Ti trovi dove è commesso il reato: concorso o connivenza non punibile?

Orchidea
Ph. Francesca Russo / Orchidea

Abstract

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ribadito ancora una volta, per un verso, l’importanza di una attenta e ponderata valutazione in ordine alla gravità indiziaria ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale, escludendo che essa possa trarsi da una presunzione priva di riscontri fattuali, nonché – e soprattutto – che la mera presenza del (ritenuto) concorrente nel locus commissi delicti non sia sufficiente, di per sé sola, ad integrare una responsabilità a titolo di concorso nel reato, essendo necessario che da essa scaturisca quantomeno un rafforzamento del proposito criminoso dell’agente.

 

 

Indice:

1. Le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari, tra teoria e prassi

2. La doppia presunzione a fondamento dell’ordinanza impositiva della cautela

3. I profili di fallacia inferenziale rilevati dalla Suprema Corte: l'annullamento con rinvio e i principi di diritto

 

1. Le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari, tra teoria e prassi

Quando con la L. 16 aprile 2015, n. 47 è stata novellata la previgente disciplina in materia di misure cautelari per renderla maggiormente affine al dettato normativo, nazionale e sovranazionale, nonché alla giurisprudenza della Corte EDU, il legislatore nostrano non ha ritenuto di apportare alcuna modifica all’articolo 273 Codice Procedura Penale in tema di «condizioni generali di applicabilità delle misure», valutando – condivisibilmente, almeno per chi scrive – che la formulazione di tale norma, principio cardine dell’intero impianto codicistico cautelare, personale e reale, fosse sufficientemente intelligibile e dettagliata.

Ma, ciò nonostante, si susseguono ancora oggi provvedimenti giudiziari che, eludendo di fatto la lettera della (ancorché chiara) legge, comprimono – più o meno severamente, ma pur sempre comprimono – la libertà di indagati e imputati pur in assenza dell’indefettibile presupposto della gravità indiziaria, costringendo i Supremi Giudici, investiti dalle prevedibili doglianze difensive del malcapitato di turno, a fare da inevitabili censori del pronunciamento illegittimo per ricondurre il vincolo cautelare entro i ben delineati confini della legalità. 

E se ciò, per giunta, si verifica, come nel caso oggetto di approfondimento, in relazione a una condotta delittuosa asseritamente concorsuale, o – per meglio dire – ritenuta tale esclusivamente a fronte di una duplice presunzione che, pur in presenza di una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, consentirebbe di ragionare in termini di “più probabile che non”, allora la gravità è certamente maggiore, e merita una riflessione più approfondita.

 

2. La motivazione a fondamento dell’ordinanza impositiva della cautela

Veniamo ai fatti.

Il Tribunale del Riesame di Torino ha confermato l’ordinanza con la quale il G.I.P. locale aveva applicato la misura del divieto di dimora nel Comune e nella Provincia di Torino nei confronti di una donna di origine nigeriana, indagata del reato di cui all’articolo 73, d.P.R. 309/90 in concorso con il marito, anch’egli nigeriano, per aver detenuto ai fini di spaccio all’interno di quella che, secondo l’autorità giudiziaria, era la loro abitazione, occultati nella dispensa della cucina, circa 2,3 kg di marijuana (un involucro di circa 2,1 kg e altri involucri del peso complessivo di circa 0,2 kg) e 7 gr. di cocaina.

In punto di gravità indiziaria i giudici cautelari hanno affermato il coinvolgimento a titolo di concorso della donna nella detenzione ai fini di spaccio dello stupefacente sull’assunto che costei fosse presente all’interno dell’appartamento dove è stata rinvenuta la droga, e che il marito le avesse consentito di rimanervi nonostante la sua momentanea assenza: circostanze, queste, che secondo il collegio sarebbero risultate più compatibili con il concorso nel reato che con la mera connivenza, tanto più – ebbene sì! – tenuto conto che ella, avvalendosi legittimamente della facoltà di non rispondere, abbia taciuto elementi a sé favorevoli, anche in relazione al tipo di lavoro svolto (quasi come se in materia cautelare vigesse un’inversione dell’onere probatorio).

Per dirla altrimenti, la semplice presenza della donna nell’immobile ha consentito di presumere, pur in assenza di qualsivoglia riscontro, non solo – e non tanto – che ella sapesse che al suo interno vi fosse la droga, ma soprattutto, per ciò che più rileva, che la sua condotta fosse orientata quantomeno a facilitare la condotta delittuosa posta in essere dal marito, ragion per cui è stata dapprima iscritta nel registro degli indagati e, quindi, attinta da una cautela personale.

Di contro, il collegio cautelare non ha tenuto in considerazione:  

a) il fatto che la donna avesse dichiarato che, sebbene al momento della perquisizione si trovasse nell’abitazione del marito, in realtà vivesse altrove, come sarebbe stato facile riscontrare sia dal permesso di soggiorno che dalla documentazione relativa alla sua attività lavorativa;  

b) quanto affermato dall’uomo, che pur avendo sin da subito fermamente escluso il coinvolgimento della consorte nella vicenda, è stato tuttavia ritenuto non credibile per non aver fornito spiegazioni attendibili in merito alla fuga tentata alla vista degli agenti (come se fosse necessaria una spiegazione sul punto o, meglio, se fosse verosimile ipotizzare un’alternativa attendibile a quella di aver semplicemente cercato di sottrarsi all’arresto).

 

3. I profili di fallacia inferenziale rilevati dalla Suprema Corte: l’annullamento con rinvio e i principi di diritto

Analizziamo ora la pronuncia della Cassazione (Cassazione Penale, Sezione Terza, Sentenza n. 32406/2020).

Nell’annullare con rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Torino, la Suprema Corte ha evidenziato due distinti profili di fallacia inferenziale nella parte motiva del provvedimento: il primo, prodromico al secondo, attinente alla consapevolezza, da parte della ricorrente, della presenza dello stupefacente nell’abitazione; il secondo, cruciale, afferente al contributo causale che la medesima avrebbe eventualmente fornito ai fini della commissione del reato.

Quanto al primo aspetto, gli ermellini hanno condivisibilmente evidenziato che i giudici cautelari si sono limitati ad ancorare la ritenuta gravità indiziaria alla mera presenza della donna nell’appartamento ove è stato rinvenuto lo stupefacente, omettendo tuttavia di approfondire un elemento fondamentale, cioè se ella avesse effettiva cognizione del fatto che vi fosse della droga nella dispensa della cucina, non essendo affatto ammissibile che una circostanza così dirimente, dalla quale è dipesa la compressione della libertà dell’indagata, sia stata superficialmente rimessa a una presunzione basata solo sul mero dato ponderale della sostanza e sulle approssimative modalità di occultamento della stessa

Motivo per il quale il Tribunale del Riesame, nella diversa composizione del rinvio, è stato invitato ad «approfondire in sede di merito, nella valutazione della gravità indiziaria, […] se la ricorrente fosse a conoscenza dell’esistenza della droga detenuta dal consorte nell’abitazione dove ella, pur avendo indicato un diverso domicilio, si trovava al momento dell’intervento della polizia giudiziaria».

Venendo, poi, al secondo profilo di criticità, i giudici di legittimità hanno sottolineato che, pur volendo ammettere – o, meglio, presumere –, per assurdo, che la donna fosse conscia della presenza dello stupefacente nella casa, il tribunale cautelare ha comunque omesso di approfondire «l’ulteriore e decisiva questione del contributo causale» che costei avrebbe fornito al marito, vero spartiacque fra la connivenza non punibile e il concorso nel reato.

Secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, perché si configuri il concorso di persone nel reato, è necessario «un contributo causale, seppure in termini minimi di “facilitazione” della condotta delittuosa», dovendosi per l’effetto ribadire che «la semplice conoscenza o anche l’adesione morale, l’assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale», poiché «la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo causale alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un consapevole contributo positivo – morale o materiale – all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente» (così, fra le altre, Cass. pen., Sez. III, sent. n. 34985 del 16.07.2015; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 47562 del 29.10.2013).

La Cassazione si è pertanto allineata a una recente pronuncia di legittimità con la quale, in un caso del tutto analogo a quello di cui si tratta, è stato chiarito che «la responsabilità a titolo concorsuale del familiare convivente non può desumersi dalla circostanza che la droga sia custodita in luoghi accessibili della casa familiare, dal momento che la mera convivenza non può essere assunta quale prova del concorso morale» (Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 52116 del 15.11.2019).

Il principio è stato ribadito anche più recentemente da una sentenza con la quale, in tema di concorso nel reato di estorsione, i giudici di legittimità hanno affermato che, per poter considerare rilevante in termini concorsuali la mera presenza del concorrente nel locus commissi delicti, è sempre necessario il palesarsi di una «chiara adesione alla condotta delittuosa», da cui sia conseguito uno stimolo in capo all’autore del fatto o, comunque, un maggior senso di sicurezza nel suo agire (Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 28895 del 19.10.2020).

Su tali condivisibili presupposti i supremi giudici hanno quindi disposto l’annullamento dell’ordinanza impositiva della misura cautelare, con conseguente rinvio al Tribunale del Riesame di Torino per una più ponderata – per non dire semplicemente ponderata – analisi di aspetti fattuali dirimenti ai fini della contestazione del concorso nel reato da parte della ricorrente e, per l’effetto, dell’eventuale conferma dell’applicazione, in capo ad ella, di una cautela personale.