a far parte stabilmente ed organicamente dell’associazione ed operare per il raggiungimento delle finalità della stessa.

Appare, di conseguenza, evidente che le condotte che si concretizzano in un ausilio occasionale all’associazione, poste in essere senza entrare a farne parte stabilmente, senza essersi messi più o meno durevolmente a disposizione del sodalizio, senza assumere all’interno di esso un ruolo od una funzione ben determinati, non possono rilevare come condotte di partecipazione ex articolo 416-bis, perché atipiche rispetto alla previsione tassativa della predetta norma incriminatrice. La ratio della rilevanza penale da attribuire al c.d. concorso «esterno» (come detto, pacificamente configurabile dal punto di vista dogmatico) va, pertanto, rinvenuta, senza alcun dubbio, nell’esigenza di attrarre nell’ambito del "penalmente rilevante" anche le condotte di chi, pur non essendo organico all’associazione (non facendone stabilmente parte), abbia fornito  anche solo occasionalmente  un contributo causalmente rilevante alla esistenza ed operatività di essa, ovvero al raggiungimento delle sue finalità, con ciò esponendo ugualmente a pericolo di lesione il bene protetto, l’ordine pubblico.

Deve aggiungersi che la distinzione tra le due figure non è meramente quantitativa: andrebbe qualificato senza dubbio come contributo di partecipazione quello del soggetto cui, nell’ambito del sodalizio, sia stato attribuito un ruolo, pur se non abbia mai avuto occasione di attivarsi (si pensi all’appartenente alle forze dell’ordine incaricato di riferire le notizie riservate di interesse del sodalizio, che non si sia in concreto attivato perché nell’ambito territoriale di sua competenza non abbia mai avuto conoscenza di simili notizie); al contrario, andrebbe qualificato, ancora una volta senza dubbio, come contributo concorsuale "esterno" quello del soggetto extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non possa contare, ma che sia stato in più occasioni contattato per indurlo a tenere determinate condotte agevolative, di volta in volta concordate sulla base di autonome determinazioni (si pensi all’appartenente alle forze dell’ordine con il quale sia stata, in più occasioni, ma con autonome determinazioni, negoziata la rivelazione di singole notizie riservate).

Conferme testuali della configurabilità del concorso materiale esterno nei reati associativi (talora frettolosamente dimenticate dagli interpreti) sono fornite dallo stesso legislatore: invero, sia l’art. 307 (assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) che l’art. 418 (assistenza agli associati ex artt. 416 e 416-bis) contengono una iniziale clausola di riserva («fuori dei casi di concorso nel reato») che ammette inequivocabilmente la possibilità di un mero concorso eventuale, «esterno», nei reati associativi, lasciando all’interprete soltanto il compito di stabilire in quali casi un tal concorso sia configurabile, ovvero consentendo all’interprete unicamente la valutazione del quomodo, non anche dell’an, del concorso esterno nel reato associativo. L’orientamento che svaluta la rilevanza dei predetti riferimenti testuali, ed in particolare del riferimento di cui all’art. 418, ritiene che l’espressione «al di fuori dei casi di concorso nel reato» si riferirebbe al solo concorso necessario e non anche al concorso eventuale (l’espressione è interpretata come se dicesse «al di fuori dei casi di concorso necessario»); peraltro, nell’ambito del medesimo orientamento, l’identica espressione adoperata dal primo comma dell’art. 307 è interpretata come se si riferisse al "concorso morale", ovvero ad escludere l’applicabilità della norma nel caso di concorso eventuale morale.

Detta immotivata discrasia appare di per sé idonea ad "indebolire" l’orientamento, rendendolo già al suo interno non univoco. Autorevole dottrina ha già osservato (con argomentazioni già condivise e recepite dalle Sezioni unite con la sentenza 16/1994) che nel primo comma dell’art. 418 "si trovano due espressioni differenti, rappresentate dalle locuzioni "concorso nel reato" e "persone che partecipano all’associazione" che richiamano necessariamente due realtà differenti»; «pare, infatti, logico supporre che se il legislatore avesse voluto fare riferimento, all’interno dello stesso comma, per due volte alla stessa fattispecie, avrebbe utilizzato la medesima espressione e non due diverse locuzioni»; «si deve dedurre, quindi, che "concorso nel reato" non significhi partecipazione allo stesso, ma concorso eventuale esterno nel reato associativo; è da ritenersi, pertanto, che il legislatore abbia inteso ammettere esplicitamente la configurabilità di un concorso eventuale nei confronti della associazione».

E, in proposito, si osserva che il dato letterale, ovvero le diverse espressioni adoperate nel medesimo contesto (esse confluiscono, infatti, nello stesso comma della norma de qua), rivela la trasparente intenzione del Legislatore di fare riferimento a due fattispecie diverse: in caso contrario, sarebbe davvero incomprensibile l’impiego, in una stessa norma, di due distinti termini per evocare il medesimo concetto. Rilievo decisivo va, sul punto, attribuito anche a quanto osservato nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale.

La Relazione, nell’illustrare la disciplina dettata dall’art. 418, osserva che «questa figura criminosa è tenuta distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento», ed evidenzia che "infondato è il dubbio sollevato se l’inciso "fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" si debba riferire al reato d’associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione». Per la Relazione ministeriale non possono quindi esservi dubbi sulla configurabilità del concorso eventuale, in tutte le sue forme, nei reati associativi (all’epoca, il riferimento riguardava tendenzialmente il reato di cui all’art. 416), visto che la stessa si premura di precisare che il concorso di cui si parla nell’art. 418 non è il concorso degli esterni rispetto al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, bensì il concorso rispetto al reato di associazione, che, per la distinzione, per il parallelo che la Relazione fa tra quest’ultimo concorso ed il concorso esterno nel reato-fine, non può non essere, anch’esso, il concorso esterno, degli esterni, nel reato di associazione.

E, dopo aver chiarito il significato delle espressioni «dare rifugio o fornire vitto», la Relazione ministeriale aggiunge, ribadendo il concetto, che la disposizione penale in questione è stata resa rigorosa, ma che «il maggior rigore si è reso necessario» anche «per la esigenza di non confondere questa speciale figura delittuosa - che, non v’è dubbio, punisce un certo contributo esterno prestato agli associati, ai partecipanti - con il concorso nell’associazione per delinquere».

Il contributo del «concorrente eventuale od esterno» al reato associativo rileva, pertanto, come accade ordinariamente per ogni altra fattispecie tipica di reato, in forza dell’art. 110 (che ha la funzione di estendere l’ambito dell’illecito penale, onde ricomprendervi i contributi atipici), e deve necessariamente accedere ad una societas sceleris preesistente od anche solo contemporaneamente costituita da terzi.

In proposito, va, conclusivamente, affermato il seguente principio di diritto: «E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis (nella parte in cui, secondo l’interpretazione giurisprudenziale in atto dominante, incriminano il c.d. "concorso esterno" in associazioni di tipo mafioso), sollevata per asserito contrasto con l’art., 25, comma 2, della Costituzione e con gli artt. 117 della Costituzione e 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità. Il c. d. "concorso esterno" in associazioni di tipo mafioso non è un istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato in forza della generale (perché astrattamente riferibile a tutte le norme penali incriminatrici) funzione incriminatrice dell’art. 110, che estende l’ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, ricomprendendovi quelle nelle quali un soggetto non abbia posto in essere la condotta tipica, ma abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti, secondo una tecnica normativa ricorrente; la sua matrice legislativa trova una conferma testuale nella disposizione di cui all’art. 418, comma 1» (Sez. 2, 22447/2016).

Il professionista nell’area legale (avvocato, notaio) che non si limiti a fornire al proprio cliente, che sia partecipe di una associazione a delinquere ex art. 416-bis, consigli e pareri mantenendosi nell’ambito di quanto legalmente consentito ma si trasformi nel consigliere di fiducia del capo di una associazione mafiosa in quanto conoscitore delle leggi e dei modi per eluderle ("consigliori", nel gergo italo-americano), assicurando un’assistenza tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge, risponde del delitto di partecipazione all’associazione, se ricorrono gli ulteriori presupposti della affectio societatis e dello stabile inserimento nella sua struttura organizzativa.

Quando mancano questi ulteriori presupposti, rimane configurabile il concorso esterno se la condotta costituisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo (di natura materiale o morale) dotato di apprezzabile rilevanza causale per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione (Sez. 2, 17894/2014). In altri termini, per integrare l’elemento oggettivo nel concorso nel reato associativo è sempre necessario che il contributo del concorrente valga a conservare o rafforzare le capacità operative dell’associazione (Sez. 1, 49067/2015) e non soltanto gli interessi personali di alcuni suoi appartenenti, anche se identificabili con i soggetti costituenti il nucleo egemone all’interno dell’associazione. Al diritto di difesa e al suo esercizio tramite il difensore l’ordinamento giuridico riconosce ampio spazio per consentire la effettiva attuazione del principio affermato nell’art. 24, comma 2, Cost. Tuttavia, questo spazio ha un limite nel rispetto dell’esigenza dello Stato a una corretta amministrazione della giustizia e nell’osservanza degli obblighi e dei divieti espressamente indicati come illeciti penali, oltre la quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione, eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge (Sez. 6, 6989/1986).

È il caso, per esempio, della alterazione dei risultati delle indagini già svolte (Sez. 6, 38516/2007), o dello sviamento dell’attività di ricerca e acquisizione della prova da parte della magistratura (Sez. 6, 7270/2000). In particolare, il difensore che, acquisita illegalmente la notizia dell’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare come nel caso di concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio o nella fraudolenta visione o estrazione di copie di atti che devono rimanere segreti), lo informi, consentendogli di sottrarsi all’esecuzione di questa e alle successive ricerche dell’autorità, commette un favoreggiamento personale (Sez. 6, 35327/2013), che non ricorre, invece, nel caso del difensore che, avendo ritualmente conosciuto atti processuali da cui emergano gravi indizi di colpevolezza contro il suo assistito, lo informi della possibilità che gli sia applicata una misura cautelare nell’ambito del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e per il legittimo esercizio del diritto di difesa (Sez. 6, 58411/2018).

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del dolo, occorre che l’agente, pur in assenza dell’affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dell’esistenza della stessa e del contributo causale recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile (Sez. 5, 34837/2019).

 

…Fatti contestati prima della stabilizzazione giurisprudenziale della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa

Quesito posto alle Sezioni unite: "se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile" (Sez. 6, 21767/2019).

A tale quesito le Sezioni unite hanno dato soluzione negativa poiché "la sentenza della Corte EDU del 14/4/2015 Contrada c. Italia non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata" (informazione provvisoria fornita in esito all'udienza del 24 ottobre 2019).

L’invocazione dei principi enunciati dalla Corte EDU nel caso Contrada c. Italia, nella decisione pronunciata il 14/04/2015, non può prescindere dall’applicazione che di tali principi ha fatto questa Corte nel procedimento di esecuzione attivato dallo stesso C., a conclusione del quale veniva dichiarata «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006, irrevocabile il 10/05/2007» (Sez. 1, 43112/2017).

Occorre, al contempo, ribadire i principi affermati da Sez. 1, 44193/2016, nella quale si affermava il seguente principio di diritto: «Lo strumento per adeguare l’ordinamento interno ad una decisione definitiva della Corte EDU va individuato, in via principale, nella revisione introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale 113/2011, applicabile sia nelle ipotesi di vizi procedurali rilevanti ex art. 6 della Convenzione EDU, sia in quelle di violazione dell’art. 7 della stessa Convenzione che non implichino un vizio assoluto di responsabilità (per l’assenza di una norma incriminatrice al momento del fatto), ma solo un difetto di prevedibilità della sanzione  ferma restando la responsabilità penale  o che comunque lascino aperte più soluzioni del caso; lo strumento dell’incidente di esecuzione, invece, può essere utilizzato solo quando l’intervento di rimozione o modifica del giudicato sia privo di contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identificato precetto senza necessità della previa declaratoria di illegittimità costituzionale di alcuna norma, fermo restando che, qualora l’incidente di esecuzione sia promosso per estendere gli effetti favorevoli della sentenza della Corte EDU ad un soggetto diverso da quello che l’aveva adita, è necessario anche che la predetta decisione (pur non adottata nelle forme della "sentenza pilota") abbia una obiettiva ed effettiva portata generale, e che la posizione dell’istante sia identica a quella del caso deciso dalla Corte di Strasburgo».

Tanto premesso, occorre anzitutto evidenziare che il dato ermeneutico da cui partire è quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della CEDU, pur non potendo riconoscersi alle stesse rilievo costituzionale (Sez. 1, 2800/2007). Si consideri che l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è assicurata dall’art. 19 dello stesso testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU per «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli». In tale ambito, si inserisce l’art. 46 CEDU, nel cui primo paragrafo si prevede che le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti». L’art. 46, inoltre, stabilisce, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione». L’obbligo di conformazione alle decisioni della Corte EDU, infine, è ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione [...]».

L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione. In questa cornice ermeneutica, la questione topica affrontata nella sentenza di cui si discute (Sez. 1, 43112/2017) riguardava la verifica dell’osservanza da parte del giudice dell’esecuzione dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, che non si riteneva rispettato nel caso di specie. Quanto agli strumenti processuali con cui dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, il giudice di legittimità, richiamando la giurisprudenza consolidata delle Sezioni unite (SU, 42858/2014), li individuava negli ampi poteri di intervento sul giudicato penale, che venivano riconosciuti al giudice dell’esecuzione dagli artt. 666 e 670 CPP. Si evidenziava, in proposito, che l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva trovava il proprio fondamento nei poteri di cui agli artt. 666 e 670 CPP, che erano stati riconosciuti dalla Corte costituzionale (Corte costituzionale, 210/2013), secondo cui il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso».

Occorre, a questo punto, verificare se, sulla base dei principi enunciati nell’arresto giurisprudenziale che si è richiamato (Sez. 1, 43112/2017), definitivamente consolidatosi (Sez. 1, 36509/2018; Sez. 1, 8661/2018), sia possibile estendere le conclusioni formulate dalla Corte EDU nella decisione del 14/02/2015 ad altri procedimenti riguardanti soggetti non coinvolti da tale pronuncia. A tale quesito, deve fornirsi risposta negativa. Si consideri che la previsione dell’art. 46 CEDU ha una portata precettiva limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi; efficacia precettiva rispetto alla quale doveva escludersi l’esistenza di margini di discrezionalità in capo al giudice nazionale, fatta salva l’eventuale ricorrenza di controlimiti, insussistenti nel caso in esame, alla stregua dei principi affermati dalla Corte costituzionale (Corte costituzionale, 348/2007).

Si affermava conseguentemente che «la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato (Sez. 1, 43112/2017).

Queste conclusioni impongono di affermare, in linea con quanto affermato nell’orientamento ermeneutico in esame che i principi affermati nella decisione della Corte EDU del 14/02/2015, nel procedimento Contrada c. Italia non possono essere esportati al di fuori della vicenda processuale coinvolta da tale decisione. Non è, al contempo, possibile ipotizzare l’applicazione dei principi affermati dalla Corte EDU nel medesimo caso sul piano della configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa, al di fuori degli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU. Per risolvere tale questione occorre muovere dalla natura di fattispecie di "creazione giurisprudenziale" del concorso esterno in associazione mafiosa, affermata dalla Corte EDU nel paragrafo 57 della decisione in discorso, in cui si evidenziava che «il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry».

Osserva il Collegio che, fermi restando gli obblighi di conformazione previsti dall’art. 46 CEDU, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di "creazione giurisprudenziale", ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività.

Tali profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa prefigurato dalle Sezioni unite (SU, 33478/2005, Mannino), più volte richiamato dalla Corte EDU, non consente alcun equivoco interpretativo sulle ragioni che legittimano nel nostro ordinamento l’applicazione dell’istituto concorsuale.

Si consideri che nella predetta sentenza Mannino le Sezioni unite  non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione mafiosa trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura consortile, pur senza aderirvi. Ne consegue che, attraverso la clausola prevista dell’art. 110, si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità (Sez. 2, 34147/2015; Sez. 5, 2653/2016).

Ne discende che, ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla previsione dell’art. 46 CEDU, tali richiami non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di "creazione giurisprudenziale". A conferma di quanto si sta affermando, si ritiene utile richiamare il passaggio della decisione di legittimità esaminata nel paragrafo 4, in cui si affermava che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici» (Sez. 1, 43112/2017) (ricostruzione sistematica dovuta a Sez. 1, 37/2019).

 

Mutamenti della contestazione iniziale

…Concorrente e autore mediato

È esclusa la violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza allorché, contestato all’imputato un reato a titolo di concorso personale, se ne affermi la responsabilità in sentenza ai sensi dell’art. 48, in quanto la responsabilità dell’autore mediato realizza un particolare e qualificato comportamento del tutto compatibile con il contributo sotteso dalla formula di cui all’art. 110, originariamente contestato (Sez. 2, 3644/2017).

 

…Esecutore materiale e concorrente morale

È esclusa la violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza qualora l’imputato, cui sia stato contestato di essere l’autore materiale del fatto, sia riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, giacché tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione (Sez. 2, 12207/2015).

 

Reato commesso all’estero

Secondo quanto dispone l’art. 6, comma secondo, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto dell’iter criminoso. In caso di concorso di persone nel reato commesso in parte all’estero, ai fini del riconoscimento della giurisdizione italiana e per la punibilità di tutti i concorrenti è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificata anche solo una frazione della condotta ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, che, seppur priva dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia comunque significativa e collegabile in modo chiaro e univoco alla parte restante realizzata in territorio estero (Sez. 6, 4844/2019).