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Art. 25-quater - Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico [36]

1. In relazione alla commissione dei delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, previsti dal codice penale e dalle leggi speciali, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) se il delitto è punito con la pena della reclusione inferiore a dieci anni, la sanzione pecuniaria da duecento a settecento quote;

b) se il delitto è punito con la pena della reclusione non inferiore a dieci anni o con l’ergastolo, la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.

2. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 1, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.

3. Se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nel comma 1, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività ai sensi dell’articolo 16, comma 3.

4. Le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 si applicano altresì in relazione alla commissione di delitti, diversi da quelli indicati nel comma 1, che siano comunque stati posti in essere in violazione di quanto previsto dall’articolo 2 della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo fatta a New York il 9 dicembre 1999.

[36] Articolo inserito dall’art. 3, comma 1, L. 14 gennaio 2003, n. 7, a decorrere dal 28 gennaio 2003.

Elenco dei reati richiamati dalla norma

Questa disposizione è l’unica della Sezione III a non elencare tassativamente i reati ai quali si riferisce.

Il legislatore si è servito infatti di due definizioni: 1) delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice penale e dalle leggi speciali; 2) delitti, diversi da quelli indicati nel comma 1, che siano comunque stati posti in essere in violazione di quanto previsto dall’articolo 2 della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo fatta a New York il 9 dicembre 1999.

La prima delle due formule, in passato di problematico inquadramento, trova adesso un primo supporto interpretativo nell’art. 270-sexies CP, introdotto dall’art. 15 del DL 144/2005 poi convertito nella L. 155/2005, secondo il quale “Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.

D’altro canto, la questione non può dirsi affatto risolta, se solo si considera che una norma di palese finalità definitoria non trova di meglio a sua volta, nella seconda parte, che rimandare alle convenzioni e norme di diritto internazionale quali fonti di definizione delle condotte terroristiche in senso stretto o con finalità di terrorismo.

Il tasso di complicazione aumenta se si considera che, al pari della finalità terroristica, l’art. 25-quater prende in considerazione l’ulteriore concetto di eversione dell’ordine democratico, cui si associano ordinariamente descrizioni di portata generale e riferimenti ad attività dirette a sovvertire l’impianto costituzionale di una società.

Due concetti elastici, dunque, la cui esatta latitudine non può che essere definita in via interpretativa.

Prendendo le mosse dall’area codicistica, il riferimento obbligato è rappresentato dai delitti contro la personalità dello Stato (Titolo I del Libro II del Codice penale) che il legislatore ha diviso in due appositi Capi: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (artt. 243 e ss. CP) e delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 276 e ss. CP).

Si deve convenire che l’identificazione legislativa del bene giuridico protetto (la personalità dello Stato) fa sì che tutte le fattispecie incriminatrici contenute nel Titolo I siano, almeno astrattamente, idonee a sovvertire il nostro ordinamento interno e le “strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali che lo caratterizzano.

Si consideri, ad esempio, il delitto di spionaggio politico o militare (art. 257 CP). La condotta tipica consiste nel procacciamento di notizie che devono rimanere segrete perché così esige l’interesse della sicurezza dello Stato o l’interesse politico. Il dolo del soggetto agente è specifico e deve tendere a scopi di spionaggio politico o militare. Risulterebbe difficile in un caso del genere negare che l’attività compiuta sia in grado di destabilizzare le strutture portanti del nostro Paese.

Proseguendo con le fattispecie previste da leggi speciali, è opportuno anzitutto ricordare che l’art. 1 della L. 15/1980 ha introdotto una circostanza aggravante ad effetto speciale, applicabile a qualsiasi reato, che ricorre quando il fatto è stato commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.

Questa disposizione consente dunque un’estensione illimitata della potenziale portata applicativa dell’art. 25-quater e crea rischi di torsione del principio di tassatività dell’area dei reati cui deve essere riferito il Decreto 231. Nondimeno, la lettera e la ratio della norma sono chiarissime e un’attività interpretativa che le ignorasse porrebbe indebitamente nel nulla un comando legislativo.

Vanno poi ricordate le disposizioni della L. 342/1976 finalizzate alla repressione dei delitti contro la sicurezza della navigazione aerea e quelle della L. 422/1989 emesse per la stessa finalità in relazione alla navigazione marittima e alle installazioni fisse sulla piattaforma continentale.

C’è poi da tener conto dei delitti commessi in violazione dell’art. 2 della Convenzione di New York del 9 dicembre 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo (cosiddetta Convenzione financing).

Ai sensi del citato articolo, “commette un reato chiunque con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente, illegalmente e intenzionalmente, fornisca o raccolga fondi con l’intento di utilizzarli o sapendo che sono destinati ad essere utilizzati, integralmente o parzialmente, al fine di compiere:

a) un atto che costituisca reato ai sensi di e come definito in uno dei trattati elencati nell’allegato [1]; ovvero

(b) qualsiasi altro atto diretto a causare la morte o gravi lesioni fisiche ad un civile, o a qualsiasi altra persona che non abbia parte attiva in situazioni di conflitto armato, quando la finalità di tale atto sia quella di intimidire una popolazione, o di obbligare un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere qualcosa.

Perché un atto possa comportare una delle suddette fattispecie non è necessario che i fondi siano effettivamente utilizzati per compiere quanto descritto alle lettere (a) e (b).

Commette ugualmente reato chiunque tenti di commettere i reati sopra previsti.

Commette altresì un reato chiunque:

(a) prenda parte in qualità di complice al compimento di un reato di cui sopra;

(b) organizzi o diriga altre persone al fine di commettere un reato di cui sopra;

(c) contribuisca al compimento di uno o più reati di cui sopra con un gruppo di persone che agiscono con una finalità comune. Tale contributo deve essere intenzionale e:

(i) deve essere compiuto al fine di facilitare l’attività o la finalità criminale del gruppo, laddove tale attività o finalità implichino la commissione del reato; o

(ii) deve essere fornito con la piena consapevolezza che l’intento del gruppo è di compiere un reato.”

L’art. 25-quater comma 4 innesca quindi un duplice rimando: in primo luogo all’art. 2 della Convenzione di New York il cui comma 1 lett. a) rinvia a sua volta ai nove trattati internazionali allegati al testo. Il risultato è l’allargamento imponente dell’area dei comportamenti criminali che possono essere inquadrati nello spazio proprio del medesimo art. 25-quater e la conseguente difficoltà per gli enti di approntare idonee misure organizzative preventive e prima ancora di avere esatta contezza dei reati cui può conseguire la responsabilità ai sensi del Decreto 231. Il già citato art. 270-sexies CP offre comunque un valido strumento di riferimento.

È opportuno infine accennare ad un ultimo problema.

Alcune delle fattispecie incriminatrici collegabili alla previsione dell’art. 25-quater sono state immesse nell’ordinamento o hanno subito modifiche dopo l’introduzione dell’art. 25-quater che si deve alla L. 7/2003.

Serve dunque comprendere se anch’esse siano utilizzabili per fondare la responsabilità da illecito dell’ente.

Si crede che la risposta debba essere positiva. La formulazione aperta della previsione ex art. 25-quater è già di per sé stessa indicativa di una volontà legislativa volta a favorire la sua massima flessibilità in accordo ai continui mutamenti delle manifestazioni terroristiche ed eversive.

[1] I trattati allegati alla Convenzione di New York sono i seguenti: 1. Convenzione per la repressione dell’illecito sequestro di aeromobili (L’Aja, 16 dicembre 1970); 2. Convenzione per la repressione di atti illeciti diretti contro la sicurezza dell’aviazione civile (Montreal, 23 settembre 1971); 3. Convenzione sulla prevenzione e repressione dei reati contro le persone che godono di protezione internazionale, compresi gli agenti diplomatici (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1973); 4. Convenzione internazionale contro la cattura di ostaggi (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1979); 5. Convenzione internazionale sulla tutela del materiale nucleare (Vienna, 3 marzo 1980); 6. Protocollo per la repressione di atti illeciti di violenza negli aeroporti utilizzati dall’aviazione civile internazionale, complementare alla Convenzione per la repressione di atti illeciti diretti contro la sicurezza dell’aviazione civile (Montreal, 24 febbraio 1988); 7. Convenzione per la repressione di atti illeciti diretti contro la sicurezza della navigazione marittima (Roma, 10 marzo 1988); 8. Protocollo per la repressione di atti illeciti contro la sicurezza delle piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale (Roma, 10 marzo 1988); 9. Convenzione internazionale per la repressione di attentati terroristici perpetrati con esplosivo (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1997).

 

Rassegna di giurisprudenza

Più che le specifiche e numerose fattispecie incriminatrici riferibili all’art. 25-quater, si è ritenuto di privilegiare in questo caso i loro elementi costitutivi essenziali.

 

Profilo associativo e condotta di partecipazione

I reati previsti dall’art. 270-bis CP si configurano nelle condotte di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento o partecipazione ad associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; finalità di terrorismo, in particolare e per quanto qui specificamente interessa, che il terzo comma dell’articolo identifica anche nelle condotte dirette contro Stati esteri ovvero istituzioni o organismi internazionali.

Tenuto conto di questa disposizione estensiva, i criteri dettati dal successivo art. 270-sexies per la riconducibilità di una condotta alla finalità terroristica sono riferiti anche a Stari esteri o organizzazioni internazionali.

Criteri indicati nella potenzialità della condotta, per la natura o il contesto della stessa, ad arrecare grave danno ad uno Stato o ad un’organizzazione internazionale; nella riconducibilità della condotta a taluno degli scopi indicati dalla norma in termini di intimidazione della popolazione di quello Stato, di costrizione dei poteri pubblici dello stesso o dell’organizzazione a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti e di distruzione o destabilizzazione delle strutture costituzionali, politiche, economiche e sociali dello Stato o dell’organizzazione; e, in alternativa alle condizioni appena indicate, nell’espressa definizione della condotta come terroristica in convenzioni o altre norme di diritto internazionali vincolanti per lo Stato italiano.

I dati descritti connotano indubbiamente i delitti in esame come reati di pericolo presunto.

Questa Corte Suprema ha avuto tuttavia modo di precisare che la ravvisabilità della condotta associativa, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di effettività che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso (Sez. 5, 2651/2016).

È determinante in tal senso il fatto che, nella previsione normativa, la rilevanza penale dell’associazione sia legata non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità.

Costituiscono pertanto elementi necessari, per l’esistenza del reato, in primo luogo l’individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell’associazione, quanto meno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione. L’attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non dà in primo luogo la necessaria consistenza a quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell’associazione in esame.

Alla vocazione al martirio è stata invero attribuita significatività ai fini della ravvisabilità del reato; ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l’adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata aliunde riconosciuta l’effettiva operatività e, comunque, laddove alle attività di indottrinamento e reclutamento sia affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento, che attribuisca all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo (Sez. 5, 48001/2016).

Le modalità di partecipazione ad una struttura associativa di tipo criminale non hanno caratteristiche rigide per qualsivoglia fattispecie di associazione, ma sono direttamente collegate alla particolare natura del gruppo criminale che viene in rilievo. Il codice penale descrive la condotta rilevante utilizzando incisi del tutto omologhi: “chiunque partecipa...” - articolo 270-bis -; “per il solo fatto di partecipare...” - articolo 416 -; “chiunque fa parte...” - articolo 416-bis -; “per il solo fatto di partecipare alla banda armata” - articolo 306 - . È allora evidente che, per cogliere i contenuti di condotta del vincolo partecipativo, bisogna porre attenzione alla struttura associativa, perché soltanto il modo in cui essa si configura tratteggia il ruolo del partecipe.

Con questa premessa vanno esaminate le caratteristiche dell’associazione internazionale Isis. La sua spiccata pericolosità trova causa nella fluidità della sua struttura.

Essa non richiede forme particolari per l’assunzione del ruolo partecipativo, non si qualifica per articolazioni organizzative statiche ma, facendo leva sull’intensità della cifra ideologica, può reclutare adepti anche soltanto incitando alla jihad, da realizzare non già attraverso una pianificazione centralizzata di atti violenti ma per mezzo di scelte autonome del singolo quanto all’individuazione del luogo e degli strumenti di commissione del fatto e alle vittime da colpire, qualificate soltanto dall’essere infedeli, miscredenti, e quindi non aderenti a un determinato credo religioso.

La presa d’atto di questo modello polverizzato di articolazione associativa non può però far trascurare la necessità di individuare un nucleo di fatto nell’attribuzione di disvalore penale alla condotta di adesione.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito come “il delitto di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, di cui all’art. 270- bis CP, è integrato dalla condotta di chi, offrendo ospitalità ai fratelli ritenuti pericolosi, preparando documenti d’identità falsi e propagandando all’interno dei luoghi di culto la raccolta di fondi, esprime, in tal modo, il sostegno alle finalità della stessa associazione terroristica ed assicura un concreto intervento in favore degli adepti, in adesione al perseguimento del progetto jihadista” (Sez. 5, 2651/2016).

Si è peraltro riconosciuto, nella giurisprudenza di legittimità, che la partecipazione all’associazione terroristica Isis e alle altre similari associazioni “che propongono una formula di adesione aperta, può essere desunta, in fase cautelare... dall’opera di indottrinamento”, ma si è al contempo precisato che occorre pur sempre “che l’azione del singolo si innesti nella struttura organizzata, cioè che esista un contatto operativo, un legame, anche flebile, ma concreto tra il singolo e l’organizzazione che, in tal modo, abbia consapevolezza, anche indiretta, dell’adesione da parte del soggetto agente” (Sez. 6, 14503/2018).

La partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jihadista può manifestarsi anche attraverso “modalità di adesione aperte e spontaneistiche, che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi” (Sez. 5, 50189/2017).

Non è dunque necessario nel caso di specie verificare se all’adesione abbia corrisposto un’accettazione ad opera dei vertici associativi, proprio perché il ricorrente “ha aderito a una sorta di proposta pubblica lanciata dall’Isis attraverso canali mediatici di propaganda”, e ciò in ragione delle caratteristiche dell’associazione, che non ha struttura verticistica ma forma organizzativa di tipo orizzontale (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 1, 51654/2018).

Esiste nella giurisprudenza di legittimità una tendenza ad allargare l’ambito applicativo del reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo che trova la propria ragione costitutiva nella esigenza di adeguare in termini di efficienza ed effettività la risposta penale a condotte, comportamenti, azioni compiute da nuclei terroristici strutturati “a cellula” o “a rete”, che sono in grado di operare a distanza attraverso elementari organizzazioni di uomini e mezzi, facendo rientrare, in tale contesto, anche l’operato di coloro che, per la totale autonomia organizzativa, sono comunemente definiti “lupi solitari”.

Si tratta di una risposta giurisprudenziale che, da una parte, recepisce la pericolosità di tali nuovi fenomeni, riconducibili ad organizzazioni sostanzialmente militari con localizzazione centrale all’estero e, dall’altra, trova il suo riferimento normativo in plurimi interventi da parte del legislatore; si sono dovute affrontare nuove questioni di diritto penale, derivanti dall’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, di comportamenti prodromici e finalizzate ad attribuire rilevanza al proselitismo alla preparazione, al supporto ed al finanziamento delle azioni delle organizzazioni coinvolte.

Si è assistito ad una progressiva anticipazione della soglia della rilevanza penale, anche della condotta di “partecipazione”, con conseguente corrispettiva anticipazione, sul piano processuale, del momento d’inizio delle indagini e dell’applicazione di misure cautelari. A ciò è conseguita, in dottrina ma anche nella giurisprudenza, una diffusa operazione di elaborazione, di riflessione e di adattamento di alcuni principi, per molto tempo affermati.

La Corte di cassazione ha: a) obiettivamente avvertito il rischio che dall’ampliamento dell’ambito applicativo della condotta partecipativa derivi uno svuotamento, una limitazione, una compressione del controllo giurisdizionale della necessaria ed effettiva materialità della stessa e della sua concreta incidenza causale in ordine alla realizzazione della finalità perseguita nel programma criminoso dell’associazione; b) esaminato il rapporto tra condotta di partecipazione e le altre numerose condotte di sostanziale agevolazione dell’associazione terroristica e, in particolare, la tendenza, a volte sommersa, a smaterializzare la condotta di partecipazione e la sostanziale equiparazione di essa con la incriminazioni delle singole condotte di “agevolazione”; c) condiviso l’affermazione della dottrina secondo cui le fattispecie di associazione con finalità di terrorismo ed eversione, che sul piano strutturale sono costituite da una componente soggettiva e da una oggettiva, si compongono sul piano soggettivo di due finalità: la finalità finale, che consiste in un scopo, in un risultato “politico” e la finalità strumentale, che consiste invece nella realizzazione di fatti di reato oggetto del programma criminoso; d) affermato la necessità di accertamento probatorio, sul piano oggettivo, della esistenza e della effettiva capacità operativa di una struttura criminale, su cui deve innestarsi il contributo partecipativo e della consistenza materiale della condotta individuale ovvero del contributo prestato, che non può essere smaterializzato, meramente soggettivizzato, limitato alla idea eversiva, privo di valenza causale ovvero ignoto all’associazione terroristica alla cui attuazione del programma criminoso si intende contribuire (da ultimo, diffusamente, Sez. 6, 14503/2018; Sez. 6,  40348/2018).

Il tema, che involge l’affermazione tradizionale secondo cui il reato previsto dall’art. 270-bis CP ha natura di pericolo presunto, attiene al principio di offensività, tradizionalmente oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale sotto un duplice profilo. Il primo riguarda il controllo delle scelte di politica criminale; il secondo inerisce al criterio ermeneutico indirizzato al giudice, posto che una “lettura sistematica” dell’art. 25 Cost. “postula un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento dell’astratta predisposizione normativa a quello dell’applicazione concreta da parte del giudice” (Corte costituzionale, sentenze 263/2000 e 225/2008).

Senza alcuna pretesa di esaustività, in questa sede è solo opportuno evidenziare come, sotto il primo profilo, la Corte costituzionale abbia in più occasioni sottolineato, da un lato, come l’utilizzo della sanzione penale sia giustificato solo dalla necessità di tutelare “valori almeno di rilievo costituzionale” e, dall’altro, come, quanto al vaglio sulla necessaria attitudine lesiva dei comportamenti incriminati rispetto a beni “meritevoli di tutela”, il canone di offensività costituisca il limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa che spetta indubbiamente alla stessa Corte di rilevare.

Tali importanti affermazioni di principio si sono in passato tradotte in un concreto vaglio sulla consistenza e sulla quotazione del bene interesse/valore dedotto come oggetto di tutela della norma penale, condotto sulla base di un percorso argomentativo che ha inquadrato le valutazioni sulla offensività nell’ambito del paradigma della ragionevolezza o della irragionevolezza rispetto ai valori o agli scopi. Anche con riferimento ai profili strutturali della fattispecie penale, la Corte costituzionale ha sostanzialmente riservato al legislatore il livello e il modulo di anticipazione della tutela, rinunciando di fatto a sindacare le stesse scelte di costruzione dell’illecito penale secondo lo schema del reato di danno o di pericolo, ovvero secondo una particolare forma di tipizzazione del pericolo.

Si è ribadito che l’ampia discrezionalità che va riconosciuta al legislatore penale si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni e/o interessi e che “rientra in detta sfera di discrezionalità l’opzione per le forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità punitiva alla quale riconnettere la risposta punitiva” (Corte costituzionale, sentenza 225/2008). Dunque, anche le anticipazioni di tutela declinate su specifiche presunzioni di pericolosità (reati di pericolo astratto o presunto, come, appunto, il reato previsto dall’art. 270-bis) non risultano in sé insindacabili, almeno fino a quando tale scelta non appaia manifestamente “irrazionale o arbitraria”, contrastando con l’id quod plerumque accidit.

Anche nei reati di pericolo astratto non si può dunque prescindere dalla prova della esistenza di un fatto pericoloso, in quanto il tratto caratteristico di questo tipo di reati riguarda solo il livello al quale si colloca il giudizio di pericolosità che appartiene al genere di azione e non al fatto nella sua individualità e concretezza, nel senso che la condotta deve essere sussumibile sotto la classe o tipo astratto di quelle condotte che normalmente si rivelano pericolose per il bene giuridico tutelato dalla norma. Tale accertamento rende compatibile il reato di pericolo astratto con il principio di offensività.

Dunque, è necessaria una condotta del singolo che si innesti in una struttura organizzata che, al di là delle scorciatoie definitorie relative al carattere rudimentale o meno, deve presentare, per struttura e idoneità organizzativa, un grado di effettività tale da essere compatibile con il principio di offensività e, quindi, tale da rendere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso, mentre non è necessaria anche la predisposizione di un programma di concrete azioni terroristiche (Sez. 6, 14503/2018; Sez. 5, 2651/2016).

Non diversamente, quanto alla prova della “partecipazione” all’associazione con finalità di terrorismo, Sez. 2, 25452/2017 ha precisato che la dichiarazione di responsabilità penale presuppone la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzata nel senso indicato, attraverso condotte sintomatiche consistenti anche solo nello svolgimento di attività preparatorie rispetto alla esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale.

Ne segue che la partecipazione può concretarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico alle attività dell’associazione che, tuttavia, inequivocamente rivelino l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione. È necessario tuttavia che la condotta del singolo si innesti nella struttura, cioè che esista un legame biunivoco, anche flessibile, ma concreto e consapevole tra la struttura e il singolo.

Non paiono condivisibili costruzioni giuridiche che, ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione, ritengono sufficiente l’adesione del singolo a proposte “in incertam personam” – quelle del sodalizio internazionale – anche nel caso in cui l’adesione non sia accompagnata dalla necessaria conoscenza, anche solo indiretta, mediata, riflessa, di essa da parte della “struttura” internazionale (Sez. 5, 50189/2017). Sulla base di tale articolato quadro di riferimento si pone il tema complementare dell’accertamento probatorio.

Si è osservato che è necessario distinguere due situazioni molto diverse tra di loro: a) quella in cui le condotte oggetto del procedimento sono considerate indicative/costitutive di una associazione – per così dire – autonoma rispetto ad associazioni criminose internazionali della cui esistenza non si dubita; b) quella in cui le condotte sono invece ricondotte ad associazioni ritenute pacificamente esistenti, nel senso che i soggetti, nella sostanza, danno vita a una cellula che in sé non presenta i caratteri di cui all’art. 270 bis CP, ma che è legata ad un’associazione internazionale pacificamente riconosciuta tale.

Nel primo caso è necessario fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ma la prova della esistenza di una associazione autonoma con finalità di terrorismo per così dire “locale” non fornisce anche la prova della partecipazione all’associazione internazionale.

Per configurare la partecipazione alla associazione internazionale con finalità di terrorismo, è necessario che questa, anche indirettamente, sappia di avere a disposizione, di “poter contare” su un determinato soggetto ovvero che il singolo faccia pare di una struttura collegata a quella madre, cioè di supporto (Sez. 6, 14503/2018). Dalla prova della partecipazione ad un gruppo che opera sul territorio nazionale riconducibile di per sé allo schema di cui all’art. 270-bis CP non discende automaticamente la prova della partecipazione all’associazione.

Diversamente, si rischia di considerare “partecipi” all’associazione internazionale anche coloro che con questa non hanno nessun contatto – la cui esistenza è ignota al gruppo “madre”- i cui rapporti con questa sono limitati alla mera condivisione di informazioni mediante i più diffusi social- network; la “partecipazione” all’associazione internazionale non può prescindere dalla esistenza di un contatto reale, non putativo, non eventuale, non meramente interiore, con chi a quella associazione è legato perché partecipe della cellula madre.

Nel caso in cui, invece, la organizzazione non sia autonoma, non sia ex sé riconducibile allo schema di cui all’art. 270-bis CP, ma sia solo “servente”, ciò che deve essere provato è l’esistenza di un legame tra la cellula e l’organizzazione criminale “madre”; in tali casi non si pongono problemi in ordine all’accertamento delle due finalità (finale e strumentale) dell’organizzazione, in quanto elementi dati per sussistenti nel momento in cui si ritiene che la cellula sia collegata con organizzazioni terroristiche pacificamente esistenti e considerate tali e, tuttavia, ciò che deve provato, rispetto alla condotta di partecipazione è il collegamento tra le due strutture, non potendosi attribuire di per sé rilevanza, ai fini della configurazione della condotta partecipativa, né a condotte di supporto ad una generica finalità terroristica, quali la preparazione di documenti di identità falsi ovvero la propaganda all’interno di luoghi di culto, né, come detto, a quelle relative ad una generica messa a disposizione “unilaterale”.

Ciò che deve essere provato in tali casi è il collegamento bilaterale tra la cellula e l’organizzazione madre; ciò consente di attribuire rilievo ai fini della fattispecie di cui all’art. 270-bis CP alle condotte di supporto, di propaganda da parte di un gruppo che non risulta direttamente impegnato in attività terroristiche (ricostruzione sistematica fatta da Sez. 6, 51218/2018).

La descrizione della condotta punibile nell’art. 270-bis CP, punto di partenza di ogni analisi orientata al rispetto del principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie astratte, si incentra in tutta evidenza sul particolare finalismo dell’associazione in parola. La soglia di tutela è - visibilmente - anticipata (in rapporto alla macrogravità dell’atto terroristico, ove realmente commesso) posto che il legislatore imputa alla organizzazione il «proposito» di realizzare atti di violenza con finalità di terrorismo.

Se da un lato, pertanto, l’evocazione della «associazione» richiede, per natura logica e etimologica, la riconoscibilità di un vincolo tendenzialmente stabile tra gli associati, un sia pur minimo impiego di risorse e una struttura organizzativa, ciò che qualifica l’attività come punibile è, per l’appunto, l’essere complessivamente finalizzata al compimento di un atto violento che possieda i caratteri, anche questi tipizzati, di cui all’art. 270-sexies (condotte che, per loro natura o contesto possono arrecare grave danno a un Paese o ad una organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o una organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di una organizzazione internazionale).

Non è necessario, pertanto, che l’atto di violenza con matrice terroristica sia identificato come di ‘prossimo compimento’, quanto che la tipologia di attività realizzata nel contesto associativo sia chiaramente identificabile come concreta manifestazione di volontà di contribuire alla sua futura realizzazione, in forme  non tipizzate  che vanno dalla predisposizione ideologica degli affiliati, con diffusione del convincimento della necessità “superiore” di realizzarlo, al concreto sostegno alle attività preliminari di addestramento paramilitare o al mantenimento di reti logistiche che consentano ai membri dei gruppo di progettare l’attività terroristica.

I principi di tipicità, materialità e offensività delle condotte assoggettabili a sanzione penale sono dunque rispettati nella misura in cui le attività censite e ricostruite probatoriamente nel singolo giudizio, possano dirsi: a) idonee a manifestare l’esistenza della stabile relazione tra più soggetti con caratteristiche organizzative tali da poter configurare una associazione, ferma restando la possibile individuazione di nuclei ristretti che si ricolleghino a loro volta a realtà più ampie; b) espressive, anche quanto alla posizione individuale, non di generica condivisione di azioni violente o di particolari posizioni ideologiche o dottrine religiose, ma di una precisa volontà di contribuire  come gruppo e come singoli aderenti  alla realizzazione di uno o più atti di violenza con matrice terroristica, sicché l’attività del gruppo in questione possa essere ritenuta un segmento di un ampio processo di causalità  fisica e psichica  già avviato verso la manifestazione esterna di un atto materiale di terrorismo, pur se la stessa non sia ancora avvenuta. Ciò che rileva è, in altre parole, la concreta idoneità della struttura associativa a porsi come strumento di probabile attuazione di uno o più atti qualificabili come terroristici (Sez. 5, 48001/2016 precisa che il semplice indottrinamento può costituire una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di una associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito).

Tali attività, sia pure prospettiche vanno, dunque, individuate e qualificate e possono consistere anche in atti di terrorismo compiuti in altre regioni del mondo, essendo rilevante a fini di punibilità che la condotta partecipativa sia commessa, in tutto o in parte, in territorio italiano (art. 6 nonché art. 270-bis come modificato dal DL 374/2001).

Non appare appagante, pertanto, la mera evocazione della categoria dei reati a pericolo presunto (pur richiamata in numerosi arresti sul tema), quanto, necessaria la presa d’atto di una precisa scelta legislativa di anticipazione della soglia di rilevanza penale, ragionevole se ed in quanto correlata a condotte realizzate in forma associativa che abbiano la concreta ‘idoneità potenziale’ di inserirsi efficacemente in quella complessa serie causale che va dal fanatismo ideologico-religioso al compimento dello specifico atto di violenza terrorista.

Si tratta, pertanto, di individuare con la dovuta certezza processuale – in sede di merito – le caratteristiche obiettive della aggregazione, i suoi collegamenti con strutture superiori, la capacità di contribuire al raggiungimento dello scopo ultimo, la tipologia di azioni finali che il gruppo ed i suoi aderenti sì propongono di realizzare.

In ciò la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha già espresso un preciso criterio interpretativo, cui si opera riferimento. In particolare, va richiamato, per tutte, l’insegnamento offerto da Sez. 1, 1072/2006. In tale arresto si è precisato che “[...] se è vero che la norma incriminatrice punisce il solo fatto della costituzione dell’associazione, indipendentemente dal compimento degli atti criminosi rientranti nel programma e strumentali alla particolare finalità perseguita, è altrettanto indubbio che la struttura organizzativa deve presentare un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione del progetto criminoso e da giustificare, perciò, la valutazione legale di pericolosità, correlata alla idoneità della struttura al compimento della serie di reati per la cui realizzazione l’associazione è stata istituita.

In caso contrario, ossia se la struttura associativa fosse concepita in termini generici, labili ed evanescenti, l’anticipazione della repressione penale finirebbe per colpire, attraverso lo schermo del delitto associativo, il solo tatto dell’adesione ad un’astratta ideologia, che, pur risultando aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non è accompagnata, tuttavia, dalla possibilità di attuazione del programma: si finirebbe, insomma, per reprimere idee, non fatti, potendo configurarsi tutt’al più  nell’ipotesi di accordo non concretizzatosi in un’organizzazione adeguata al piano terroristico  la fattispecie della cospirazione politica mediante accordo [..].

In senso analogo, di recente, Sez.  5, 50189/2017, con particolare riferimento alla rilevanza di condotte di supporto funzionale, realizzate da micro-strutture in favore di organizzazioni internazionali aventi dichiarati scopi terroristici. Sul piano delle condotte individuali, va verificata l’adesione consapevole del singolo alle suddette finalità, con inserimento espresso, in via logica, anche da condotte meramente strumentali al radicamento del vincolo o dal concreto supporto logistico alle attività dell’organizzazione (Sez. 1, 49128/2018).

 

Finalità di terrorismo

La finalità di terrorismo è una categoria che, nel corso dei tempi, ha subito un’evoluzione anche sul piano della definizione legale. L’art. 270-sexies CP è stato, infatti, introdotto dall’art. 15 del DL 144/2005, convertito con modifiche nella L. 155/2005, con lo scopo di dare una definizione legislativa dell’anzidetta finalità. In precedenza l’attenzione si era concentrata sulla sua delimitazione rispetto al concetto d’eversione dell’ordine democratico, categoria di cui lo stesso legislatore aveva dato una indicazione precisa attraverso l’art. 11 L.304/1982, norma d’interpretazione autentica, con cui si era recuperata concettualmente l’eversione stessa all’ambito dell’ordine costituzionale.

L’incriminazione, attraverso l’art. 270-bis CP, delle condotte tese a colpire anche gli Stati esteri con iniziative di guerra o di cd. guerriglia, aveva creato più d’un problema ermeneutico.

La contrapposizione tra terrorismo ed eversione riecheggiava in più disposizioni (art. 270-bis; 280 e 289-bis CP) inducendo a collegare semanticamente il terrorismo cd. interno ad azioni qualificate dal fine di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione e a gesti violenti, indiscriminatamente rivolti non contro le singole persone, ma contro ciò che esse rappresentavano. Si trattava di atti caratterizzati dallo scopo di colpire la fiducia nelle strutture statuali e di indebolirne le strutture portanti.

Ben presto si era intesa l’inadeguatezza della nozione così tracciata a recuperare al suo ambito di operatività anche fenomeni più complessi di portata internazionale. Consapevolezza di limiti siffatti era stata, in concreto, acquisita già a far data dal 2001 e in più occasioni la riflessione si era spostata sulle fonti di carattere “extradomestico” che, in certa misura, offrivano più d’un referente di ridefinizione del fenomeno in esame, caratterizzato dai connotati di internazionalità.

In questa logica si è più volte evocata la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo (New York 9 dicembre 1999, esecutiva con L. 7/2003), oltre alla definizione di atti terroristici contenuta nella decisione quadro 2002/475/GAI dei Consiglio UE che risulta, contrariamente, basata sulla elencazione di una serie di fattispecie considerate dal diritto nazionale e che sono suscettibili di indebolire uno Stato o una organizzazione internazionale nelle sue strutture, intimidendo gravemente la popolazione e costringendo i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere determinati atti.

Mentre la convenzione ONU comprendeva atti compiuti sia in tempo di pace che di guerra, la decisione da ultimo indicata aveva un ambito applicativo limitato alle condotte commesse in periodo di pace. Le azioni poste in essere in tempo di guerra risultavano, pertanto, regolate dal diritto umanitario e internazionale e dalle specifiche convenzioni.

Entrambe le fonti e i criteri ispiratori ruotavano intorno a un concetto di “depersonalizzazione” della vittima, in ragione del vero obiettivo dell’azione violenta, volta a diffondere paura indiscriminata nella popolazione. In questa logica si sono mosse le prime decisioni che hanno ritenuto di applicare regole e principi indicati a fenomeni violenti in cui le azioni si dirigevano (in tempo di pace o di guerra) verso soggetti estranei alle ostilità. Con il predetto DL 144/2005, sono state definite le condotte con finalità di terrorismo introducendo l’art. 270-sexies CP.

La norma si caratterizza essenzialmente, al di là della portata definitoria, per il richiamo, in funzione integrativa, del vincolo derivante da fonti internazionali che entrano attraverso un meccanismo di rinvio dinamico a far parte della fattispecie in esame.

La disposizione definisce le condotte di terrorismo sul piano oggettivo come quelle che per natura o contrasto possono arrecare grave danno a un Paese o a una organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o una organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o a destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali costituzionali economiche e sociali di un Paese o di una organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia. Il profilo soggettivo delle condotte, con finalità di terrorismo, deve concentrarsi su una delle tre caratteristiche previste dalla norma indicata (intimidire la popolazione; destabilizzare o distruggere una delle strutture fondamentali dei Paese o di una organizzazione internazionale; indurre una costrizione).

La giurisprudenza di legittimità sulla definizione della partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale, è stata caratterizzata innanzitutto dalla necessità di distinguere la finalità di terrorismo internazionale da quella di eversione dell’ordine costituzionale di altri Stati e si è giunti alla conclusione che esula dalla finalità e dalla ratio legis la possibilità che il giudice interno si pronunci su fenomeni politico-istituzionali di uno Stato estero.

Il bene giuridico tutelato si identificherebbe esclusivamente nella personalità internazionale dello Stato, in guisa tale da escludersi la possibilità di estendere in sostanza la formula dell’art. 270-bis alle ipotesi di eversione degli Stati esteri. In punto di condotta il delitto di partecipazione ad associazione di tipo terroristico prevede le due forme alternative attraverso cui si può rivelare l’azione tipica. Da un lato, il ruolo direttivo in senso ampio e, dall’altro, l’adesione ad associazione già costituita, che si prefigge lo scopo di realizzare, con la violenza, i fini descritti dalla norma.

La disposizione in realtà appresta tutela contro il programma che ne caratterizza la struttura e non contro “l’idea” sottostante e ispiratrice la spinta a delinquere, anche nei casi in cui essa “ideologia assuma i connotati tipici d’un motore esecutivo dell’azione deviante.

L’idea, tuttavia, cui si collega la corrispondente ed eventuale manifestazione del pensiero, per assumere rilevanza penale, deve obiettivizzarsi in programmi o segmenti fattuali prodromici alla realizzazione di comportamenti violenti. In realtà non si incrimina la condotta d’espressione del pensiero e non si reprime il diritto individuale a costruire una propria visione del mondo, contrastante con quella trasfusa e collocata a fondamento d’un ordine costituito, cui si ispirano lo Stato, la sua legislazione e il sistema istituzionalizzato. Né l’incriminazione investe il dissenso o determinati rapporti tra regole etico-sociali e norme giuridico-penali.

Frutto d’un equivoco si rivelerebbe l’impostazione che, invero, tendesse a ritenere addirittura la legge penale come fonte regolatrice di precetti etico-religiosi e come canone inderogabile di una morale precostituita che vivrebbe d’una autorità idonea ad imporsi dall’alto in basso nei rapporti tra istituzioni e cittadini o nelle relazioni tra essi individui, In realtà non è questa la premessa da cui muovere; erronea risulterebbe un’impostazione che pretendesse di ricostruire la dinamica dell’incriminazione partendo dai concetti anzidetti.

Sui diritti di libertà, presidiati costituzionalmente e, per quanto qui rileva, sui diritti di libertà di religione e di pensiero (artt. 19 e 21 Cost.) non sarebbe neppure astrattamente ipotizzabile una funzione “pedagogica” del legislatore, finalizzata a creare, attraverso l’incriminazione, come si è correttamente osservato, un’etica dell’obbedienza.

Il precetto penale ha un significato e può avere un suo ambito di operatività, là dove vi sia offesa (in termini di danno o pericolo) rispetto a beni giuridici di eguale valore e là dove il contributo del singolo si traduca nell’adesione a gruppi che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo.

La partecipazione, dunque, rileva non in quanto manifestazione ideologica di un pensiero eticamente, moralmente o religiosamente difforme dall’altrui sentire, ma solo in quanto essa “idea” sia in diretto collegamento con il compimento di atti di violenza funzionali all’anzidetta finalità (Sez. 1, 49728/2018).

 

Eversione dell’ordine democratico

L’aggravante della eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo rappresentare un’endiadi della finalità di terrorismo, ma si identifica necessariamente nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento, ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica – caratterizzato o meno dall’uso della tradizionale violenza – che sia in grado di rovesciare, destabilizzando i pubblici poteri e, minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale.

Lo stesso condivisibile orientamento giurisprudenziale ritiene, inoltre, necessario che la finalizzazione dell’azione verso l’obiettivo eversivo sia perseguito con mezzi oggettivamente idonei a mettere in pericolo la vita della democrazia e a ledere l’effettiva vigenza dei suoi principi (Sez. 2, 28753/2016).

La nozione di ordinamento costituzionale si riferisce a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale secondo la Costituzione, come ad esempio, il principio del metodo democratico ovvero le garanzie dei diritti inviolabili del singolo e delle formazioni sociali.

Il significato di eversione dell’ordine democratico non può, pertanto, limitarsi al concetto di azione politica violenta, ma si identifica nel sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione (Sez. 6, 2310/2006).

 

Circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 1 L. 15/1980)

La circostanza aggravante di cui si tratta è stata introdotta dall’art. 1 DL 625 del 1979, convertito con modifiche dalla L. 15/1980 (con successive modifiche, ultima fra le quali quella apportata dall’art. 4 L. 34/2003), disciplina (relativa a misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica) al lume della quale “per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è sempre aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato”.

L’interpretazione di tale disposto ha consentito di puntualizzare che la circostanza aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico può inerire a qualunque condotta illecita, sempre che il fine perseguito dall’agente sia quello di destare panico nella popolazione, senza che essa debba ritenersi collegata all’appartenenza dell’agente ad associazione sovversiva, dovendo invece riscontrarsi per la sua sussistenza l’accertamento che il reato sia strumentalmente rivolto a perseguire la conservazione dei fini di terrorismo o di eversione.

Essa è stata, dunque, originariamente riconnessa ad una particolare connotazione del dolo e, quindi, non può dissociarsi dalla specifica finalità perseguita dall’autore del reato, anche quando l’illecito penale, nella sua struttura fisiologica, non esprime il pericolo dell’eversione dell’ordine democratico, né un’ontologica e naturale propensione a suscitare terrore tra le persone (Sez. 1, 10283/2006).

Si è anche specificato che la nozione di eversione dell’ordine democratico va riferita all’ordinamento costituzionale, ossia a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, secondo la Costituzione, per cui essa non può essere limitata al solo concetto di azione politica violenta, ma deve necessariamente identificarsi nel sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente, od anche nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione nella disarticolazione delle strutture dello Stato, oppure ancora nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano (Sez. 2, 39504/2008).

Tuttavia, la tematica in discorso deve essere affrontata anche con riferimento al disposto dell’art. 270-sexies CP, disposizione che, rubricata con riferimento alle “condotte con finalità di terrorismo”, stabilisce che “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.

Sulla base di tale specifica disciplina, tesa a qualificare la finalità di terrorismo, si è ritenuto, con riferimento ad esempio al reato di cui all’art. 280 CP, che per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione sanzionato dalla norma incriminatrice ora citata è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270-sexies CP, possa – per natura o contesto – arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica (Sez. 6, 34782/2015).

La sopravvenienza costituita dall’art. 270-sexies CP ha, in definitiva, inciso sulla portata applicativa della circostanza aggravante di cui al DL 625/1979, richiedendo per la relativa integrazione, non soltanto il profilo dell’intenzione terroristica, ma anche e necessariamente l’idoneità della condotta allo scopo di intimidire la popolazione oppure di ingenerare effetti riflessi nell’ordinamento istituzionale o ad esporre a pericolo le strutture di un Paese o di un organismo internazionale.

Quindi l’idoneità a produrre l’effetto di intimidazione della popolazione o gli altri succitati effetti concorre all’integrazione del profilo strutturale della fattispecie. Per converso, una volta che i suddetti effetti ricorrano come esito della condotta, la circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale è configurabile anche se si connette con azioni dimostrative e non necessariamente cruente (Sez. 1, 8069/2010).

In modo corrispondente, pur se concettualmente distinto, è anche da specificare che la circostanza aggravante dell’eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo essa, d’altro canto, rappresentare un’endiadi della finalità di terrorismo, ma va necessariamente identificata nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento, ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica – caratterizzato o meno dall’uso della tradizionale violenza – che sia in grado di rovesciare il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale, destabilizzando i pubblici poteri e minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, anche qui con la rilevante precisazione che la finalizzazione dell’azione verso l’obiettivo eversivo risulti perseguita con mezzi oggettivamente idonei a mettere in pericolo la vita della democrazia e a ledere l’effettiva vigenza dei suoi principi (in questo senso, in particolare, Sez. 5, 25428/2012).

Lo sbocco coerente dell’analisi compiuta è che la contestata circostanza aggravante, per essere comprovatamente sussistente, deve essere ancorata ad una condotta caratterizzata, anche per modalità attuative, dalla percepibile finalizzazione al terrorismo, ossia palesarsi come tale da poter arrecare, per la natura dell’azione e/o per il contesto in cui essa si inscriveva, grave danno al Paese, ovvero essere volta, sempre considerato il contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, alla sostanziale deviazione eversiva dai principi regolatori dell’essenza della vita democratica (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 1, 7238/2018).