Collegato lavoro e conciliazione monocratica
Le controversie di lavoro possono essere distinte in:
individuali, concernenti i diritti di un singolo prestatore di lavoro;
plurime, che riguardano i diritti individuali di più prestatori di lavoro; e, infine,
collettive, concernenti i diritti generali dei prestatori di lavoro.
L’oggetto sul quale ruota e/o s’impernia una controversia in materia di lavoro può riguardare sia aspetti di carattere economico, sia aspetti normativi.
Per quanto concerne l’ambito degli aspetti economici, esso può riguardare: le differenze retributive, il trattamento di fine rapporto, il pagamento o meno del lavoro straordinario etc. etc. ; mentre gli aspetti normativi possono consistere negli aspetti contemplati dai contratti collettivi di lavoro vertenti sulle mansioni, sul licenziamento illegittimo, gli avanzamenti di carriera.
Il processo del lavoro è regolamentato dalle norme di cui agli artt. 409 ss. c.p.c..
Il nostro ordinamento ha previsto un rito speciale - introdotto con la Legge 11 agosto 1973, n.° 533 - per la trattazione di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro ed in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria.
La disciplina del processo del lavoro costituisce il frutto di un iter legislativo giunto al suo approdo con la promulgazione della L. 11 sgosto 1973, n.° 533.
Una disciplina del processo del lavoro esisteva già nel codice del 1940, che ad essa avevav riservato il titolo quarto del libro secondo, dedicato al processo di cognizione. Tale titolo quarto era rubricato «Norme per le controversie in materia corporativa» ed era suddiviso in quattro capi, dedicati rispettivamente alle controversie collettive, alle controversie individuali di lavoro, alle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nonché alle controversie individuali in materie regolate da norme corporative.
La soppressione dell’ordinamento corporativo, ed in particolare degli organi competenti ad emanare norme corporative (R.D.L. 3 agosto 1943, n.° 721), avevva implicitamente abrogato il capo primo; mentre il mantenimento in vita delle norme corporative già esistenti fino alla loro modifica (D.L.L. 23 novembre 1944, n.° 369) lasciava al capo quarto uno stretto margine di applicabilità in via di graduale eliminazione. Rimanevano operanti i due capi intermedi: il secondo, dedicato alle controversie individuali di lavoro, ed il terzo dedicato alle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie [Crisanto Mandrioli, DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, III Tomo].
Il rito speciale del lavoro, introdotto dalla L. n.° 533/1973, si applica alle controversie relative a tutti i rapporti di lavoro subordinato, sia a quelle riguardanti obbligazioni caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato, sia a quelle in cui tale rapporto si presenti come antecedente o presupposto necessario della situazione di fatto posta a fondamento della domanda.
Il rito del lavoro si applica anche a rapporti non inerenti l’esercizio dell’impresa, ossia a rapporti alle dipendenze di datori di lavoro non imprenditori.
La controversia si può riferire a qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, anche non ancora costituito o già cessato, nonché a tutti gli aspetti del rapporto.
Il rito speciale in oggetto si applica, inoltre, anche a controversie estranee all’ambito del rapporto di lavoro subordinato privato, quali quelle relative a rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, se caratterizzati da prestazione d’opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale, a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, a prestazioni previdenziali ed assistenziali obbligatorie.
L’art. 409 c.p.c. si preoccupa di individuare le controversie individuali soggetto al rito del lavoro, disponendo: “Si osservano le disposizioni del presente capo nelle controversie relative a :
i rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di una impresa;
rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie;
rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato;
rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica;
rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, semprechè non siano devoluti dalla legge ad altro giudice”.
I caratteri del processo del lavoro, alla luce della riforma introdotta dalla L. 11.8.1973, n.° 533, sono i seguenti:
- oralità, in quanto solamente gli atti introduttivi devono essere redatti per iscritto;
- immediatezza, in quanto tra il deposito del ricorso e l’udienza di discussione non dovrebbero decorrere più di 60 giorni;
- massima concentrazione degli atti processuali;
- ampliamento dei poteri istruttori del giudice.
OGGETTO.-
La controversia si può riferire a qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, anche non ancora costituito o già cessato, nonché a tutti gli aspetti del rapporto.
Quindi, oltre alle normali pretese di natura retributiva ed alle impugnazioni dei licenziamenti, rientrano nella disciplina in esame anche le controversie aventi ad oggetto ad esempio:
la costituzione del rapporto di lavoro;
l’impugnazione dei trasferimenti individuali;
l’applicazione di sanzioni disciplinari;
il risarcimento di danni conseguenti a violazioni di regole imperative (mancata fruizione di ferie, danni da infortunio, mancato versamento dei contributi previdenziali, etc.);
il risarcimento di danni all’immagine professionale;
l’inquadramento del lavoratore (attribuzione a mansioni superiori o inferiori, demansionamento, etc.);
la violazione degli obblighi di fedeltà e di non concorrenza;
il mobbing;
le molestie sessuali;
il trasferimento d’azienda;
la cessazione del rapporto associativo e del rapporto lavorativo del socio lavoratore con la società cooperativa;
gli atti aventi ad oggetto rinunzie o transazioni.
Il rito speciale in oggetto si applica, inoltre, anche a controversie estranee all’ambito del rapporto di lavoro subordinato privato, quali quelle relative a:
rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, se caratterizzati da prestazione d’opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale (art. 409 n. 3 c.p.c.);
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, lavoratori a progetto, procacciatori d’affari, amministratori di società di capitali, amministratori di condominio.
prestazioni previdenziali ed assistenziali obbligatorie (art. 442 c.p.c.);
contratti agrari (rapporti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto), o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto, ferma restando, però, la competenza delle sezioni specializzate agrarie previste dalla legge n. 320/1963 (art. 409 n. 2 c.p.c.);
locazione e comodato di immobili urbani e affitto di aziende (art. 447-bis c.p.c.), innanzi al Giudice ordinario.
FACOLTATIVITA’ DEL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE PRESSO LE DIREZIONI PROVINCIALI DEL LAVORO. -
In relazione alle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie (arbitrali), solo ove cio’ sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale. La clausola compromissoria, a pena di nullita’, deve essere certificata dagli organi competenti (art. 31). La clausola compromissoria non puo’ essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non puo’ riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro.
Tutte le controversie saranno arbitrabili, ad eccezione di quelle connesse al licenziamento, riservate al giudice ordinario: il licenziamento dovrà essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta.
L’impugnazione del licenziamento e’ inefficace se non e’ seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilita’ di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo (art. 32).
Altre novità, cui si accenna, rinviando alla lettura della Legge 183/2010, sono:
- il rafforzamento dell’istituto dell’apprendistato, con la previsione di poter assolvere all’ultimo anno di obbligo scolastico (cioè a partire dai 15 anni) imparando un mestiere in azienda;
- nuove sanzioni amministrative pecuniarie in caso di violazione della normativa sull’orario di lavoro (art. 7);
- nella ipotesi di lavoro sommerso scatterà la sospensione dell’attività imprenditoriale, disposta nei casi più gravi e anche dove l’autorità ispettiva riscontri violazioni in materia della normativa antinfortunistica;
- sarà considerato reato il mancato versamento delle trattenute previdenziali ai co.co.co. ed ai lavoratori a progetto;
- a differenza dei datori di lavoro privati, le pubbliche amministrazioni sono tenute a comunicare, entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data di assunzione, di proroga, di trasformazione e di cessazione, gli eventi relativi ai rapporti di lavoro (art. 5).
Con l’entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n.° 183, che ha modificato l’art. 410 c.p.c., a far data dal 24 novembre 2010, chi intende proporre un’azione in giudizio non è più obbligato a promuovere un previo tentativo di conciliazione. L’obbligo permane esclusivamente qualora la controversia riguardi contratti certificati. Quindi, in linea generale, il tentativo di conciliazione è meramente facoltativo e non costituisce più una condizione di procedibilità della domanda (la legge n.° 183/2010 ha abrogato, con l’art. 31 comma 9 anche gli artt. 65 e 66 che disciplinavano il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
Le parti (e, quindi, sia il lavoratore che il datore di lavoro) prima di adire il Giudice del Lavoro, possono promuovere il tentativo di conciliazione, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato, presso la Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro della provincia in cui è sorto il rapporto oppure della provincia in cui si trova l’azienda oppure della provincia in cui si trovava la dipendenza dell’azienda al momento della fine del rapporto.
Nel caso di rapporti di collaborazione, agenzia e rappresentanza, il tentativo di conciliazione può essere promosso unicamente presso la Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante o del titolare del rapporto di collaborazione.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento alla Direzione Provinciale del Lavoro.
Copia della richiesta del tentativo di conciliazione, a seguito della modifica dell’art. 410 c.p.c., deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte.
Nella richiesta la parte è tenuta a precisare:
nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta, nonché la sede;
il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.
Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la Commissione di Conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. Entro i dieci giorni successivi al deposito della memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale, la Commissione di Conciliazione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Trattasi di termini non perentori.
Dinanzi alla Commissione di Conciliazione il lavoratore può farsi assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della Commissione di Conciliazione. Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la Commissione di Conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
Delle risultanze della proposta formulata dalla Commissione di Conciliazione e non accettata senza adeguata motivazione il Giudice del Lavoro eventualmente adito deve tener conto all’esito del successivo giudizio per la decisione sulle spese di giudizio. Per tale ragione, ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi dell’art. 415 c.p.c. devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito.
IN SEDE SINDACALE.-
Il tentativo di conciliazione può svolgersi anche in sede sindacale. Ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410 c.p.c. (per quanto concerne invio della richiesta, esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa, memoria, etc.).
Nel nuovo testo dell’art. 410 c.p.c. è stato eliminato il precedente richiamo alle “procedure di conciliazione previste da contratti ed accordi collettivi”: ciò induce a ritenere che il tentativo di conciliazione in sede sindacale possa ora essere esperito anche se la contrattazione collettiva non lo prevede espressamente.
Il verbale di conciliazione in sede sindacale deve essere depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il Direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il Giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto. Il verbale acquista in tal modo efficacia di titolo esecutivo. Il titolo esecutivo è il documento che consente, nel processo civile, di promuovere l’esecuzione forzata.
La giurisprudenza, per quanto concerne i requisiti di validità e di inoppugnabilità ex art. 2113 c.c. dei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c., considera invalido ed inidoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 2113 c.c. il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in assenza di uno dei due conciliatori.
Le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, a meno che non siano contenute in verbali di conciliazione sottoscritti in sede amministrativa, sindacale o giudiziale (artt. 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c.).
Di natura stragiudiziale, si sostanzia nell’accordo fra le parti di una controversia del lavoro realizzato con l’intervento e l’appoggio delle associazioni sindacali di categoria.
Il D.Lgs. 31-3-1998, n.° 80, oltre a riformare la materia del pubblico impiego, ha apportato altresì significative modifiche in materia di tentativo di conciliazione soprattutto allo scopo di deflazionare i carichi di lavoro degli organi giudicanti.
Antecedentemente, il tentativo di conciliazione disciplinato dall’art. 410, c.p.c., di carattere extragiudiziale, era meramente facoltativo e non precludeva l’inizio del processo.
Attualmente, invece, l’art. 410 c.p.c. (come riformato dall’art. 36 D.Lgs. 80/98) prevede che il tentativo di conciliazione extragiudiziale sia obbligatorio: esso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo (art. 412, bis c.p.c.).
Pertanto, chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c. deve:
— o avvalersi delle procedure di conciliazione eventualmente previste dai contratti o accordi collettivi;
— o, non intendendo avvalersi delle suddette procedure, promuovere, anche tramite l’associazione sindacale di appartenenza, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione nella cui circoscrizione si trova l’azienda.
La comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Il tentativo di conciliazione extragiudiziale, anche se nelle forme previste dai contratti e accordi collettivi, deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta.
Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato (art. 410 bis c.p.c.).
Se il tentativo di conciliazione riesce, si forma processo verbale che è depositato nella cancelleria del tribunale competente per territorio; il giudice, su istanza della parte interessata, accertatane la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto (art. 411 c.p.c.).
Se la conciliazione non riesce, si forma processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo; in esso le parti possono indicare la soluzione anche parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile l’ammontare del credito che spetta al lavoratore. In quest’ultimo caso il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo, osservate le disposizioni all’art. 411 c.p.c. (art. 412 c.p.c.).
Con la nota n.° 3428/2010 il Ministero del Lavoro ha fornito le primemistruzioni operative in ordine alle innovazioni apportate alla procedura di conciliazione dall’art. 31 della legge 4 novembre 2010, n.° 183. Invero, con la legge n.° 183 (cd. Collegato Lavoro), in vigore dal 24 novembre 2010, si conclude dopo poco più di un decennio l’esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione presso le Direzioni provinciali del lavoro, avviato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n.° 80. Il tentativo di conciliazione torna ad essere facoltativo,mentre permane la obbligatorietà dello stesso unicamente in relazione ai contratti certificati in base al decreto legislativo 10 settembre 2003, n.° 27 .
TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE.-
Il tentativo di conciliazione è obbligatorio in un solo caso: quando la futura controversia giudiziale riguardi un contratto che è stato certificato ai sensi dell’art. 75 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n.° 276, come modificato dall’art. 30 comma 4 della Legge n.° 183/2010 (“al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro secondo la procedura volontaria stabilita” nel titolo VIII del decreto legislativo n.° 276/2003).
Si precisa, in proposito, che sia le parti che i terzi, nella cui sfera giuridica il contratto certificato è destinato a produrre effetti, possono adire l’autorità giudiziaria per:
erronea qualificazione del contratto;
difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione;
vizi del consenso;
Tuttavia essi sono obbligati a rivolgersi previamente alla stessa Commissione di Certificazione che ha certificato il contratto e chiedere che sia esperito il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c.
DIFFERENZE CON LA CONCILIAZIONE MONOCRATICA.-
La conciliazione ex art. 410 c.p.c. non va confusa con la conciliazione monocratica ex art. 11 del Decreto legislativo n.° 124/2004, tenuta sempre presso la Direzione Provinciale del Lavoro.
DECADENZE.-
A seguito della modica dell’art. 6 della Legge 15 luglio 1966, n.° 604, l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita entro il termine di 270 (duecentosettanta) giorni - che decorrono dal termine di decadenza di cui al primo comma dell’art. 6 cit. - dal deposito del ricorso nella Cancelleria del Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al Giudice del Lavoro deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Tali nuove disposizioni si applicano anche:
a tutti i casi di invalidità del licenziamento;
ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto;
al trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del Decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo;
ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge 4 novembre 2010, n.° 183, con decorrenza dalla scadenza del termine;
ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al Decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della legge 4 novembre 2010, n.° 183, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;
alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento; in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n.° 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
Le controversie di lavoro possono essere distinte in:
individuali, concernenti i diritti di un singolo prestatore di lavoro;
plurime, che riguardano i diritti individuali di più prestatori di lavoro; e, infine,
collettive, concernenti i diritti generali dei prestatori di lavoro.
L’oggetto sul quale ruota e/o s’impernia una controversia in materia di lavoro può riguardare sia aspetti di carattere economico, sia aspetti normativi.
Per quanto concerne l’ambito degli aspetti economici, esso può riguardare: le differenze retributive, il trattamento di fine rapporto, il pagamento o meno del lavoro straordinario etc. etc. ; mentre gli aspetti normativi possono consistere negli aspetti contemplati dai contratti collettivi di lavoro vertenti sulle mansioni, sul licenziamento illegittimo, gli avanzamenti di carriera.
Il processo del lavoro è regolamentato dalle norme di cui agli artt. 409 ss. c.p.c..
Il nostro ordinamento ha previsto un rito speciale - introdotto con la Legge 11 agosto 1973, n.° 533 - per la trattazione di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro ed in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria.
La disciplina del processo del lavoro costituisce il frutto di un iter legislativo giunto al suo approdo con la promulgazione della L. 11 sgosto 1973, n.° 533.
Una disciplina del processo del lavoro esisteva già nel codice del 1940, che ad essa avevav riservato il titolo quarto del libro secondo, dedicato al processo di cognizione. Tale titolo quarto era rubricato «Norme per le controversie in materia corporativa» ed era suddiviso in quattro capi, dedicati rispettivamente alle controversie collettive, alle controversie individuali di lavoro, alle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nonché alle controversie individuali in materie regolate da norme corporative.
La soppressione dell’ordinamento corporativo, ed in particolare degli organi competenti ad emanare norme corporative (R.D.L. 3 agosto 1943, n.° 721), avevva implicitamente abrogato il capo primo; mentre il mantenimento in vita delle norme corporative già esistenti fino alla loro modifica (D.L.L. 23 novembre 1944, n.° 369) lasciava al capo quarto uno stretto margine di applicabilità in via di graduale eliminazione. Rimanevano operanti i due capi intermedi: il secondo, dedicato alle controversie individuali di lavoro, ed il terzo dedicato alle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie [Crisanto Mandrioli, DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, III Tomo].
Il rito speciale del lavoro, introdotto dalla L. n.° 533/1973, si applica alle controversie relative a tutti i rapporti di lavoro subordinato, sia a quelle riguardanti obbligazioni caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato, sia a quelle in cui tale rapporto si presenti come antecedente o presupposto necessario della situazione di fatto posta a fondamento della domanda.
Il rito del lavoro si applica anche a rapporti non inerenti l’esercizio dell’impresa, ossia a rapporti alle dipendenze di datori di lavoro non imprenditori.
La controversia si può riferire a qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, anche non ancora costituito o già cessato, nonché a tutti gli aspetti del rapporto.
Il rito speciale in oggetto si applica, inoltre, anche a controversie estranee all’ambito del rapporto di lavoro subordinato privato, quali quelle relative a rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, se caratterizzati da prestazione d’opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale, a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, a prestazioni previdenziali ed assistenziali obbligatorie.
L’art. 409 c.p.c. si preoccupa di individuare le controversie individuali soggetto al rito del lavoro, disponendo: “Si osservano le disposizioni del presente capo nelle controversie relative a :
i rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di una impresa;
rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie;
rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato;
rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica;
rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, semprechè non siano devoluti dalla legge ad altro giudice”.
I caratteri del processo del lavoro, alla luce della riforma introdotta dalla L. 11.8.1973, n.° 533, sono i seguenti:
- oralità, in quanto solamente gli atti introduttivi devono essere redatti per iscritto;
- immediatezza, in quanto tra il deposito del ricorso e l’udienza di discussione non dovrebbero decorrere più di 60 giorni;
- massima concentrazione degli atti processuali;
- ampliamento dei poteri istruttori del giudice.
OGGETTO.-
La controversia si può riferire a qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, anche non ancora costituito o già cessato, nonché a tutti gli aspetti del rapporto.
Quindi, oltre alle normali pretese di natura retributiva ed alle impugnazioni dei licenziamenti, rientrano nella disciplina in esame anche le controversie aventi ad oggetto ad esempio:
la costituzione del rapporto di lavoro;
l’impugnazione dei trasferimenti individuali;
l’applicazione di sanzioni disciplinari;
il risarcimento di danni conseguenti a violazioni di regole imperative (mancata fruizione di ferie, danni da infortunio, mancato versamento dei contributi previdenziali, etc.);
il risarcimento di danni all’immagine professionale;
l’inquadramento del lavoratore (attribuzione a mansioni superiori o inferiori, demansionamento, etc.);
la violazione degli obblighi di fedeltà e di non concorrenza;
il mobbing;
le molestie sessuali;
il trasferimento d’azienda;
la cessazione del rapporto associativo e del rapporto lavorativo del socio lavoratore con la società cooperativa;
gli atti aventi ad oggetto rinunzie o transazioni.
Il rito speciale in oggetto si applica, inoltre, anche a controversie estranee all’ambito del rapporto di lavoro subordinato privato, quali quelle relative a:
rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, se caratterizzati da prestazione d’opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale (art. 409 n. 3 c.p.c.);
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, lavoratori a progetto, procacciatori d’affari, amministratori di società di capitali, amministratori di condominio.
prestazioni previdenziali ed assistenziali obbligatorie (art. 442 c.p.c.);
contratti agrari (rapporti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto), o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto, ferma restando, però, la competenza delle sezioni specializzate agrarie previste dalla legge n. 320/1963 (art. 409 n. 2 c.p.c.);
locazione e comodato di immobili urbani e affitto di aziende (art. 447-bis c.p.c.), innanzi al Giudice ordinario.
FACOLTATIVITA’ DEL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE PRESSO LE DIREZIONI PROVINCIALI DEL LAVORO. -
In relazione alle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie (arbitrali), solo ove cio’ sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale. La clausola compromissoria, a pena di nullita’, deve essere certificata dagli organi competenti (art. 31). La clausola compromissoria non puo’ essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non puo’ riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro.
Tutte le controversie saranno arbitrabili, ad eccezione di quelle connesse al licenziamento, riservate al giudice ordinario: il licenziamento dovrà essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta.
L’impugnazione del licenziamento e’ inefficace se non e’ seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilita’ di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo (art. 32).
Altre novità, cui si accenna, rinviando alla lettura della Legge 183/2010, sono:
- il rafforzamento dell’istituto dell’apprendistato, con la previsione di poter assolvere all’ultimo anno di obbligo scolastico (cioè a partire dai 15 anni) imparando un mestiere in azienda;
- nuove sanzioni amministrative pecuniarie in caso di violazione della normativa sull’orario di lavoro (art. 7);
- nella ipotesi di lavoro sommerso scatterà la sospensione dell’attività imprenditoriale, disposta nei casi più gravi e anche dove l’autorità ispettiva riscontri violazioni in materia della normativa antinfortunistica;
- sarà considerato reato il mancato versamento delle trattenute previdenziali ai co.co.co. ed ai lavoratori a progetto;
- a differenza dei datori di lavoro privati, le pubbliche amministrazioni sono tenute a comunicare, entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data di assunzione, di proroga, di trasformazione e di cessazione, gli eventi relativi ai rapporti di lavoro (art. 5).
Con l’entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n.° 183, che ha modificato l’art. 410 c.p.c., a far data dal 24 novembre 2010, chi intende proporre un’azione in giudizio non è più obbligato a promuovere un previo tentativo di conciliazione. L’obbligo permane esclusivamente qualora la controversia riguardi contratti certificati. Quindi, in linea generale, il tentativo di conciliazione è meramente facoltativo e non costituisce più una condizione di procedibilità della domanda (la legge n.° 183/2010 ha abrogato, con l’art. 31 comma 9 anche gli artt. 65 e 66 che disciplinavano il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
Le parti (e, quindi, sia il lavoratore che il datore di lavoro) prima di adire il Giudice del Lavoro, possono promuovere il tentativo di conciliazione, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato, presso la Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro della provincia in cui è sorto il rapporto oppure della provincia in cui si trova l’azienda oppure della provincia in cui si trovava la dipendenza dell’azienda al momento della fine del rapporto.
Nel caso di rapporti di collaborazione, agenzia e rappresentanza, il tentativo di conciliazione può essere promosso unicamente presso la Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante o del titolare del rapporto di collaborazione.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento alla Direzione Provinciale del Lavoro.
Copia della richiesta del tentativo di conciliazione, a seguito della modifica dell’art. 410 c.p.c., deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte.
Nella richiesta la parte è tenuta a precisare:
nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta, nonché la sede;
il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.
Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la Commissione di Conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. Entro i dieci giorni successivi al deposito della memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale, la Commissione di Conciliazione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Trattasi di termini non perentori.
Dinanzi alla Commissione di Conciliazione il lavoratore può farsi assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della Commissione di Conciliazione. Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la Commissione di Conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
Delle risultanze della proposta formulata dalla Commissione di Conciliazione e non accettata senza adeguata motivazione il Giudice del Lavoro eventualmente adito deve tener conto all’esito del successivo giudizio per la decisione sulle spese di giudizio. Per tale ragione, ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi dell’art. 415 c.p.c. devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito.
IN SEDE SINDACALE.-
Il tentativo di conciliazione può svolgersi anche in sede sindacale. Ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410 c.p.c. (per quanto concerne invio della richiesta, esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa, memoria, etc.).
Nel nuovo testo dell’art. 410 c.p.c. è stato eliminato il precedente richiamo alle “procedure di conciliazione previste da contratti ed accordi collettivi”: ciò induce a ritenere che il tentativo di conciliazione in sede sindacale possa ora essere esperito anche se la contrattazione collettiva non lo prevede espressamente.
Il verbale di conciliazione in sede sindacale deve essere depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il Direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il Giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto. Il verbale acquista in tal modo efficacia di titolo esecutivo. Il titolo esecutivo è il documento che consente, nel processo civile, di promuovere l’esecuzione forzata.
La giurisprudenza, per quanto concerne i requisiti di validità e di inoppugnabilità ex art. 2113 c.c. dei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c., considera invalido ed inidoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 2113 c.c. il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in assenza di uno dei due conciliatori.
Le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, a meno che non siano contenute in verbali di conciliazione sottoscritti in sede amministrativa, sindacale o giudiziale (artt. 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c.).
Di natura stragiudiziale, si sostanzia nell’accordo fra le parti di una controversia del lavoro realizzato con l’intervento e l’appoggio delle associazioni sindacali di categoria.
Il D.Lgs. 31-3-1998, n.° 80, oltre a riformare la materia del pubblico impiego, ha apportato altresì significative modifiche in materia di tentativo di conciliazione soprattutto allo scopo di deflazionare i carichi di lavoro degli organi giudicanti.
Antecedentemente, il tentativo di conciliazione disciplinato dall’art. 410, c.p.c., di carattere extragiudiziale, era meramente facoltativo e non precludeva l’inizio del processo.
Attualmente, invece, l’art. 410 c.p.c. (come riformato dall’art. 36 D.Lgs. 80/98) prevede che il tentativo di conciliazione extragiudiziale sia obbligatorio: esso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo (art. 412, bis c.p.c.).
Pertanto, chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c. deve:
— o avvalersi delle procedure di conciliazione eventualmente previste dai contratti o accordi collettivi;
— o, non intendendo avvalersi delle suddette procedure, promuovere, anche tramite l’associazione sindacale di appartenenza, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione nella cui circoscrizione si trova l’azienda.
La comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Il tentativo di conciliazione extragiudiziale, anche se nelle forme previste dai contratti e accordi collettivi, deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta.
Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato (art. 410 bis c.p.c.).
Se il tentativo di conciliazione riesce, si forma processo verbale che è depositato nella cancelleria del tribunale competente per territorio; il giudice, su istanza della parte interessata, accertatane la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto (art. 411 c.p.c.).
Se la conciliazione non riesce, si forma processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo; in esso le parti possono indicare la soluzione anche parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile l’ammontare del credito che spetta al lavoratore. In quest’ultimo caso il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo, osservate le disposizioni all’art. 411 c.p.c. (art. 412 c.p.c.).
Con la nota n.° 3428/2010 il Ministero del Lavoro ha fornito le primemistruzioni operative in ordine alle innovazioni apportate alla procedura di conciliazione dall’art. 31 della legge 4 novembre 2010, n.° 183. Invero, con la legge n.° 183 (cd. Collegato Lavoro), in vigore dal 24 novembre 2010, si conclude dopo poco più di un decennio l’esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione presso le Direzioni provinciali del lavoro, avviato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n.° 80. Il tentativo di conciliazione torna ad essere facoltativo,mentre permane la obbligatorietà dello stesso unicamente in relazione ai contratti certificati in base al decreto legislativo 10 settembre 2003, n.° 27 .
TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE.-
Il tentativo di conciliazione è obbligatorio in un solo caso: quando la futura controversia giudiziale riguardi un contratto che è stato certificato ai sensi dell’art. 75 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n.° 276, come modificato dall’art. 30 comma 4 della Legge n.° 183/2010 (“al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro secondo la procedura volontaria stabilita” nel titolo VIII del decreto legislativo n.° 276/2003).
Si precisa, in proposito, che sia le parti che i terzi, nella cui sfera giuridica il contratto certificato è destinato a produrre effetti, possono adire l’autorità giudiziaria per:
erronea qualificazione del contratto;
difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione;
vizi del consenso;
Tuttavia essi sono obbligati a rivolgersi previamente alla stessa Commissione di Certificazione che ha certificato il contratto e chiedere che sia esperito il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c.
DIFFERENZE CON LA CONCILIAZIONE MONOCRATICA.-
La conciliazione ex art. 410 c.p.c. non va confusa con la conciliazione monocratica ex art. 11 del Decreto legislativo n.° 124/2004, tenuta sempre presso la Direzione Provinciale del Lavoro.
DECADENZE.-
A seguito della modica dell’art. 6 della Legge 15 luglio 1966, n.° 604, l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita entro il termine di 270 (duecentosettanta) giorni - che decorrono dal termine di decadenza di cui al primo comma dell’art. 6 cit. - dal deposito del ricorso nella Cancelleria del Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al Giudice del Lavoro deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Tali nuove disposizioni si applicano anche:
a tutti i casi di invalidità del licenziamento;
ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto;
al trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del Decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo;
ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge 4 novembre 2010, n.° 183, con decorrenza dalla scadenza del termine;
ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al Decreto legislativo 6 settembre 2001, n.° 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della legge 4 novembre 2010, n.° 183, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;
alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento; in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n.° 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.