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Come scegliere il nome e costruire il brand del proprio studio legale

Un breve e utile vademecum
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Dare il nome al proprio studio legale oggi non è poi così semplice. La ragione? Beh, una volta il nome dell’avvocato era il nome dello studio; oggi che la professione sta diventando sempre più in forma aggregata, ci sono più avvocati, quindi più nomi e la scelta dev’essere frutto di compromessi, ma anche efficace nei confronti del pubblico. Spesso gli acronimi che vengono scelti sommando le iniziali dei nomi non sono né efficaci per un brand, né semplici da ricordare.

Che fare dunque?

Più che di naming, un tempo, si poteva parlare di nome e cognome. I tempi cambiano e con esso anche la scelta del nome dello Studio. Non solo oggi i figli possono portare accanto al cognome paterno quello materno, ma lo Studio può avere un nome tutto suo, associato o meno che sia.

E qui si aprono le porte alla fantasia, alla creatività, al “vorrei ma non posso”.

La passerella vede sfilare di tutto di più, dagli acronimi ai nomi di fantasia, dai cognomi con l’aggiunta di “& partners” piuttosto che “& soci”.

 

Scelte ispirate al marketing o al gusto personale?

La scelta, ci chiediamo, è frutto di una valutazione all’interno di una strategia di marketing più ampia? Scegliere il nome della propria creatura professionale dovrebbe rappresentare un tassello di una strategia, invece molti ancora scelgono il nome dello Studio con gli stessi criteri dei nomi per i figli: eredi di quello del nonno, oppure dettato dal suono che piace o dalla moda del così fan tutti. A pensarci bene, tuttavia, non dovrebbe essere così. Ad un figlio il nome lo si dà decisamente su base emotiva, ad uno studio meno. Se ho intenzione di dare allo Studio un respiro internazionale, magari la scelta della lingua inglese potrebbe essere opportuna quanto vincente, cosa invece meno utile laddove sia confinato alla provincia tutta italica. Allo stesso modo, se il mio target sono aziende di grandi dimensioni, far comparire la scritta “& Partners” o “& Soci”, può trasmettere l’idea della consistenza, dell’organizzazione dello Studio, cosa invece sconsigliata se il nostro target è il cittadino in cerca di consulenza e calore umano.

E queste non sono che considerazioni superficiali e preliminari, giusto per fissare qualche paletto ispirato al marketing e quindi alla comunicazione finalizzata alla diffusione e alla vendita di un servizio.

 

La scelta del nome dello studio (naming)

All’interno della strategia di marketing dello Studio il naming rappresenta un punto decisamente centrale.

Il naming infatti ha una funzione insieme descrittiva ed evocativa di un servizio. Da un lato deve essere facilmente riconoscibile sul mercato, in modo che sia altrettanto facilmente individuabile tra molti e possa generare senso di affezione nel pubblico. Dall’altro deve essere sufficientemente diverso dagli altri in modo da non confondersi nella massa. Il naming avrà poi funzione descrittiva del prodotto o servizio, in modo da non generare possibilmente dubbi ed equivoci sulla natura e destinazione del servizio o prodotto.

Uno studio legale che si occupi, per esempio, solo di diritto del lavoro, non sarà utile che si chiami ABCD, cioè con un acronimo di per sé insignificante agli occhi del pubblico. Molto più opportunamente potrà, invece, inserire nel proprio brand la parola job, oppure law, o lav. In questo modo aiuterà il pubblico ad indirizzare la propria interpretazione verso un certo settore escludendone altri. Uno studio che si occupi di diritto ambientale, potrà opportunamente valutare l’inserimento di parole o frazioni di esse che rimandino all’argomento, in italiano o in inglese che sia.

 

La costruzione del “marchio” di studio (brand)

Altro tema aperto è se poi sia utile accompagnare al nome anche un simbolo, un logo, appunto. Il brand, quale marchio, sarà formato alla fine dal nome prescelto, dal lettering usato (font, dimensione, editing del testo, colore, spaziatura, disposizione) e dalla presenza di un eventuale simbolo grafico. Anche qui si aprono innumerevoli scenari. Partiamo col dire che siamo d’accordo che alla fine il brand debba piacere a chi lo commissiona e ci dovrà convivere, ma altrettanto vero è che ogni qual volta ci lanciamo in attività di naming e di branding stiamo entrando nel territorio della comunicazione e marketing, dove ci sono leggi e regole proprie, se si vogliono fare le cose fatte bene. Andare ad istinto, a piacere puro, può giocare brutti scherzi.

Infatti, buona regola è cercare di mettersi sempre nei panni di chi, ignaro della nostra esistenza, si imbatte nel brand che siamo andati a creare. Chiediamoci dunque cosa può comprendere il malcapitato soggetto, cosa capirà del simbolo, nome o sigla che troverà davanti a sé. A ciò va aggiunta una ulteriore considerazione: che le persone hanno sempre meno tempo e voglia di fare fatica per comprendere.

Dunque ogni scelta criptica che richieda la “Stele di Rosetta” per essere decodificata potrebbe risultare poco efficace e strategica. Chiediamoci perché i grandi brand di prodotti consumer, per esempio, stanno personalizzando i prodotti con nomi comuni degli ipotetici consumatori e fanno pubblicità al limite della banalità per non rischiare di non essere compresi.

 

Scegliere di distinguersi o semplicemente complicarsi la vita?

Molti professionisti fanno ancora scelte molto ricercate del nome, si inerpicano su strade poco battute e provano un piacere narcisistico puro nel trovare soluzioni che solo loro sanno cosa significano. Ecco questo è il tipico caso di confusione del concetto di “essere diversi” con quello di “essere complicati”. Il giusto mix, invece, dovrebbe essere quello di non apparire banali e soprattutto comuni – che oggi corrisponde ad anonimi – ma nello stesso tempo risultare di facile comprensione per chiunque. Come diceva Leonardo da Vinci “La semplicità è la massima sofisticazione”.

Mi trovo spesso a fare da “mediatore” tra il mondo dei grafici creativi a cui è demandato dallo Studio l’incarico di realizzare il brand (il più delle volte esclusivamente da un punto di vista grafico) e i titolari. Il confronto è a volte esilarante nelle sue spiegazioni dalla scelta del colore dominante al tipo di font da utilizzare al payoff da inserire. Si va da chi vuole un certo colore nel logo perché ha in ufficio la scrivania dello stesso colore, a chi sceglie un lettering ricercato perché vuole trasmettere l’idea di fare ancora le cose in modo artigianale. Quando poi il grafico o il creativo spiega l’impatto dei colori sulla psiche umana, si vede nello sguardo del legale lo smarrimento di chi si addentra in un mondo sconosciuto. La conclusione è, quasi sempre, che dopo decine di prove si torna all’idea iniziale. Della serie, meglio non lasciare la via vecchia per quella nuova, con buona pace del marketing e del branding.

 

Gli elementi del naming e del branding

Vediamo ora quali sono gli elementi da considerare nel naming e nel branding, dove il primo è lo studio che si riferisce alla scelta del nome, in funzione descrittiva del prodotto o servizio e il secondo alla creazione di un marchio, in funzione relazionale con l’utente (si dice che il brand è ciò che resta nella testa dei nostri interlocutori):

  • il nome/acronimo/sigla;
  • il font utilizzato, tipo di carattere e la dimensione (wording o lettering);
  • il colore;
  • disposizione del testo;
  • payoff, l’anima del prodotto o servizio che si vuole trasmettere;
  • simbolo grafico (logo).

A ciò vanno aggiunte le seguenti valutazioni nella scelta del name e poi del brand:

  • il valore culturale che porta con sé;
  • l’affinità con il target di riferimento, in modo che vi si rispecchi;
  • lo storytelling: l’avere cioè una storia da raccontare;
  • lo standing: il posizionamento in termini di valore percepito;
  • la relazione: il far sentire i fruitori parte di una esperienza con caratteristiche specifiche.

 

Il payoff

È arrivato il momento di focalizzarci sul payoff.

Il payoff è la frase che viene solitamente posta sotto il nome ed entra a far parte ad ogni titolo del brand, del marchio. Il payoff può avere funzione più o meno descrittiva, ma spesso ha una funzione di tipo emotivo, rappresentando la parte a completamento dell’esperienza che il brand vuole trasmettere. Il payoff risponde alla domanda “qual è la nostra essenza”, “cosa vogliamo lasciare”, “perché lo facciamo”, “cosa ci anima”.

Per uscire dai confini dello studio legale, prendiamo ad esempio due famosissimi payoff, quello della Apple “Think different” e quello della Nike “Just do it”. Tanto sono legati al name che addirittura tendono a sostituirlo, ad essere riconoscibili anche separatamente dal nome. Se vi dico “Impossible is nothing” cosa vi viene in mente? Esatto l’Adidas, questo infatti è il suo payoff.

 

Il claim

Il payoff, in quanto parte integrante del brand, ad integrazione del name, è qualcosa che non va cambiato facilmente, anzi, dovrebbe rimanere sempre abbinato al name. Ciò lo differenzia dal claim, invece, che è un vero e proprio spot pubblicitario e che come tale ha una durata limitata nel tempo, utile per una certa situazione e non per un’altra. In definitiva, se il claim è un vero e proprio slogan, il payoff non lo è, ma anzi completa e rafforza il nome dello Studio. Il payoff è composto da poche parole, non più di due o tre, mentre il claim può essere una frase vera e propria. Un esempio di payoff italiano è quello della Galbani con “vuol dire fiducia”.

 

Concludendo, facciamo attenzione nella scelta del nome dello Studio e nella definizione di un brand a tre macro aspetti:

A) il nome/acronimo/sigla (con funzione esplicativa);

B) il payoff (con funzione relazionale)

C) il logo/simbolo (con funzione descrittiva).

 

Se avete bisogno di consulenza, ricordo che la mia società Myplace Communications si occupa specificamente di legal marketing.