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Il potere disciplinare del datore di lavoro

Colori
Ph. Anna Fasolo / Colori

Principi. Riferimenti normativi nel Codice Civile

L’articolo 2106 del Codice Civile attribuisce al datore di lavoro il “potere disciplinare” in base al quale l’inosservanza da parte del lavoratore degli obblighi derivanti dagli articoli 2104, Codice Civile rubricato “Diligenza del prestatore di lavoro” e 2105 Codice Civile rubricato “obbligo di fedeltà”, può generare l’applicazione di sanzioni disciplinari.

Queste due norme rappresentano il fondamento del potere disciplinare del datore di lavoro, ma il suo esercizio è oggi regolamentato dall’articolo 7, Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) e dai CCNL. Tale disciplina è tesa a incanalare e limitare il potere disciplinare al fine di garantire la posizione del lavoratore.

Pertanto, il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell’impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica tutelato dall’articolo 41 Cost.; ciò nonostante a norma dell’articolo 7, Statuto dei Lavoratori, la sanzione disciplinare è irrogabile a condizione che vengano, preventivamente, contestati gli addebiti al lavoratore in modo che possa esporre le proprie difese. L’articolo 7 Statuto dei Lavoratori delinea i vari passaggi del procedimento disciplinare e ne detta i tempi.

 

La procedura disciplinare introdotta nel c.d. Statuto dei Lavoratori

La pubblicità del codice disciplinare

Un elemento importante concerne la “pubblicità del codice disciplinare”.

In particolare, il primo comma del citato articolo 7 prevede l’obbligo per il datore di lavoro di portare a conoscenza dei lavoratori le norme concernenti le infrazioni e le relative sanzioni, nonché le procedure di contestazione delle stesse. Il medesimo articolo prevede che tale pubblicità debba avvenire tramite affissione del c.d. codice disciplinare in luogo accessibile a tutti.

Il codice disciplinare costituisce, dunque, quell’insieme di regole di condotta che il lavoratore è tenuto ad osservare sul luogo di lavoro. Lo stesso, normalmente, prevede una predeterminazione o una tipizzazione delle infrazioni, sanzioni e delle relative procedure di contestazione.

Il codice disciplinare, peraltro, può essere predisposto dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale oppure anche, unilateralmente, dal datore di lavoro.

Occorre tuttavia, rilevare che normalmente è lo stesso CCNL a disciplinare la materia; a livello aziendale (sia esso pattizio o unilaterale) vi è semplicemente un recepimento di quella disciplina con una sua eventuale integrazione. Sul punto è sufficiente richiamare il principio secondo cui una fonte di rango inferiore (come può essere il contratto aziendale o il contratto personale) non può in nessun caso derogare in peggio rispetto a quanto previsto da una fonte superiore (CCNL o legge) a tutela del lavoratore.

In presenza di contratti collettivi applicabili, il codice disciplinare deve essere conforme a quanto in essi stabilito (articolo 7 Legge n. 300/197 Statuto dei Lavoratori).

In mancanza, la determinazione delle sanzioni, è rimessa alla disposizione unilaterale del datore di lavoro[1]. Anche in questo caso, tuttavia, dovrà trovare applicazione il principio della proporzionalità tra condotta e sanzione.

La ratio concernente la pubblicità del codice disciplinare sancisce il principio fondamentale per il quale chi è perseguito per un’infrazione deve essere posto in grado di conoscere l’infrazione stessa e la sanzione[2]. Tale garanzia, tuttavia, trova integrale applicazione per la validità delle sanzioni disciplinari conservative, come il richiamo, l’ammonizione, la multa, la sospensione, ma non anche del licenziamento disciplinare.

La giurisprudenza ritiene, infatti, che la pubblicità del codice disciplinare non sia necessaria qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Per quanto riguardano le modalità della pubblicità, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la pubblicità mediante affissione costituisce un elemento essenziale per l’esercizio del potere disciplinare, non potendosene considerare equipollenti mezzi diversi di comunicazione[3].

Come detto il codice deve essere affisso in luogo accessibile a tutti nel senso che deve trattarsi di luogo di facile accesso, ossia di comune e frequente transito di tutti i lavoratori e non solo di alcuni[4].

Tale requisito è elemento fondante ai fini del legittimo esercizio del potere disciplinare in quanto la sua assenza inficia l’intero procedimento determinando la nullità della sanzione adottata. La pubblicità del codice disciplinare, infatti consente al lavoratore di conoscere i comportamenti vietati e sanzionati, oltre che garantire il fine primario della norma: la predeterminazione della normativa in materia disciplinare, impedendo anche al datore di lavoro di discostarsene e, conseguentemente, ponendo le basi per assicurare obiettività ed imparzialità.

Per questo motivo la giurisprudenza ha ritenuto che i mezzi di pubblicità del codice disciplinare diversi dall’affissione in luogo accessibile a tutti, non equipollenti e pertanto non ammissibili.

Infatti, l’affissione, oltre a consentire la conoscenza della normativa, consente anche un controllo diffuso garantendo ufficialità e oggettività della stessa. Una pronuncia di rilevante sul punto è quella della Cassazione Sez. Unite n. 1208 del 5 febbraio 1988[5] la quale ricompone la precedente diatriba giurisprudenziale. Gli ermellini sottolineano che "Poiché le norme disciplinari non si dirigono ai lavoratori individualmente considerati, ma hanno di mira il complessivo elemento personale dell’azienda, non è concepibile che, nell’ambito della stessa azienda (o unità produttiva), le norme disciplinari esistano e siano vincolanti per taluni e non per altri. Conseguenza questa che si potrebbe verificare, qualora si ammettessero mezzi di esteriorizzazione di carattere individuale, anche se applicabili alla generalità dei lavoratori". Di conseguenza, viene poi affermato che il codice disciplinare è un atto unilaterale recettizio e come tale ad esso si applica l’articolo 1334, Codice Civile il quale prevede che l’efficacia dell’atto si produca al momento della conoscenza dello stesso da parte della persona alla quale è diretto, pertanto esso avrà effetto in quanto reso noto alla collettività cui è destinato.

Pertanto, in conclusione si afferma "Dalle considerazioni esposte, consegue che la opzione del legislatore a favore dell’affissione, rispetto ad altri ipotizzabili mezzi di esteriorizzazione, già risultante dalla letterale formulazione della norma, non è arbitraria, né meramente indicativa, ma prescrittiva ed esecutiva, in quanto trova la sua ratio nella natura e funzione dell’atto cui si riferisce".

Attualmente, pertanto è orientamento consolidato considerare l’affissione del codice disciplinare quale unica forma di pubblicità valida non sostituibile con altri mezzi (ad esempio la consegna a mano ai lavoratori).

La mancata pubblicità del codice disciplinare comporta l’impossibilità della instaurazione di un legittimo procedimento disciplinare e di conseguenza la nullità della sanzione adottata.

Secondo il costante e ormai consolidato orientamento giurisprudenziale la pubblicazione del codice disciplinare non è invece requisita essenziale in tutti quei casi in cui il comportamento sanzionato sia "immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito perché contrario al cd. minimo etico[6] [7] o a norme di rilevanza penale"[8]. Sempre sul tema della necessità di pubblicità del codice disciplinare si veda anche la Sent. Cass. n. 9900 del 14 maggio 2015[9] che in merito a un caso di distruzione di beni aziendali (documenti) ritiene "intrinseco ai doveri di fedeltà e diligenza del lavoratore quello di non distruggere i beni aziendali" e pertanto ritiene legittima la sanzione irrogata. Sul medesimo tema si veda anche Cass. n. 18462 del 29 agosto 2014[10] la quale afferma che la condotta sanzionata (mancato rispetto dell’orario di lavoro), risulta essere, evidentemente, "illecita sul piano civilistico in quanto la mancata effettuazione della prestazione, o di parte di essa, rompe il rapporto sinallagmatico che distingue qualunque rapporto civilistico" riconoscendo pertanto non necessario il requisito della pubblicità del codice disciplinare.

In un’altra pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ovverosia nella Sent. Cass. n. 16381 del 17 luglio 2014, sancisce il discrimine tra le ipotesi in cui la suddetta pubblicità risulta essere requisito necessario o meno, e sottolinea come debba, necessariamente, distinguersi tra "illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all’organizzazione, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se previste ed inserite nel codice disciplinare da affiggere ai sensi della legge n. 300 del 1970 articolo 7 e quelli costituiti da comportamenti, manifestamente, contrari agli interessi dell’impresa e dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare". Dunque, con la testé citata sentenza n. 16381 la Suprema Corte di Cassazione ha rilevato che per le sanzioni espulsive sussiste la necessità della previsione del codice disciplinare per le sole condotte che in relazione alle peculiarità dell’attività o dell’organizzazione dell’impresa possano integrare ipotesi di giusta causa o giustificato motivo oggettivo, per cui il motivo di impugnazione della sentenza della Corte d’appello, basato sulla prospettata necessità della pubblicità del codice disciplinare è superata dalla considerazione che nel caso specifico si trattava di violazioni avvertite dalla coscienza sociale quale minimo etico, quali, appunto, il fatto di inveire violentemente contro un collega di lavoro, fornire informazioni denigratorie sull’operato di un collega e non osservare le direttive di lavoro.

 

La contestazione degli addebiti

Un altro elemento importante è la contestazione del fatto motivo di addebito. All’uopo, il secondo comma dell’articolo 7 della legge n. 300/1970 prevede l’obbligo, per il datore di lavoro che intenda adottare un provvedimento disciplinare, di contestare l’addebito al lavoratore.

La contestazione deve essere specifica, deve esporre i fatti in modo chiaro per consentire al lavoratore di individuare il comportamento contestato e difendersi. Inoltre, la contestazione deve essere tempestiva rispetto all’accertamento della condotta sanzionabile, e non può essere modificata nei tratti essenziali in un momento successivo. La contestazione infine deve essere fatta per iscritto nei casi in cui il comportamento contestato porti all’applicazione di una sanzione più grave del rimprovero verbale.

In merito al requisito della tempestività, in quanto soggetto a possibili interpretazioni è utile ricordare alcune pronunce della Corte di Cassazione nelle quali si dettagliano le caratteristiche dello stesso. In particolare la Sentenza della Cassazione n. 13167 del 8 giugno 2009[11], nel caso specifico di un licenziamento avvenuto tre mesi dopo l’accertamento dei fatti posti a fondamento del procedimento disciplinare, ha affermato "che la contestazione deve avvenire in immediata connessione temporale con il fatto disciplinarmente rilevante, con la precisazione che il requisito dell’immediatezza ha da essere interpretato con ragionevole elasticità, ma, comunque, in maniera da evitare che il datore di lavoro possa  ritardare la contestazione in modo da rendere difficile la difesa da parte del lavoratore". Nello specifico caso del licenziamento, che è basato sulla impossibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro come conseguenza del venir meno del vincolo di fiducia pare a maggior ragione non ammissibile un lasso di tempo molto ampio tra l’accertamento del fatto e la contestazione dello stesso. Inoltre, la Corte sottolinea come la necessaria tempestività della contestazione sia elemento posto a garanzia del lavoratore consentendo una maggiore possibilità di difesa (reperimento materiale, testimoni, ecc.) e, infine, la tardiva contestazione sarebbe contraria al principio di correttezza e buona fede al quale si devono ispirare tutti i rapporti contrattuali.

Tale requisito di immediatezza è stato comunque interpretato dalla giurisprudenza in maniera relativa consentendo un contemperamento degli interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti disciplinari senza avere acquisito i dati essenziali e quelli del lavoratore a vedersi contestare i fatti entro un ragionevole termine dalla commissione degli stessi. Sul punto si veda la Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, n. 4724 del 27 febbraio 2014[12], la quale ha ribadito tale consolidato orientamento affermando che il “principio di immediatezza” suddetto può "essere compatibile con un intervallo necessario in relazione al caso concreto e alle complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, ad un’adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle giustificazioni da lui fornite". Si afferma inoltre che "gravi sul datore di lavoro l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (v. sul punto anche Cass. n. 1101/2007; Cass. n. 2023/2006)".

La suddetta pronuncia affronta anche il tema del rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale sempre con riferimento al requisito della immediatezza della contestazione. A tal proposito si afferma che "l’aver presentato a carico di un lavoratore denuncia per un fatto penalmente rilevante, connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti". Nello stesso modo si era già pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 1101 del 18 gennaio 2007[13] considerando illegittimo il licenziamento di una dipendente avvenuto 9 anni dopo il compimento del fatto, anche se pendente processo penale. Nella suddetta pronuncia si afferma che "il principio della immediatezza della contestazione, nell’ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l’imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza (Cass. n. 4502/2008[14])". La Corte sottolinea come, con riferimento a fatti di rilievo penale, non sia comunque possibile per l’imprenditore far trascorrere un lasso di tempo troppo ampio tra il compimento del fatto e la contestazione in quanto ciò intaccherebbe l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore e inoltre "la presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale non esclude l’onere, per il medesimo di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale egli abbia già rilevato elementi di responsabilità (Cass. 9 agosto 2004 n. 15361[15])". Pertanto il datore di lavoro deve portare avanti il procedimento disciplinare anche in caso di pendenza del processo penale e affinché la contestazione possa essere considerata tempestiva si deve considerare "il momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti".

 

Diritto di difesa del lavoratore

Altro elemento importante è il diritto di difesa. In merito l’articolo 7 legge n. 300/1970 quinto comma prevede che i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere adottati prima che siamo trascorsi 5 giorni dalla contestazione dell’addebito. Questo lasso di tempo rappresenta il termine a difesa entro il quale il lavoratore può presentare le proprie giustificazioni in relazione al fatto contestato. Essendo la contestazione un atto recettizio il suddetto termine (che può essere ampliato dai CCNL: deroga in melius) decorre dal momento in cui il lavoratore riceve la contestazione. Il lavoratore può esercitare il suo diritto di difesa nella forma che ritiene più opportuna (scritta o orale) e può farsi assistere da un rappresentante sindacale (non da un legale). Nel caso in cui richieda di essere sentito oralmente il datore di lavoro ha l’obbligo di accogliere tale richiesta.

In tale ambito, appare, rilevante l’obbligo delle parti di conformare il proprio comportamento ai principi di correttezza e buona fede e spesso sul tema della richiesta di audizione da parte del dipendente è intervenuta la giurisprudenza. Nello specifico caso di licenziamento disciplinare impugnato per violazione del procedimento, la Corte di Cassazione, con la Sent. n. 8845 del 1° giugno 2012, ha affermato che la richiesta del lavoratore di essere sentito in orario di lavoro e presso una determinata sede non rientrasse tra i suoi diritti e la convocazione dello stesso fuori dall’orario di lavoro e in un altro ufficio non ledesse il suo diritto di difesa, poiché non si traduceva in un aggravio delle modalità attuative dello stesso. Tale principio risulta essere orientamento costante della Corte che lo ha affermato anche in altre pronunce (cfr. Cass. n. 7493 del 31 marzo 2011).

A seguito di richiesta di audizione e conseguente convocazione infatti il lavoratore non ha diritto alla modifica della data o del luogo dell’incontro a meno che le condizioni stabilite rendano "difficile o gravoso il diritto di difesa". Come già sottolineato l’audizione è un diritto del lavoratore che può essere esercitato tramite richiesta rivolta al datore di lavoro. Tale diritto non è alternativo alla presentazione di difese scritte. Infatti, il lavoratore potrebbe procedere a presentare le sue giustificazioni scritte e chiedere di essere comunque sentito per via orale. La presentazione di difese scritte non consente pertanto al datore di lavoro di escludere l’audizione del lavoratore che ne abbia fatto richiesta. A tal proposito la Corte di Cassazione (cfr. Sent. n. 21066 del 9 ottobre 2007) ha richiamato alcuni indirizzi giurisprudenziali fornendo importanti principi in tema di procedimento disciplinare. Viene affermato il diritto del lavoratore ad "essere sentito", ma la richiesta deve essere tempestiva, nei 5 giorni dalla contestazione, e non deve avere un mero scopo dilatorio, ma la necessità di fornire ulteriori chiarimenti e precisazioni. Spetta però al giudice la valutazione della necessità di un’audizione dopo la presentazione di difese scritte. La Corte infine afferma che il provvedimento disciplinare può essere irrogato prima della scadenza del richiamato termine qualora il lavoratore abbia esercitato pienamente il suo diritto di difesa presentando giustificazioni scritte senza riserva di produzione di ulteriore documentazione o richiesta di audizione.

Tuttavia considerata la brevità del termine appare suggeribile per il datore di lavoro far decorrere interamente lo stesso anche ai fini di una più ampia valutazione e ponderazione della sanzione da adottare.

 

Tipologia di sanzioni disciplinari

Trascorso il termine posto a garanzia della difesa del lavoratore, il datore di lavoro può adottare la sanzione disciplinare, naturalmente vi deve essere coincidenza tra l’addebito contenuto nella contestazione e quello contenuto nella comminazione della sanzione disciplinare. Le sanzioni elencate dall’articolo 7 legge 300/1970 sono: richiamo verbale (per il quale non è necessario seguire il procedimento disciplinare), richiamo scritto, multa fino a 4 ore della retribuzione, sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 giorni, licenziamento (specifico richiamo alla legge 15 luglio 1966, n. 604). La sanzione deve essere proporzionata rispetto al fatto commesso e ai fini della recidiva non si può tener conto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro adozione.

A fini dell’effettuazione del giudizio di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione si tiene conto sia della oggettiva connotazione del fatto che dell’elemento psicologico (dolo o colpa). Secondo la Corte di Cassazione (cfr. Sent. n. 17208 del 4 dicembre 2002[16]) inoltre si deve tener conto della posizione del dipendente all’interno dell’organizzazione aziendale, attribuendo maggiore o minore gravità al fatto commesso dal dipendente in relazione alla posizione professionale rivestita. La giusta causa di licenziamento nel caso specifico è stata ravvisata non nella sottrazione di piccole somme di denaro, ma alla violazione delle procedure da parte del dipendente che "in ragione della sua posizione apicale all’interno dello stabilimento, avrebbe dovuto dimostrare il massimo esempio di correttezza sul lavoro, anche di fronte agli altri dipendenti". La Corte evidenzia come sia rilevante, oltre alla lesione del rapporto fiduciario, anche l’elemento "costituito dal disvalore ambientale che può assumere la condotta del dipendente, anche per la sua specifica posizione professionale e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale, specialmente se a lui sottoordinati".
Per quanto riguarda il contenuto della comunicazione relativa alla adozione della sanzione, la Cassazione (cfr. Sent. n. 1026 del 21 gennaio 2015[17]) afferma che sia sufficiente anche un generico richiamo a quanto già contestato nelle precedenti comunicazioni in quanto l’elemento di garanzia a favore del lavoratore è dato dalla "contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’indicazione dei motivi, ad una motivazione penetrante, analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle" (conforme a Cass. n. 15320 del 7/8/2004 e n. 10461 dei 21/10/1998).

Si segnala infine che taluni CCNL prevedono termini entro i quali il datore di lavoro debba procedere all’adozione del provvedimento, appare pertanto suggeribile esaminare anche tale fonte ai fini di poter avere il quadro completo della disciplina applicabile al caso concreto.

A Norma del comma 6 dell’articolo 7 della legge 300/1970 entro 20 giorni dall’applicazione della sanzione il lavoratore, qualora la ritenga illegittima, può procedere ad impugnarla. Può infatti promuovere la costituzione, tramite la Direzione Provinciale del Lavoro, di un collegio di conciliazione composto da 3 membri (uno per parte, più un terzo membro scelto di comune accordo o in mancanza d’accordo nominato dalla DPL). L’attivazione della procedura di impugnazione comporta la sospensione della sanzione fino alla decisione del Collegio. Il datore di lavoro che riceva invito a nominare il proprio rappresentante nell’ambito del collegio deve farlo entro 10 giorni, in caso di mancata nomina la sanzione non ha alcun effetto. In alternativa può anch’egli rivolgersi all’autorità giudiziaria ma sempre entro il termine di 10 giorni dalla ricezione del suddetto invito e, anche in questo caso, la sanzione resta sospesa.

Il lavoratore che intenda impugnare la sanzione ma non voglia seguire la procedura di conciliazione appena descritta può scegliere di far riferimento alle procedure conciliative previste dai CCNL (se esistenti) oppure rivolgersi all’autorità giudiziaria.

 

[1] Cass. 11/4/78 n. 1717, in Foro it., I, 2811

[2] Cass. 25/9/04 n. 19306

[3] Cass. S.U. 5/2/88 n. 1208, in Foro it. 1988, I, 1556; Cass. 8/3/90 n. 1861, in Dir. Prat. Lav. 1990, 1295

[4] Pret. Firenze 28/3/97 in Rivista itaLegge Dir. Lav. 1998, II, 294

[5]Il cosiddetto codice disciplinare, quale insieme delle norme disciplinari unilateralmente poste dal datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 7 primo comma della legge 20 maggio 1970 n. 300, è efficace solo se portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti, mentre resta esclusa la possibilità di considerare come equipollenti mezzi di comunicazione che abbiano come destinatari i singoli lavoratori individualmente considerati, trattandosi di Disposizioni indirizzate ai lavoratori dipendenti non come singoli ma come componenti di una collettività indeterminata e variabile. ( Conf 474/87, mass n 450207; ( Conf 4245/85, mass n 441739; ( Conf 3322/84, mass n 435356; ( Conf 1104/81, mass n 411660; ( Conf 1717/78, mass n 391128; ( contra 2228/86, mass n ( contra 1249/85, mass n 439353; ( contra 4754/78, mass n 394451)”.

[6] Cass. Sent. n. 11120 del 27 aprile 2021 “in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionato dal datore di lavoro sia immediatamente percepibile come illecito dal dipendente perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, l’affissione del codice disciplinare non rappresenta una condizione di legittimità dell’esercizio dell’azione disciplinare”.

[7] Per minimo etico si intende la violazione dell’etica comune e dei doveri fondamentali del rapporto di lavoro, nonché la violazione di norme penali, quindi si fa riferimento a comportamenti percepibili dal lavoratore come illeciti.

[8] Cass. n. 9790 del 13 maggio 2015;

[9]La distruzione da parte del dipendente di beni aziendali, quali sono i dati aziendali memorizzati nel personal computer, costituisce violazione dei doveri di fedeltà e di diligenza ed integra, pertanto, giusta causa di licenziamento”.

[10]Il comportamento del lavoratore subordinato, consistente nella mancata effettuazione, anche parziale, della prestazione lavorativa è in contrasto con il principio della sinallagmaticità delle prestazioni, sicché assume rilievo sotto il profilo disciplinare senza necessità di espressa previsione nel relativo codice”.

[11]In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell’articolo 7, terzo e quarto comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede - sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. Né può ritenersi che l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata "ex lege", senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell’organizzazione aziendale. (Nella specie, relativa ad un dipendente bancario, la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio, ha escluso l’immediatezza della contestazione, intervenuta dopo oltre tre mesi dalla ricezione delle risultanze acquisite dall’ispettorato interno, tanto più che il competente servizio faceva parte della medesima Direzione Generale della banca)”.

[12]In tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti contestati, e la conseguente denuncia all’autorità inquirente, non fanno venire meno l’obbligo dì immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell’affidamento e del diritto di difesa dell’incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. Ne consegue che il differimento dell’incolpazione è giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dall’integrale accertamento degli stessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non giustificato un ritardo nell’elevazione della contestazione di quasi sette mesi, dall’inizio degli accertamenti ispettivi, nell’ambito di una filiale di un istituto bancario di notevoli dimensioni)”.

[13]In tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione. Ne consegue che l’aver presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti”.

[14]Ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso. (Nella specie la S.C., nel rigettare il ricorso del dipendente, croupier del Casinò di Sanremo, ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito in ordine alla tempestività dell’intimazione del licenziamento disciplinare avvenuta all’esito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per furto aggravato nei confronti del dipendente medesimo il quale, quattro anni prima, già era stato sospeso cautelarmente nell’immediatezza del rinvio a giudizio per lo stesso reato di furto”.

[15] Il principio della immediatezza della contestazione disciplinare, la cui ratio riflette l’esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore di procrastinare la contestazione medesima, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore; peraltro, la presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale non esclude l’onere, per il medesimo di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale egli abbia già rilevato elementi di responsabilità”.

[16] “L’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’articolo 2119, cod. civ. che, in tema di licenziamento, reca una "norma elastica", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l’operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, tutelato dall’articolo 4, Cost., con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’articolo 41, Cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall’articolo 2106, cod. civ., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori "standards" valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell’impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi (Nella specie la S.C. ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice di merito, che aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento del responsabile della piccola cassa di uno stabilimento industriale - il quale si era appropriato di due somme di lire 1.200.000 e lire 500.000 - valorizzando, tra l’altro, la gravità della condotta, in considerazione della posizione lavorativa del dipendente)”.

[17]Nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’indicazione dei motivi, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle”.