Come gestire i conflitti nello studio legale
Come gestire i conflitti nello studio legale
Parlare di conflitti per l’avvocato dovrebbe essere qualcosa di naturale, dal momento che la professione legale è per definizione portata alla gestione e composizione – giudiziale o extragiudiziale – del conflitto. Co tale termine si possono ricomprendere una grande serie di situazioni, dal negoziato all’arbitrato, dalle tecniche di composizione bonaria a quelle legate alle procedure fino all’esecuzione forzata. Questa volta, tuttavia, il conflitto i cui parleremo in questo articolo è di tutt’altra natura, perché non riguarda la sfera “tecnica” della professione e dunque l’assistenza tecnica di un cliente per la tutela di un proprio diritto o interesse, bensì la sfera interna dello studio, quindi le relazioni interne tra collaboratori e colleghi dello studio legale.
In questo ambito, sono due le situazioni in cui è possibile trovarsi a gestire un conflitto:
- quando si è parti in causa;
- quando si è terzi chiamati a dirimere il conflitto.
Saper comunicare in modo efficace, non vuol dire avere la capacità di convincere l’interlocutore, né saper ottenere ragione; queste due situazioni rientrano nella retorica e dialettica, comunicazione persuasiva, altra cosa rispetto alla comunicazione efficace di cui oggi ci occuperemo.
Saper comunicare (saper mettere in comune) vuol dire innanzitutto capirsi, saper condividere e solo dopo aver fatto questo, cercare un punto di incontro.
Quali sono gli elementi che caratterizzano una comunicazione efficace?
Possiamo sintetizzarli in tre momenti peculiari:
- capacità di essere assertivi;
- capacità di fare domande aperte;
- capacità di ascolto attivo.
Dette così sembrano semplici, se non ovvie, ma vediamole da vicino per capire meglio in cosa consistono queste attitudini alla comunicazione.
Capacità di comunicare in modo assertivo
Per poter instaurare relazioni positive e quindi prevenire innanzitutto i conflitti, oppure gestirli laddove insorti, va sviluppata la capacità di saper comunicare ciò che pensiamo e ciò che proviamo in modo assertivo. Per assertivo si intende la capacità di manifestare sia il nostro pensiero e opinione (elemento razionale), sia le nostre emozioni e sentimenti o stati d’animo (elemento emotivo), in modo da affermare noi stessi e mettere in condizione l’interlocutore di venirne a conoscenza senza fraintendimenti. In sostanza, essere assertivi è l’opposto del “tenersi dentro le cose”, oppure dell’essere concilianti ad ogni costo e plasmarsi così sui desideri e opinioni degli altri. L’assertivo riesce con le dovute modalità a prendersi i propri spazi e i tempi, in modo da far conoscere agli interlocutori il proprio pensiero e i propri sentimenti. Il non assertivo, invece, tende a plasmarsi come l’acqua in un contenitore sulle esigenze e opinioni degli altri, salvo poi esplodere come una pentola a pressione di fronte alla classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, accusando poi tutto il mondo di non comprenderlo e di non ascoltarlo. L’assertivo riesce a comunicare il proprio punto di vista senza prevaricare l’altro e senza essere prevaricato dall’altro. In questo modo si può realizzare un vero dialogo, un confronto tra le parti e non uno scontro.
Imparare a fare domande aperte
Questo è una nota dolente per moltissimi. Se prestate attenzione, vedrete che il più delle volte non si è è abituati a fare domande al nostro interlocutore; intendo domande vere, non giudizi camuffati da domande (retoriche). Molti sentenziano invece di chiedere, intuiscono, immaginano, interpretano, fanno i lettori della mente altrui. Nascono così equivoci, fraintesi e si prendono cantonate galattiche. Quante volte è capitato a ciascuno di noi di aver interpretato quella email in un certo modo, oppure di aver intuito ciò che l’altro intendeva con quel comportamento, per poi dover toccare con mano di aver decisamente sbagliato? Intanto però il danno (relazionale) è fatto. Il nostro interlocutore si è visto appioppare intenzioni che non aveva; si è visto distorcere il proprio pensiero dall’interpretazione soggettiva altrui; si è visto accusare di cose mai dette o fatte. Una volta fatto il danno entrano poi in gioco l’orgoglio, la vergona, il senso di colpa, la rabbia, la frustrazione, la delusione. Gli ingredienti ci sono tutti per un mix esplosivo e infatti spesso si finisce a fare discussioni intorno al nulla e a cercare ragioni arrampicandosi sugli specchi.
Tutto cambia laddove nella comunicazione relazionale si impara a sostituire le interpretazioni soggettive e la lettura della mente altrui con le domande. Semplice, in fondo. Domande vere, però. Cioè domande che non sottendono un giudizio, una risposta e che sono aperte, ciò permettono all’interlocutore di argomentare il proprio punto di vista (razionale) e le proprie sensazioni (emotive). Le domande chiuse sono quelle che, invece, pongono un’alternativa di risposta: si o no, vero o falso.
Invece di sostituirci all’interlocutore d’ora in poi proviamo a chiedere cosa ha capito, cosa pensa, cosa prova, cosa sente, cosa lo ha spinto a fare una certa cosa e via dicendo. Per dirla in “giuridichese”, andiamo all’interpretazione autentica del pensiero altrui, chiedendo allo stesso autore spiegazioni e chiarimenti.
Allenare l’ascolto attivo
Una volta imparato a fare più domande aperte, va da sé che dobbiamo allenare anche l’attitudine all’ascolto. Anche qui sembra di dire cose scontate, ma l’esperienza ci dice che ben pochi sono coloro che sanno davvero ascoltare gli altri. Va detto inoltre che l’ascolto è una attitudine più presente nelle donne che negli uomini, ma al di là di questo, pochi, davvero pochi sanno dedicarsi a quanto l’altro sta dicendo. L’ascolto attivo è infatti l’ascolto dedicato, interessato. Si realizza quando non semplicemente si sente l’interlocutore, ma quando si partecipa a ciò che sta dicendo. Questo è ascolto attivo, elemento fondamentale per coltivare l’empatia, la sintonia tra le persone.
Oggi l’ascolto attivo è decisamente più difficile di un tempo, complice lo stress, la velocità delle attività, ma anche la tecnologia. Sarà capitato un po’ a tutti di parlare con un interlocutore che di fronte alle nostre parole distoglie lo sguardo digitando sul cellulare, oppure sulla tastiera del computer. Hai voglia in questi casi a sentirti dire “tu continua pure, io ti seguo…”. Sì mi seguirai pure, ma non mi stai guardando, non sei con me. L’interlocutore capta, più che ascolta, sente qua e la, più che condividere. Poi, sulla base dei frammenti captati risponde e dice la sua, come se avesse chiaramente seguito punto per punto.
Altra situazione è invece legata alla comunicazione per la gestione dei conflitti da arbitro o mediatore che richiederebbero un’altra puntata di questo speciale per essere sviluppate.
Ricordiamoci, quindi, che comunicare per gestire i conflitti vuol dire innanzitutto comprendersi, confrontarsi apertamente, interessarsi in modo genuino al punto di vista altrui e saper ascoltare dando spazio all’altro.
Tutto questo vale in ogni contesto e tanto più all’interno dello studio legale, in quanto l’avvocato, più di altre professioni, è portato alla retorica e alla dialettica, ma poco alla vera comunicazione. Inoltre, se c’è una professione che per sua natura nasce individualistica è proprio quella forense; per poter creare un team, poterlo gestire, motivare e farlo crescere è fondamentale saper comunicare, solo così ci sarà lo spazio al confronto e alla condivisione di vision, mission e valori, oggi alla base di qualunque progetto professionale di ampio respiro.