x

x

Conferme e conflitti giurisprudenziali sul fronte dell’affido condiviso

La Cassazione ha dettato recentemente alcune regole giurisprudenziali che rappresentano la conferma dei principi espressi dalla legge 54/2006 sull’affido condiviso, entrata in vigore il 16 marzo 2006.

CASS. 16978/06

Una rilevante decisione afferma che l’affidamento condiviso può essere disposto anche senza la predeterminazione di regole di comportamento dei coniugi.

Dice letteralmente la sentenza Cass. 16978/06 “Non è contrario all’ordine pubblico l’affidamento condiviso del figlio senza la predeterminazione di regole di comportamento dei coniugi che valgano ad evitarne il conflitto”.

Vengono espressamente presi in esame i c.d. progetti educativi: in numerose proposte di legge ne era previsto l’obbligo della presentazione nella prima udienza presidenziale.

Nel “progetto” (frutto eventualmente di mediazione pre-processuale), doveva risultare la disponibilità delle parti ad assumersi la responsabilità genitoriale, la specificazione dei tempi e modalità di incontro con la prole, l’individuazione dei campi di intervento, delle reciproche competenze e delle possibilità finanziarie da destinare alle esigenze della prole, anche eventualmente in ordine a specifici capi di spesa.

In caso di progetto concorde, il giudice doveva esclusivamente prendere atto dell’accordo dei genitori: la decisione autonoma del giudice (che avrebbe stabilito i tempi e le modalità di incontro dei genitori con il figlio), era contemplata nelle sole ipotesi residuali di mancato accordo, oppure di accordi manifestamente contrari agli interessi dei figli, o infine nei casi di affidamento esclusivo.

In questi casi il giudice avrebbe deciso sulle proposte presentate dai singoli genitori.

Il testo unificato definitivo, votato alla Camera e poi approvato senza modificazioni al Senato, risentiva di varie carenze e ambiguità non esistenti nel testo originario; tra l’altro, veniva inopinatamente eliminato l’obbligo per entrambi i genitori di presentare un progetto educativo.

La Suprema Corte, con il riportato principio ha chiarito la portata della legge sull’affido condiviso, affidamento che il giudice dovrà valutare prioritariamente, pertanto anche in mancanza di un “progetto”.

Lo scrivente ritiene peraltro più idonea la prassi, instaurata da alcuni tribunali, di richiedere esplicitamente ad entrambe le parti il deposito di un progetto educativo sui tempi e modalità di incontro con la prole, sui campi di intervento, le reciproche competenze e le possibilità finanziarie di assumere specifici capi di spesa, o comunque una somma da destinare alle esigenze della prole.

Si tratta di elementi che riescono ad apportare al giudice un concreto contributo per quanto riguarda le decisioni relative alla prole.

Ma il principio va oltre.

Uno dei principali motivi di contrasto sull’applicazione dell’affido condiviso era quello dell’insanabile contrasto tra i genitori, in perenne conflitto tra di loro.

Era (ed è) possibile, anche in tal caso, fare ricorso all’affidamento condiviso ?

Oppure si tratta di una delle ipotesi in cui nell’interesse della prole, va disposto l’affidamento esclusivo ?

In via di logica, non si può rispondere affermativamente all’ultimo quesito, dovendosi in tale ipotesi ritenere applicabile l’istituto dell’affido condiviso ai soli casi di mancanza di conflitto, proprio quei casi che non hanno bisogno di una disciplina autoritaria, potendo risolvere all’interno della comunità coniugale, ancorché in via di separazione o di divorzio, le problematiche inerenti la prole.

Per cui è fin troppo ovvio sostenere che l’affido condiviso va disposto SEMPRE, anche se non soprattutto in caso di conflitto dei genitori.

Ne discende il corollario che il sistema giudiziario deve essere pronto a sostenere la massa d’urto dei genitori in conflitto, che giocoforza dovranno risolvere le molteplici problematiche davanti al giudice.

Dopo il primo impatto derivante dall’entrata in vigore della legge, è auspicabile che gli stessi genitori raggiungano quella maturità indispensabile per proporsi come figure di riferimento per la prole, agendo e confrontandosi con l’ex partner.

Insomma, la coppia disunita dovrà tornare unita nelle decisioni relative alla prole.

Per completezza di esposizione, riportiamo la massima della decisione 10 aprile 2006, N. 800 del Tribunale di Bologna (in www.affidamentocondiviso.it ), che riteniamo di dover condividere, secondo la quale i genitori dovranno impegnarsi nella predisposizione e attuazione di un programma concordato.

«L’affidamento dei figli ad entrambi i genitori non determina una parificazione circa modalità e tempi di svolgimento del rapporto tra i figli e ciascuno dei genitori, quanto piuttosto l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi e una condivisione delle decisioni di maggiore importanza; ne consegue che i genitori si dovranno impegnare nella predisposizione e attuazione di un programma concordato per l’educazione, la formazione, la cura e la gestione della prole, nel rispetto delle esigenze e delle richieste dei minori»

Altro principio, a conferma della principale regola dettata dalla legge sull’affido condiviso, viene sempre dalla Suprema Corte di Cassazione, che nella stessa recentissima sentenza n. 16978/06 (che tratta un caso incidentalmente collegato alla legge) esprime la massima

“L’affidamento condiviso dei figli è ora previsto come regola generale della l. 54/06”.

Probabilmente detta specificazione non risultava necessaria, in quanto sul punto il testo della legge appariva (ed appare) esplicitamente esauriente, anche ad un primo rapido esame del testo della legge, con riferimento agli artt.

1) 155, 1° comma “Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”

2) 155-bis “Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.”.

Ma come noto in Italia è sempre possibile sostenere tesi minoritarie o addirittura contrarie al buonsenso, per cui ogni conferma della corretta interpretazione di un principio generale, per quanto pacifica, va accolta con favore.

La regola generale implica la correlata regola negativa “L’affidamento esclusivo della prole è ora previsto come eccezione alla regola generale”.

Ciò significa non solo l’obbligo del giudice di motivare l’affidamento esclusivo, ma soprattutto di applicare regole generali per stabilire il detto affidamento esclusivo.

Insomma, in quali ipotesi va escluso l’affidamento condiviso?

La legge tace la risposta a tale interrogativo, limitandosi alla fin troppo generica previsione di “interesse esclusivo della prole” e di comportamenti “contrari”.

Tale previsione consente al giudice di utilizzare un criterio discrezionale, quello cioè fondato sulla propria educazione, sensibilità, modo di sentire, l’accettazione dell’ambiente in cui vive, per stabilire se il comportamento dell’altro genitore sia stato contrario all’interesse esclusivo del minore.

Così, ad esempio, la circostanza di un padre emigrante che per cinque anni sia rimasto a lavorare all’estero, per provvedere al mantenimento della famiglia, può essere considerata da un giudice che viva in un ambiente di emigranti come un titolo di merito, mentre può essere valutata sfavorevolmente da un diverso giudice, corrispondendo ad una oggettiva mancanza di rapporti continuativi con la prole.

Altro esempio, relativo ad un padre che non corrisponde (in tutto o in parte) l’assegno di mantenimento per il figlio, magari a causa di una oggettiva impossibilità momentanea, pur rimanendo presente nella vita del figlio.

Come sarà considerato tale comportamento ?

L’inadempimento sarà considerato contrario all’interesse della prole, e pertanto sarà disposto l’affidamento esclusivo del figlio alla madre, oppure sarà ritenuto più importante il rapporto equilibrato e continuativo del padre con il figlio?

Quale può essere la conclusione di tale discorso?

Quella di rimanere in attesa di esaurienti risposte giurisprudenziali, alle quali venga data la massima pubblicità per un ampio dibattito sul punto, che valga a livellare i giudizi dei magistrati di tutta Italia.

Cass. 18187/2006

Un’altra decisione che vale a dirimere alcuni dubbi interpretativi è stata presa sempre dalla Cassazione nella sentenza n. 18187 del 18 agosto 2006 n. 18187, che ha risolto un contenzioso tra un famoso cantante pugliese e l’altrettanto famosa ex moglie, specificando che l’affidamento condiviso, fondato sull’esclusivo interesse del minore attiene esclusivamente alla “qualità della vita” del minore stesso, senza alcun riferimento a questioni di carattere patrimoniale

La Corte d’Appello di Lecce, andando in contrario avviso rispetto al Tribunale di Brindisi (che aveva concesso un assegno di mantenimento a carico del padre di L. 6.000.000 per ognuna delle figlie) pur ritenendo opportuna la scelta, consensualmente adottata dai coniugi, di affidamento congiunto delle figlie minori, valutava che detto affidamento congiunto comportava che “l’onere di provvedere a tutti i bisogni delle figlie debba continuare a gravare paritariamente sui genitori», con l’ulteriore conseguenza di rigetto della domanda di assegno di mantenimento per le figlie proposta dalla donna.

La Cassazione censura espressamente detta sentenza, specificando che “Erra in modo evidente la Corte territoriale nell’attribuire all’affidamento congiunto una valenza patrimoniale prescindendo alla considerazione che lo stesso, fondato sull’esclusivo interesse del minore, attiene alla sua qualità di vita”.

Il discorso della Suprema Corte appare così interessante da suggerirci la citazione quasi integrale della decisione in esame.

In sostanza, detto affidamento congiunto, ove disposto, non può comportare necessariamente, in ordine al mantenimento dei figli, un “pari” obbligo patrimoniale a carico dei genitori, nel senso che dall’affidamento congiunto debba discendere l’obbligo per ciascun coniuge di provvedere «in via diretta» al mantenimento dei figli. Tale tipo di valutazione non può assolutamente essere consentita qualora si tenga conto che l’affidamento congiunto, come detto, attiene all’interesse del minore dal punto di vista del suo sviluppo, del suo equilibrio psicofisico, anche in considerazione di situazioni socio-ambientali, del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, mentre la corresponsione dell’assegno di mantenimento per i figli ha natura patrimoniale-assistenziale (cd. assistenza materiale), ed è finalizzata a sostenere le spese necessarie per consentire le attività dirette a detto sviluppo psicofisico del minore (senza esclusione del relativo obbligo in caso di raggiungimento della maggiore età da parte dei figli ove detto assegno si renda comunque necessario).

In definitiva, l’affidamento congiunto è istituto che, per le sue finalità riguardanti l’interesse dei figli, non esclude l’obbligo del versamento di un contributo, ove ne sussistano i presupposti, a favore del genitore con il quale i figli stessi convivono.

In proposito, è da rilevare come anche la recente legge n. 54/2006 recante dissipazioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, pur se successiva alla data dell’impugnata decisione, introduca il cd. principio della bigenitorialità, con ciò ovviamente privilegiando l’interesse “esistenziale” del minore e prescindendo, in particolare, sia dal rapporto patrimoniale tra i due ex coniugi, sia dagli aspetti economici riguardanti la vita del minore, autonomamente disciplinati dal quarto comma di detto art. 155 c.c. in cui è previsto che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito e che «il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità», sulla base di vari parametri, tra cui «le risorse economiche di entrambi i genitori».

È un’ulteriore e definitiva conferma che l’affidamento congiunto non può certo far venir meno.

L’obbligo patrimoniale di uno dei genitori a contribuire con la corresponsione di un assegno al mantenimento dei figli in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza. Ne consegue che censurabile è la decisione in esame là dove ha erroneamente fatto derivare, come conseguenza “automatica”, dall’affidamento congiunto il principio che ciascuno dei genitori provvede in modo diretto ed autonomo alle esigenze dei figli.

LA COMPETENZA A DECIDERE SULL’AFFIDAMENTO DEI FIGLI NATURALI

La fretta è sempre una cattiva consigliera.

Così la nostra Camera dei deputati, dopo aver tenuto in naftalina per oltre quattro anni la proposta unificata (tratta dalle 11 proposte di legge presentate nella XIV legislatura) sull’affido condiviso nel giro di 2 sole sedute notturne ha licenziato, approvandolo, un testo di legge che gli stessi deputati hanno definito “un papocchio”, perché ha lasciato irrisolte tutte le questioni dibattute per anni.

L’unica giustificazione a tale poco edificante comportamento era l’urgenza di approvare comunque un testo, per consentire al senato di apportare le necessarie modifiche.

Tanto, poi, la Camera avrebbe approvato in tutta fretta il testo modificato dal Senato.

Senonchè al Senato ha prevalso il timore che una nuova lettura alla Camera del testo modificato non avrebbe consentito l’approvazione della legge nella legislatura in corso, provocando così le ire delle numerose associazioni di padri separati, che da anno si battevano per l’introduzione del principio dell’affidamento esclusivo.

Questa, appena riassunta, la genesi di una legge criticata da tutti i commentatori e sulla quale si è subito auspicato un rapido intervento emendativi del legislatore.

Che cosa era possibile attendersi da una legge tecnicamente “errata”?

Una confusione giurisprudenziale, che si è puntualmente verificata alla prima occasione.

Va detto che la confusione nasce da lontano, trovandosi già nei brocardi del diritto romano una risposta ambivalente al quesito relativo all’interpretazione e applicazione della legge.

Vedi in diritto romano, le contraddittorie regole

-- Si voluit dixit, si non voluit non dixit

-- Espressa nocent, non espressa non nocent

-- Ubi lex non distinguit, neque nos distinguere debemus

-- Semper in obscuris quod minimum est sequimur

Insomma, come dare torto a Cicerone, quando pronunciava il famoso

aforisma “Tutto ciò che procede dal diritto è incerto” ?

Lo stesso conflitto si ripropone oggi, sulla competenza per la regolamentazione dell’esercizio della potestà sui figli naturali e sugli aspetti economici.

Il Tribunale per i minorenni di Trento (con decreto 11 aprile 2006) ed il Tribunale per i minorenni di Bologna (con decreto 26 aprile 2006) attribuivano detta competenza al Tribunale per i Minorenni.

Il Tribunale per i Minorenni di Milano (con decreto 12 maggio 2006) privilegiava la competenza del Tribunale Ordinario.

Criticando detto decreto, ritenevano la competenza del tribunale per i minorenni il Tribunale di Milano (con sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) ed il Tribunale di Monza (con sentenza 29 giugno 2006).

Tornava sulla questione, ribadendo il proprio punto di vista, il Tribunale per i minorenni di Milano (con decreto 7 luglio 2006).

Ovviamente, le due opposte tesi non possono non lasciare sconcertato l’operatore del diritto, che non trova nella giurisprudenza risposte specifiche ed adeguate alle possibili problematiche.

Così, tanto per fare un esempio, un avvocato che si trovi a dover agire

dove depositerà il ricorso ? Nella cancelleria del tribunale ordinario o in quella del tribunale per i minorenni ?

Tra l’altro, entrambe le tesi esposte nelle (contrastanti) decisioni in commento appaiono in qualche misura sostenibili.

Converrà esaminare brevemente le diverse decisioni per consentire al lettore di farsi una propria opinione sulla diatriba.

Il Tribunale per i minorenni di Trento (con decreto 11 aprile 2006) ed il Tribunale per i minorenni di Bologna (con decreto 26 aprile 2006), ritenevano pacifica la propria competenza a giudicare.

«In tema di affidamento di figli di genitori non uniti in matrimonio, la competenza spetta al Tribunale per i Minorenni, applicandosi al relativo procedimento tutta la nuova disciplina riguardante l’affidamento condiviso dei figli nella sua interezza»

Il Tribunale per i Minorenni di Milano (con decreto 12 maggio 2006) privilegiava la competenza del Tribunale Ordinario, declinando la propria competenza in merito a controversia relativa all’affidamento di figli naturali.

Il tribunale per i Minorenni rilevava che “l’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 richiama integralmente le norme precedenti tanto sostanziali che processuali, senza neppure la clausola “in quanto compatibili”, e che queste ultime presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli artt. 706 e segg. c.p.c.”, addivenendo quindi all’affermazione della competenza funzionale esclusiva del Tribunale Ordinario in merito a tutte le controversie relative all’affidamento dei figli naturali ed alla soluzione delle questioni economiche connesse sul presupposto che la nuova normativa abbia unificato la competenza giurisdizionale in merito in capo al Giudice già funzionalmente competente per la trattazione dei procedimenti di separazione dei coniugi, non modificando invece la norma ex art. 38 disp. att. c.c. che, nel prevedere tassativamente una serie di procedimenti riservati alla competenza del Tribunale per i Minorenni, definendo altresì il carattere residuale della competenza del Tribunale ordinario per quelli ivi non richiamati, dispone altresì, al comma III, che “in ogni caso il tribunale provvede in camera consiglio sentito il pubblico ministero” e quindi con rito camerale, ritenendo perciò l’incompatibilità di tale disposizione con la ritenuta e generalizzata applicazione del rito ex artt. 706 e segg. c.p.c. ai procedimenti richiamati ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006.

Il Tribunale di Milano (con sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) riteneva la competenza del tribunale per i minorenni, criticando apertamente la (precedente) decisione del tribunale per i Minorenni di Milano, che definiva «apodittica» ed «arbitraria».

Secondo il Tribunale di Milano, il legislatore dell’affido condiviso non aveva affrontato la materia dell’unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio.

Pertanto la competenza per materia a conoscere l’affidamento di un minore nato dall’unione naturale dei genitori deve permanere in favore del Tribunale per i Minorenni in forza del combinato disposto ex artt. 317bis e 38 disp. att. c.c., rimasto immutato nella sua formulazione originaria nonostante l’intervenuta riforma legislativa.

Ed infatti il disposto innovativo ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006 prevede unicamente che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”; deve tuttavia rilevarsi come

Specifica il Tribunale di Milano che “la nuova normativa in esame, pur raccogliendo in effetti, nell’ampia intitolazione “disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, disposizioni sia di carattere sostanziale che di valenza processuale, non contiene peraltro alcuna disposizione espressa in tema di competenza giurisdizionale a conoscere delle controversie ivi contemplate”.

Più specificamente, “La norma richiamata ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006 prevede del resto l’applicabilità della nuova normativa non già solo ai “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”, ma anche – come espressamente enunciato nella prima parte del capoverso in esame – “in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio”, risultando così estesa a due procedimenti – l’uno soggetto a rito speciale e l’altro a rito ordinario di cognizione – in nessun modo modificati nella loro disciplina generale, giacché le uniche previsioni processuali introdotte dalla nuova normativa attengono unicamente al rito ex artt. 706 e segg. c.p.c. in tema di separazione dei coniugi”.

Lo stesso Tribunale riteneva “assolutamente indimostrato” il presupposto che la nuova normativa avesse unificato la competenza giurisdizionale in merito in capo al Giudice già funzionalmente competente per la trattazione dei procedimenti di separazione dei coniugi.

Si riteneva perciò “necessario e corretto accedere piuttosto ad una lettura sistematica della nuova normativa, che introduce criteri e principi sostanziali innovativi in materia di affidamento dei figli minori – siano essi naturali o legittimi – e di regolamento dei rapporti economici fra i genitori – coniugati o non – in funzione dell’interesse della prole, limitandosi invece ad introdurre norme di portata ben limitata e specifica per quanto attiene ai profili processuali (impugnabilità dei provvedimenti presidenziali in sede di separazione, competenza e disciplina dei procedimenti relativi ad eventuali controversie successive o ad inadempimenti al regime di affidamento già disciplinato con le modalità ordinarie, sanzioni applicabili ai genitori inadempienti).

Sembra perciò evidente che il legislatore abbia voluto estendere con massima ampiezza proprio la portata sostanziale di vigenza del dettato riformatore, senza affrontare invece ambiti ben più vasti ed impegnativi di intervento pure già prospettati e valutati in progetti normativi diversi, rimasti senza seguito, in materia di unificazione della competenza del Giudice della famiglia o comunque di unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio.

“Si appalesa all’evidenza arbitraria la lettura del dato normativo proposta dal Tribunale per i Minorenni di Milano, volta a desumere dal dettato legislativo, in realtà del tutto silente e perciò neutro al riguardo, una riforma tanto radicale ed innovativa, della quale si dibatte in dottrina e giurisprudenza da diversi decenni e sulla quale manca alcun conforto alla luce del dibattito parlamentare che ha portato all’emanazione della nuova disciplina”.

Secondo il Tribunale di Monza (con sentenza 29 giugno 2006).

«La nuova disciplina dell’affidamento condiviso non ha inciso a livello di riparto di competenze tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni; anzi, la circostanza che il giudice chiamato a decidere sull’affidamento condiviso debba contestualmente fissare anche “la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli” e che l’art. 155, co. 2, c.c., applicabile anche alle unioni di fatto, preveda l’adozione di “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, fa ritenere che non sia più proponibile lo sdoppiamento di competenze tra Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario, cosicché anche le determinazioni di ordine economico dovranno essere adottate dal giudice minorile nell’ambito dei rapporti di sua competenza»

Tornava sulla questione con un orientamento del tutto minoritario, il Tribunale per i minorenni di Milano, che con decreto 7 luglio 2006, ribadiva il proprio punto di vista.

LA DECISIONE DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI MILANO 7 LUGLIO 2006

Appare evidente, a parere di questo Tribunale, la volontà di una disciplina unitaria e di una decisione contestuale, essendo unica la norma sostanziale di riferimento. Ciò comporta che la divisione di competenze sino ad oggi esistente in relazione ai procedimenti relativi ai figli naturali (avanti al TM per i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli e avanti al TO per le domande di contenuto economico) è venuta meno.

Occorre quindi verificare quale sia l’autorità giudiziaria competente ad applicare la nuova disciplina nel caso di figli di genitori non coniugati, tenendo conto delle norme processuali contenute nella legge che determinano l’individuazione del rito applicabile. Su tale ultimo punto non può infatti trascurarsi che l’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 richiama integralmente le norme precedenti tanto sostanziali che processuali, senza neppure la clausola “in quanto compatibili”, e che queste ultime presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli artt. 706 e ss. c.p.c.. Non sembra infatti condivisibile l’affermazione di alcuni commentatori secondo la quale le norme processuali della legge si innesterebbero, per i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, sulla procedura camerale e ciò in quanto l’art. 2 della legge intitolato Modifiche al codice di procedura civile contiene disposizioni che si inseriscono come nuovi commi o come nuovi articoli all’interno della disciplina del capo I titolo II libro IV c.p.c. che quindi presuppongono. Sia il nuovo art 155 che l’art 4 l. 54/2006 nella parte in cui richiama «le disposizioni della presente legge», non sono richiamati dall’art 38 disp att cc, mentre sarebbe necessario, come già sottolineato, un richiamo espresso per escludere la competenza del Tribunale Ordinario. Non si ritiene inoltre dirimente né rilevante il richiamo all’espressione «procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» di cui all’art 4. Alcuni commentatori hanno osservato che se il legislatore avesse voluto attribuire al Tribunale Ordinario la competenza, avrebbe stabilito l’applicabilità delle nuove disposizioni anche ai «figli» di genitori non coniugati e non ai «procedimenti», relativi ai figli di genitori non coniugati, ritenendo che con tale espressione si sia voluto sottolineare l’intenzione del legislatore di riferirsi ai procedimenti già esistenti aventi ad oggetto l’affidamento e l’esercizio della potestà parentale sui figli naturali e, quindi ai procedimento di cui agli art 317 bis e 336 cc, già di competenza del Tribunale per i Minorenni. Peraltro tale tesi trascura che alla luce della riforma sono individuabili almeno 6 distinti procedimenti, alcuni nuovi, altri modificati sicchè deve ritenersi che a tali procedimenti voglia riferirsi il richiamo contenuto nella disposizione finale della legge. Tali procedimenti sono:

art. 155 cc e 706 e ss. cpc: separazione dei genitori;

art 155 bis cc e 710 cpc: opposizione all’affidamento condiviso;

art 155 ter cc e 710 cpc: modifiche al provvedimento di separazione;

art 155 quater cc e 710 cpc: modifica in materia di assegnazione della casa;

art 155 quinquies cc : disposizioni per i figli maggiorenni (che, come è ovvio, non sarebbe invocabile avanti al Tribunale per i Minorenni)

art 709 ter co 2 cpc: sanzioni, successive alla separazione, per violazione delle condizioni di separazione.

Come si vede non tutti i procedimenti concernono questioni relative all’affidamento (ed in particolare assegnazione casa, mantenimento, applicazioni di sanzioni al coniuge inadempiente), ed un procedimento non riguarda il figlio minorenne. Si tratta pertanto di vari “procedimenti” tutti applicabili ai figli di genitori non coniugati.

Laddove si richiama l’applicazione ai figli naturali delle «disposizioni della presente legge» non si fa alcuna distinzioni tra parte sostanziale e parte processuale che presuppone, come sopra già detto, l’applicazione delle norme di cui agli artt. 706 e ss c.p.c., pur ovviamente non dovendosi pervenire ad una pronunzia di separazione. Non appare infatti sostenibile il mantenimento della competenza in capo al Tribunale per i Minorenni con applicazione del rito di cui agli artt. 706 e seg. c.p.c. senza stravolgere la natura stessa del TM, la cui peculiarità, quanto alla presenza dei Giudici Onorari, è stata più volte sottolineata dalla Corte Costituzionale come fondamentale all’interno delle decisioni, esclusivamente di natura collegiale, di competenza di questa A.G. Elemento ulteriore può desumersi dall’art. 708 c.4° come novellato che prevede che i provvedimenti provvisori siano impugnabili avanti alla Corte di Appello senza alcun riferimento alla sezione per i Minorenni, viceversa indicata quale organo di secondo grado rispetto alle decisioni del TM dall’ultimo comma dell’art. 38 disp. att. c.c., presupponendo quindi, per ognuno dei procedimenti individuati e disciplinati dalla nuova legge, la competenza del Tribunale Ordinario. L’indicazione specifica dell’art. 708 c. 4° c.p.c., invece, porta ad escludere che i provvedimenti impugnabili possano essere adottati dal Tribunale per i Minorenni. Va infatti osservato che appare irragionevole sostenere che l’autorità ordinaria possa essere ritenuta competente per le modifiche di provvedimenti adottati dall’autorità minorile.

E’ stata inoltre modificata la competenza per tutti i procedimenti ex artt. 155 ter c.c. e 710 cpc, (compresi quelli relativi ai figli di genitori non coniugati ex art. 4 comma 2 della legge), da attribuirsi al Tribunale del luogo di residenza del minore. L’art 710 cpc è espressamente richiamato dall’art. 709 ter co 1 cpc il quale ha innestato alcune modifiche alla disciplina in atto ed ha introdotto una procedura del tutto nuova. Nella prima parte si disciplina la soluzione delle controversie insorte tra i genitori distinguendo tra l’ipotesi in cui sia pendente un procedimento (per le quali è competente il giudice che procede) e l’ipotesi in cui il giudizio di separazione sia esaurito. In quest’ultimo caso si prevede che la competenza sia del «Tribunale del luogo di residenza del minore». Pertanto se in seguito al provvedimento di separazione il minore ha cambiato residenza non sarà più competente il foro del convenuto. Il Tribunale di residenza del minore non può che essere il Tribunale Ordinario visto che le procedure ex artt 155 ter cc e 710 cpc - nonché le sanzioni e gli ammonimenti per il genitore inadempiente dopo che si è esaurita la prima procedura di cui al secondo comma dell’art 709 ter cpc - sono materia del tutto separata (sia dal punto di vista sostanziale che procedurale) rispetto all’originario procedimento ex art 155 cc e per la quale non vi è un richiamo dell’art. 38 disp. Att..

Ed altrettanto deve ritenersi quando uno dei due genitori attivi il procedimento relativo all’attribuzione della casa ai sensi dell’art 155 quater a seguito del mutamento della situazione di fatto (nuovo matrimonio, nuova convivenza more uxorio): anche in tal caso si tratta di un procedimento di modifica dei provvedimenti già in precedenza adottati, e per il quale si applica l’art. 710 c.p.c. e quindi il foro della residenza del minore con relativo mancato richiamo da parte dell’art. 38 disp. Att.. Né può certo ritenersi la competenza del Tribunale per i Minorenni per i figli maggiorenni (art. 155 quinquies).

Non appare pertanto convincente la tesi secondo cui il persistente richiamo, da parte dell’art. 38 disp. att. cc, dell’art. 317 bis c.c. che, a sua volta, avrebbe assorbito l’art. 155 c.c. riformato, avrebbe come conseguenza lo spostamento dell’intera competenza (con riferimento all’affido e al mantenimento dei figli naturali riconosciuti) ai Tribunale per i Minorenni che dovrebbero decidere su tali controversie (ma con alcune evidenti esclusioni quali le controversie relativi ai figli maggiorenni che potrebbero, peraltro, avere dei fratelli minorenni) con il rito camerale, ovvero, come ritenuto da alcuni, applicando il procedimento cautelare uniforme. Tesi cui questo Tribunale non ritiene di aderire in quanto non appaiono convincenti e sembrano contrastare con il complessivo impianto della novella. Non si ritiene, in particolare, di poter adattare procedimento camerale e natura contenziosa del rito, con l’emissione di conseguenti provvedimenti di condanna al pagamento di obbligazioni che costituiscano titolo esecutivo (si osserva che l’art. 148 c.c. espressamente prevede che il decreto emesso dal Presidente costituisca titolo esecutivo). Diverso è quanto accaduto in relazione al procedimento di cui all’art. 269 c.c. per il quale le SS.UU. della Cassazione (n. 5629/1996) hanno confermato la natura camerale del procedimento pur con gli adattamenti necessari a garantire le parti in ordine alla competenza per territorio, al diritto di difesa e di prova, all’applicazione dei termini ordinari previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c.. In tal caso infatti la Suprema Corte ha ritenuto di poter affermare l’applicabilità del rito camerale pur con gli opportuni adattamenti. Peraltro si tratta di tutt’altra fattispecie, ove è prevista dalla norma applicata l’emissione di sentenza (che costituisce, quindi, titolo esecutivo) ed espressamente è previsto, dall’art. 277 c.c., che il giudice possa anche dare i provvedimenti che stima utili per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui.

Lo stesso è a dirsi della applicabilità del rito del cautelare uniforme, rito che presuppone la attribuzione della natura cautelare ai provvedimenti provvisori emessi nella cause di affidamento della prole, cosa discutibile e controversa; inoltre il cautelare uniforme presuppone una pronunzia da parte di un giudice monocratico, da controllarsi attraverso una pronuncia collegiale, mentre il Tribunale per i Minorenni pronunzia sempre e solo collegialmente, con l’evidente difficoltà di creare collegi diversi rispetto a quelli che abbiano pronunziato in via provvisoria. Resta in ogni caso il problema della mancata previsione legislativa della attribuzione espressa della efficacia esecutiva ai decreti emessi dal TM all’esito del rito camerale, pur essendovi indubbiamente numerosi esempi di provvedimenti costituenti titoli esecutivi in mancanza di una attribuzione espressa del legislatore potendosi peraltro ricavare l’efficacia esecutiva dalla interpretazione sistematica di un complesso di norme.

In conclusione più coerente con l’intero complesso di norme sostanziali e processuali appare l’attribuzione della competenza relativa ai procedimenti di affidamento dei figli naturali ai Tribunali Ordinari.

Non può infine sottacersi che l’individuazione nel Tribunale Ordinario del giudice competente evita finalmente ai genitori non coniugati la necessità di fare riferimento ad un Tribunale distrettuale con tutte le conseguenze in ordine ai tempi e costi dei relativi spostamenti. Le considerazioni che precedono portano a ritenere più lineare e sistematicamente coerente l’interpretazione che individua quale unico giudice competente il Tribunale Ordinario. Non vi sono motivi che possano indurre a ritenere come contraria al sistema tale ipotesi ed è evidente che l’individuazione dell’unico giudice competente nel Tribunale Ordinario non pone alcun problema in punto rito. Tale soluzione interpretativa offre invece la possibilità di parificare effettivamente l’intervento dell’autorità giudiziaria con riferimento ai genitori naturali e legittimi, superando una non più tollerabile disparità di trattamento, esigenza questa assai sentita.

A prescindere dal tipo di filiazione, legittima o naturale, i genitori si rivolgeranno al Tribunale Ordinario in tutti i casi in cui sia richiesta la regolamentazione dell’esercizio della potestà (con riferimento anche agli aspetti economici) e al Tribunale per i Minorenni in tutti i casi, diversi da quello indicato, in cui sia necessario l’intervento della Autorità Giudiziaria per il controllo dell’esercizio della potestà. Non si tratta certo di situazione nuova e non si ravvisano particolari problemi di confine tra intervento del Tribunale per i Minorenni ed il Tribunale Ordinario perché si tratta di questione già nota e ampiamente trattata dalla giurisprudenza in relazione ai figli legittimi per i quali - nel previgente testo - si riteneva che l’art.333 c.c., laddove richiama la tutela dei figli minori rispetto ad un ipotizzato pregiudizio, enuncia una situazione ricompresa anche tra i presupposti della disciplina di cui all’art.155, I c. c.c. (vecchio testo) e 6 L.898/70 (e succ. modif.), atteso il richiamo ivi contenuto all’interesse morale e materiale della prole (e quindi anche l’art. 710 c.p.c. che richiama l’art.155 c.c.). Tali norme avevano medesimo contenuto, pur prevedendo fattispecie distinte, individuabili in astratto. In particolare si riteneva che mentre l’art. 333 c.c. presuppone la convivenza dei genitori (essendo irrilevante l’esistenza del vincolo di coniugio) ovvero la loro separazione di fatto, gli artt.155 c.c., 710 c.p.c. e 6 L.898/70 presupponevano l’esistenza di un giudizio di separazione o divorzio (o di modifica delle corrispondenti condizioni), ovvero di una sentenza che li avesse definiti, incidendo sul vincolo matrimoniale. L’art.333 c.c. è stato così applicato soltanto nei casi di coniugi non separati legalmente, ovvero di genitori separati di fatto (indipendentemente dall’esistenza del vincolo di coniugio), mentre per le altre fattispecie si è ritenuto che fosse presupposto quantomeno la pendenza di una causa di separazione o divorzio, o di modifica delle corrispondenti condizioni (in questo senso v. Cass., sent. n.3159 dell’11/4/97), e quindi, in pendenza di un simile giudizio, la competenza del Tribunale per i Minorenni permaneva solo in relazione ad accertamenti e pronunce riguardanti la titolarità della potestà sui figli minori, stante la sua competenza esclusiva in materia di provvedimenti ablativi della potestà parentale sulla prole ai sensi dell’art.330 c.c.

Dopo la novella tale orientamento deve essere esteso ai figli naturali una volta che uno dei due genitori attivi il procedimento contenzioso in materia di esercizio della potestà (richiesta di affidamento dei figli, regolamentazione dei rapporti con i genitori e conseguenti questioni di carattere economico).

Ciò posto, appare evidente come permanga una competenza concorrente del TM, fino a diverso provvedimento da parte del giudice funzionalmente competente, ai sensi dell’art. 333 c.c. nel caso si ravvisi la necessità e l’urgenza di un intervento della AG per la presenza di una situazione di pregiudizio per il minore.

La concreta situazione prospettata dalle parti deve pertanto essere valutata con cautela, apparendo opportuna in ogni caso la comparizione personale dei genitori, pur avendo la questione della competenza carattere preliminare, per evitare che, in questa delicata fase interpretativa in cui non si sono consolidati orientamenti uniformi, un ritardo della decisione possa recare grave pregiudizio al minore.

IL TRIBUNALE DI MONZA PROCEDE AL REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Il ricorso di affidamento di minore nato fuori dal matrimonio respinto in data 28/6/2006 dal Tribunale per i Minorenni di Milano, dichiaratosi funzionalmente incompetente, veniva riproposto innanzi al Tribunale di Monza.

Questo Tribunale, rilevando la sussistenza dei requisiti richiesti ex lege (provvedimento negativo del primo giudice; riassunzione del procedimento; conflitto virtuale negativo), anche al fine di non negare alle parti un’adeguata tutela giudiziaria, procedeva alla richiesta d’ufficio del regolamento di competenza, inviando gli atti alla Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 11 ottobre 2006.

Il Tribunale di Monza, che in polemica con il Tribunale per i Minorenni di Milano si era già pronunciato in proposito con la sentenza 29 giugno 2006, ha fatto propri alcuni principi di diritto già affermati dal Tribunale di Milano (con la sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) ed ha specificato nell’ordinanza quanto segue:

“La domanda proposta davanti al Tribunale ordinario di Monza “ai fini della continuazione del procedimento” (pagina 21 del ricorso) attiene alla materia dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, con riferimento ai quali l’esercizio della potestà genitoriale è indubbiamente disciplinato, dal punto di vista sostanziale, dalla norma di cui all’art. 317bis CC, mentre l’intervento dell’autorità giudiziaria per l’eventuale sua regolamentazione è rimesso, in base all’art.38 disp. att. CC, alla competenza esclusiva del Tribunale per i minorenni.

La recente novella legislativa in materia (legge n. 54/2006) ha, in effetti, inciso solamente sul merito della regolamentazione dell’esercizio della potestà dei genitori, stabilendo che le nuove norme abbiano a trovare applicazione anche ai “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.

E’ del tutto evidente l’intento di introdurre una disciplina sostanziale unitaria dei rapporti tra genitori e figli, fondata sul principio dell’affidamento condiviso e destinata ad operare ogni qual volta la crisi della coppia genitoriale comporti la cessazione della convivenza.

Altrettanto palese, in particolare, è l’esigenza di evitare discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali.

L’assetto processuale, attributivo della competenza funzionale al Tribunale per i Minorenni, non è stato invece modificato, mancando un’esplicita abrogazione dell’art. 38 disp. att. CC.

Orbene, se da un lato è vero che l’abrogazione di una norma può essere anche implicita (per incompatibilità tra la nuova disciplina e quella preesistente), deve tuttavia essere considerato che nessuna incompatibilità sussiste nella fattispecie, dal momento che il giudice minorile risultava già investito della competenza a provvedere in ordine all’esercizio della potestà parentale ed all’affidamento dei minori ex art. 317 bis CC.

Dunque, gli stessi poteri potranno ancora essere esercitati applicando la nuova disciplina sostanziale relativa all’affidamento dei figli minori, secondo le forme tipiche dei procedimenti camerali (che sono utilizzabili anche nell’ambito dei procedimenti contenziosi, come accade davanti al Tribunale ordinario per quelli di cui all’art. 710 CPC e davanti al Tribunale per i minorenni per la pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 277 II comma CC in materia di accertamento della filiazione naturale).

Inoltre, deve essere osservato che le norme sulla competenza sono di stretta interpretazione, cosicché solo una norma di legge espressamente e chiaramente formulata avrebbe potuto elidere o modificare la competenza per materia del giudice specializzato.

Non si può, dunque, ritenere che il carattere unitario della nuova disciplina di diritto sostanziale abbia necessariamente determinato una simmetrica unitarietà della disciplina processuale, a favore di quella prevista, in via ordinaria, per la separazione personale dei coniugi.

Al contrario, proprio la limitazione della nuova disciplina ai soli rapporti sostanziali impedisce, secondo elementari criteri di ermeneutica, di ritenere sussistente nella specie un’abrogazione tacita dell’art. 38 disp. att. CC.

Invero, come si diceva, nella nuova legge n. 54/2006 non è riscontrabile alcun elemento che consenta di ritenere che si sia voluta introdurre una disciplina generale ed uniforme dei procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli.

Per contro, il tenore letterale dell’art. 4 secondo comma della legge richiama l’applicabilità della novella riferendosi ai “procedimenti” relativi ai figli di genitori non coniugati, mostrando l’intenzione di voler conservare i modelli processuali vigenti e le rispettive discipline.

D’altra parte, se davvero il legislatore avesse voluto introdurre una disciplina processuale unitaria e, in particolare, estendere il modello processuale della separazione personale dei coniugi (che richiede, pur sempre, la pronuncia di una sentenza costitutiva) alla crisi della coppia di fatto, si deve ritenere che lo avrebbe fatto in modo esplicito ed inequivoco.

La nuova disciplina dell’affido condiviso non ha, quindi, inciso in alcun modo sui criteri di ripartizione delle competenze processuali tra il Tribunale ordinario ed il Tribunale per i minorenni.

Non solo, ma la circostanza che il giudice chiamato a decidere sull’affidamento condiviso debba contestualmente fissare anche “la misura e modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione ed all’educazione dei figli” e che l’art. 155 II comma CC, applicabile alle unioni di fatto in crisi, preveda l’adozione di “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, fa ritenere che non sia più proponibile il precedente sdoppiamento di competenze tra Tribunale per i Minorenni e Tribunale ordinario, sicchè anche le determinazioni di ordine economico dovranno, d’ora in poi, essere adottate dal giudice minorile nell’ambito dei rapporti di sua competenza.

Quale la conclusione?

Sottolineando che l’orientamento del Tribunale per i Minorenni di Milano resta assolutamente minoritario, non resta che auspicare un rapido intervento della Cassazione che valga a risolvere la questione una volta per tutte, eliminando ogni forma di incertezza.

Certo, un legislatore attento non avrebbe perso l’occasione per esprimere rapidamente un aggiustamento della normativa, rimuovendo la confusione in atto mediante un’interpretazione autentica della norma in oggetto: purtroppo nel nostro paese il legislatore soffre di congenita distrazione.

La Cassazione ha dettato recentemente alcune regole giurisprudenziali che rappresentano la conferma dei principi espressi dalla legge 54/2006 sull’affido condiviso, entrata in vigore il 16 marzo 2006.

CASS. 16978/06

Una rilevante decisione afferma che l’affidamento condiviso può essere disposto anche senza la predeterminazione di regole di comportamento dei coniugi.

Dice letteralmente la sentenza Cass. 16978/06 “Non è contrario all’ordine pubblico l’affidamento condiviso del figlio senza la predeterminazione di regole di comportamento dei coniugi che valgano ad evitarne il conflitto”.

Vengono espressamente presi in esame i c.d. progetti educativi: in numerose proposte di legge ne era previsto l’obbligo della presentazione nella prima udienza presidenziale.

Nel “progetto” (frutto eventualmente di mediazione pre-processuale), doveva risultare la disponibilità delle parti ad assumersi la responsabilità genitoriale, la specificazione dei tempi e modalità di incontro con la prole, l’individuazione dei campi di intervento, delle reciproche competenze e delle possibilità finanziarie da destinare alle esigenze della prole, anche eventualmente in ordine a specifici capi di spesa.

In caso di progetto concorde, il giudice doveva esclusivamente prendere atto dell’accordo dei genitori: la decisione autonoma del giudice (che avrebbe stabilito i tempi e le modalità di incontro dei genitori con il figlio), era contemplata nelle sole ipotesi residuali di mancato accordo, oppure di accordi manifestamente contrari agli interessi dei figli, o infine nei casi di affidamento esclusivo.

In questi casi il giudice avrebbe deciso sulle proposte presentate dai singoli genitori.

Il testo unificato definitivo, votato alla Camera e poi approvato senza modificazioni al Senato, risentiva di varie carenze e ambiguità non esistenti nel testo originario; tra l’altro, veniva inopinatamente eliminato l’obbligo per entrambi i genitori di presentare un progetto educativo.

La Suprema Corte, con il riportato principio ha chiarito la portata della legge sull’affido condiviso, affidamento che il giudice dovrà valutare prioritariamente, pertanto anche in mancanza di un “progetto”.

Lo scrivente ritiene peraltro più idonea la prassi, instaurata da alcuni tribunali, di richiedere esplicitamente ad entrambe le parti il deposito di un progetto educativo sui tempi e modalità di incontro con la prole, sui campi di intervento, le reciproche competenze e le possibilità finanziarie di assumere specifici capi di spesa, o comunque una somma da destinare alle esigenze della prole.

Si tratta di elementi che riescono ad apportare al giudice un concreto contributo per quanto riguarda le decisioni relative alla prole.

Ma il principio va oltre.

Uno dei principali motivi di contrasto sull’applicazione dell’affido condiviso era quello dell’insanabile contrasto tra i genitori, in perenne conflitto tra di loro.

Era (ed è) possibile, anche in tal caso, fare ricorso all’affidamento condiviso ?

Oppure si tratta di una delle ipotesi in cui nell’interesse della prole, va disposto l’affidamento esclusivo ?

In via di logica, non si può rispondere affermativamente all’ultimo quesito, dovendosi in tale ipotesi ritenere applicabile l’istituto dell’affido condiviso ai soli casi di mancanza di conflitto, proprio quei casi che non hanno bisogno di una disciplina autoritaria, potendo risolvere all’interno della comunità coniugale, ancorché in via di separazione o di divorzio, le problematiche inerenti la prole.

Per cui è fin troppo ovvio sostenere che l’affido condiviso va disposto SEMPRE, anche se non soprattutto in caso di conflitto dei genitori.

Ne discende il corollario che il sistema giudiziario deve essere pronto a sostenere la massa d’urto dei genitori in conflitto, che giocoforza dovranno risolvere le molteplici problematiche davanti al giudice.

Dopo il primo impatto derivante dall’entrata in vigore della legge, è auspicabile che gli stessi genitori raggiungano quella maturità indispensabile per proporsi come figure di riferimento per la prole, agendo e confrontandosi con l’ex partner.

Insomma, la coppia disunita dovrà tornare unita nelle decisioni relative alla prole.

Per completezza di esposizione, riportiamo la massima della decisione 10 aprile 2006, N. 800 del Tribunale di Bologna (in www.affidamentocondiviso.it ), che riteniamo di dover condividere, secondo la quale i genitori dovranno impegnarsi nella predisposizione e attuazione di un programma concordato.

«L’affidamento dei figli ad entrambi i genitori non determina una parificazione circa modalità e tempi di svolgimento del rapporto tra i figli e ciascuno dei genitori, quanto piuttosto l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi e una condivisione delle decisioni di maggiore importanza; ne consegue che i genitori si dovranno impegnare nella predisposizione e attuazione di un programma concordato per l’educazione, la formazione, la cura e la gestione della prole, nel rispetto delle esigenze e delle richieste dei minori»

Altro principio, a conferma della principale regola dettata dalla legge sull’affido condiviso, viene sempre dalla Suprema Corte di Cassazione, che nella stessa recentissima sentenza n. 16978/06 (che tratta un caso incidentalmente collegato alla legge) esprime la massima

“L’affidamento condiviso dei figli è ora previsto come regola generale della l. 54/06”.

Probabilmente detta specificazione non risultava necessaria, in quanto sul punto il testo della legge appariva (ed appare) esplicitamente esauriente, anche ad un primo rapido esame del testo della legge, con riferimento agli artt.

1) 155, 1° comma “Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”

2) 155-bis “Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.”.

Ma come noto in Italia è sempre possibile sostenere tesi minoritarie o addirittura contrarie al buonsenso, per cui ogni conferma della corretta interpretazione di un principio generale, per quanto pacifica, va accolta con favore.

La regola generale implica la correlata regola negativa “L’affidamento esclusivo della prole è ora previsto come eccezione alla regola generale”.

Ciò significa non solo l’obbligo del giudice di motivare l’affidamento esclusivo, ma soprattutto di applicare regole generali per stabilire il detto affidamento esclusivo.

Insomma, in quali ipotesi va escluso l’affidamento condiviso?

La legge tace la risposta a tale interrogativo, limitandosi alla fin troppo generica previsione di “interesse esclusivo della prole” e di comportamenti “contrari”.

Tale previsione consente al giudice di utilizzare un criterio discrezionale, quello cioè fondato sulla propria educazione, sensibilità, modo di sentire, l’accettazione dell’ambiente in cui vive, per stabilire se il comportamento dell’altro genitore sia stato contrario all’interesse esclusivo del minore.

Così, ad esempio, la circostanza di un padre emigrante che per cinque anni sia rimasto a lavorare all’estero, per provvedere al mantenimento della famiglia, può essere considerata da un giudice che viva in un ambiente di emigranti come un titolo di merito, mentre può essere valutata sfavorevolmente da un diverso giudice, corrispondendo ad una oggettiva mancanza di rapporti continuativi con la prole.

Altro esempio, relativo ad un padre che non corrisponde (in tutto o in parte) l’assegno di mantenimento per il figlio, magari a causa di una oggettiva impossibilità momentanea, pur rimanendo presente nella vita del figlio.

Come sarà considerato tale comportamento ?

L’inadempimento sarà considerato contrario all’interesse della prole, e pertanto sarà disposto l’affidamento esclusivo del figlio alla madre, oppure sarà ritenuto più importante il rapporto equilibrato e continuativo del padre con il figlio?

Quale può essere la conclusione di tale discorso?

Quella di rimanere in attesa di esaurienti risposte giurisprudenziali, alle quali venga data la massima pubblicità per un ampio dibattito sul punto, che valga a livellare i giudizi dei magistrati di tutta Italia.

Cass. 18187/2006

Un’altra decisione che vale a dirimere alcuni dubbi interpretativi è stata presa sempre dalla Cassazione nella sentenza n. 18187 del 18 agosto 2006 n. 18187, che ha risolto un contenzioso tra un famoso cantante pugliese e l’altrettanto famosa ex moglie, specificando che l’affidamento condiviso, fondato sull’esclusivo interesse del minore attiene esclusivamente alla “qualità della vita” del minore stesso, senza alcun riferimento a questioni di carattere patrimoniale

La Corte d’Appello di Lecce, andando in contrario avviso rispetto al Tribunale di Brindisi (che aveva concesso un assegno di mantenimento a carico del padre di L. 6.000.000 per ognuna delle figlie) pur ritenendo opportuna la scelta, consensualmente adottata dai coniugi, di affidamento congiunto delle figlie minori, valutava che detto affidamento congiunto comportava che “l’onere di provvedere a tutti i bisogni delle figlie debba continuare a gravare paritariamente sui genitori», con l’ulteriore conseguenza di rigetto della domanda di assegno di mantenimento per le figlie proposta dalla donna.

La Cassazione censura espressamente detta sentenza, specificando che “Erra in modo evidente la Corte territoriale nell’attribuire all’affidamento congiunto una valenza patrimoniale prescindendo alla considerazione che lo stesso, fondato sull’esclusivo interesse del minore, attiene alla sua qualità di vita”.

Il discorso della Suprema Corte appare così interessante da suggerirci la citazione quasi integrale della decisione in esame.

In sostanza, detto affidamento congiunto, ove disposto, non può comportare necessariamente, in ordine al mantenimento dei figli, un “pari” obbligo patrimoniale a carico dei genitori, nel senso che dall’affidamento congiunto debba discendere l’obbligo per ciascun coniuge di provvedere «in via diretta» al mantenimento dei figli. Tale tipo di valutazione non può assolutamente essere consentita qualora si tenga conto che l’affidamento congiunto, come detto, attiene all’interesse del minore dal punto di vista del suo sviluppo, del suo equilibrio psicofisico, anche in considerazione di situazioni socio-ambientali, del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, mentre la corresponsione dell’assegno di mantenimento per i figli ha natura patrimoniale-assistenziale (cd. assistenza materiale), ed è finalizzata a sostenere le spese necessarie per consentire le attività dirette a detto sviluppo psicofisico del minore (senza esclusione del relativo obbligo in caso di raggiungimento della maggiore età da parte dei figli ove detto assegno si renda comunque necessario).

In definitiva, l’affidamento congiunto è istituto che, per le sue finalità riguardanti l’interesse dei figli, non esclude l’obbligo del versamento di un contributo, ove ne sussistano i presupposti, a favore del genitore con il quale i figli stessi convivono.

In proposito, è da rilevare come anche la recente legge n. 54/2006 recante dissipazioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, pur se successiva alla data dell’impugnata decisione, introduca il cd. principio della bigenitorialità, con ciò ovviamente privilegiando l’interesse “esistenziale” del minore e prescindendo, in particolare, sia dal rapporto patrimoniale tra i due ex coniugi, sia dagli aspetti economici riguardanti la vita del minore, autonomamente disciplinati dal quarto comma di detto art. 155 c.c. in cui è previsto che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito e che «il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità», sulla base di vari parametri, tra cui «le risorse economiche di entrambi i genitori».

È un’ulteriore e definitiva conferma che l’affidamento congiunto non può certo far venir meno.

L’obbligo patrimoniale di uno dei genitori a contribuire con la corresponsione di un assegno al mantenimento dei figli in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza. Ne consegue che censurabile è la decisione in esame là dove ha erroneamente fatto derivare, come conseguenza “automatica”, dall’affidamento congiunto il principio che ciascuno dei genitori provvede in modo diretto ed autonomo alle esigenze dei figli.

LA COMPETENZA A DECIDERE SULL’AFFIDAMENTO DEI FIGLI NATURALI

La fretta è sempre una cattiva consigliera.

Così la nostra Camera dei deputati, dopo aver tenuto in naftalina per oltre quattro anni la proposta unificata (tratta dalle 11 proposte di legge presentate nella XIV legislatura) sull’affido condiviso nel giro di 2 sole sedute notturne ha licenziato, approvandolo, un testo di legge che gli stessi deputati hanno definito “un papocchio”, perché ha lasciato irrisolte tutte le questioni dibattute per anni.

L’unica giustificazione a tale poco edificante comportamento era l’urgenza di approvare comunque un testo, per consentire al senato di apportare le necessarie modifiche.

Tanto, poi, la Camera avrebbe approvato in tutta fretta il testo modificato dal Senato.

Senonchè al Senato ha prevalso il timore che una nuova lettura alla Camera del testo modificato non avrebbe consentito l’approvazione della legge nella legislatura in corso, provocando così le ire delle numerose associazioni di padri separati, che da anno si battevano per l’introduzione del principio dell’affidamento esclusivo.

Questa, appena riassunta, la genesi di una legge criticata da tutti i commentatori e sulla quale si è subito auspicato un rapido intervento emendativi del legislatore.

Che cosa era possibile attendersi da una legge tecnicamente “errata”?

Una confusione giurisprudenziale, che si è puntualmente verificata alla prima occasione.

Va detto che la confusione nasce da lontano, trovandosi già nei brocardi del diritto romano una risposta ambivalente al quesito relativo all’interpretazione e applicazione della legge.

Vedi in diritto romano, le contraddittorie regole

-- Si voluit dixit, si non voluit non dixit

-- Espressa nocent, non espressa non nocent

-- Ubi lex non distinguit, neque nos distinguere debemus

-- Semper in obscuris quod minimum est sequimur

Insomma, come dare torto a Cicerone, quando pronunciava il famoso

aforisma “Tutto ciò che procede dal diritto è incerto” ?

Lo stesso conflitto si ripropone oggi, sulla competenza per la regolamentazione dell’esercizio della potestà sui figli naturali e sugli aspetti economici.

Il Tribunale per i minorenni di Trento (con decreto 11 aprile 2006) ed il Tribunale per i minorenni di Bologna (con decreto 26 aprile 2006) attribuivano detta competenza al Tribunale per i Minorenni.

Il Tribunale per i Minorenni di Milano (con decreto 12 maggio 2006) privilegiava la competenza del Tribunale Ordinario.

Criticando detto decreto, ritenevano la competenza del tribunale per i minorenni il Tribunale di Milano (con sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) ed il Tribunale di Monza (con sentenza 29 giugno 2006).

Tornava sulla questione, ribadendo il proprio punto di vista, il Tribunale per i minorenni di Milano (con decreto 7 luglio 2006).

Ovviamente, le due opposte tesi non possono non lasciare sconcertato l’operatore del diritto, che non trova nella giurisprudenza risposte specifiche ed adeguate alle possibili problematiche.

Così, tanto per fare un esempio, un avvocato che si trovi a dover agire

dove depositerà il ricorso ? Nella cancelleria del tribunale ordinario o in quella del tribunale per i minorenni ?

Tra l’altro, entrambe le tesi esposte nelle (contrastanti) decisioni in commento appaiono in qualche misura sostenibili.

Converrà esaminare brevemente le diverse decisioni per consentire al lettore di farsi una propria opinione sulla diatriba.

Il Tribunale per i minorenni di Trento (con decreto 11 aprile 2006) ed il Tribunale per i minorenni di Bologna (con decreto 26 aprile 2006), ritenevano pacifica la propria competenza a giudicare.

«In tema di affidamento di figli di genitori non uniti in matrimonio, la competenza spetta al Tribunale per i Minorenni, applicandosi al relativo procedimento tutta la nuova disciplina riguardante l’affidamento condiviso dei figli nella sua interezza»

Il Tribunale per i Minorenni di Milano (con decreto 12 maggio 2006) privilegiava la competenza del Tribunale Ordinario, declinando la propria competenza in merito a controversia relativa all’affidamento di figli naturali.

Il tribunale per i Minorenni rilevava che “l’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 richiama integralmente le norme precedenti tanto sostanziali che processuali, senza neppure la clausola “in quanto compatibili”, e che queste ultime presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli artt. 706 e segg. c.p.c.”, addivenendo quindi all’affermazione della competenza funzionale esclusiva del Tribunale Ordinario in merito a tutte le controversie relative all’affidamento dei figli naturali ed alla soluzione delle questioni economiche connesse sul presupposto che la nuova normativa abbia unificato la competenza giurisdizionale in merito in capo al Giudice già funzionalmente competente per la trattazione dei procedimenti di separazione dei coniugi, non modificando invece la norma ex art. 38 disp. att. c.c. che, nel prevedere tassativamente una serie di procedimenti riservati alla competenza del Tribunale per i Minorenni, definendo altresì il carattere residuale della competenza del Tribunale ordinario per quelli ivi non richiamati, dispone altresì, al comma III, che “in ogni caso il tribunale provvede in camera consiglio sentito il pubblico ministero” e quindi con rito camerale, ritenendo perciò l’incompatibilità di tale disposizione con la ritenuta e generalizzata applicazione del rito ex artt. 706 e segg. c.p.c. ai procedimenti richiamati ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006.

Il Tribunale di Milano (con sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) riteneva la competenza del tribunale per i minorenni, criticando apertamente la (precedente) decisione del tribunale per i Minorenni di Milano, che definiva «apodittica» ed «arbitraria».

Secondo il Tribunale di Milano, il legislatore dell’affido condiviso non aveva affrontato la materia dell’unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio.

Pertanto la competenza per materia a conoscere l’affidamento di un minore nato dall’unione naturale dei genitori deve permanere in favore del Tribunale per i Minorenni in forza del combinato disposto ex artt. 317bis e 38 disp. att. c.c., rimasto immutato nella sua formulazione originaria nonostante l’intervenuta riforma legislativa.

Ed infatti il disposto innovativo ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006 prevede unicamente che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”; deve tuttavia rilevarsi come

Specifica il Tribunale di Milano che “la nuova normativa in esame, pur raccogliendo in effetti, nell’ampia intitolazione “disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, disposizioni sia di carattere sostanziale che di valenza processuale, non contiene peraltro alcuna disposizione espressa in tema di competenza giurisdizionale a conoscere delle controversie ivi contemplate”.

Più specificamente, “La norma richiamata ex art. 4, comma II, della legge n. 54/2006 prevede del resto l’applicabilità della nuova normativa non già solo ai “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”, ma anche – come espressamente enunciato nella prima parte del capoverso in esame – “in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio”, risultando così estesa a due procedimenti – l’uno soggetto a rito speciale e l’altro a rito ordinario di cognizione – in nessun modo modificati nella loro disciplina generale, giacché le uniche previsioni processuali introdotte dalla nuova normativa attengono unicamente al rito ex artt. 706 e segg. c.p.c. in tema di separazione dei coniugi”.

Lo stesso Tribunale riteneva “assolutamente indimostrato” il presupposto che la nuova normativa avesse unificato la competenza giurisdizionale in merito in capo al Giudice già funzionalmente competente per la trattazione dei procedimenti di separazione dei coniugi.

Si riteneva perciò “necessario e corretto accedere piuttosto ad una lettura sistematica della nuova normativa, che introduce criteri e principi sostanziali innovativi in materia di affidamento dei figli minori – siano essi naturali o legittimi – e di regolamento dei rapporti economici fra i genitori – coniugati o non – in funzione dell’interesse della prole, limitandosi invece ad introdurre norme di portata ben limitata e specifica per quanto attiene ai profili processuali (impugnabilità dei provvedimenti presidenziali in sede di separazione, competenza e disciplina dei procedimenti relativi ad eventuali controversie successive o ad inadempimenti al regime di affidamento già disciplinato con le modalità ordinarie, sanzioni applicabili ai genitori inadempienti).

Sembra perciò evidente che il legislatore abbia voluto estendere con massima ampiezza proprio la portata sostanziale di vigenza del dettato riformatore, senza affrontare invece ambiti ben più vasti ed impegnativi di intervento pure già prospettati e valutati in progetti normativi diversi, rimasti senza seguito, in materia di unificazione della competenza del Giudice della famiglia o comunque di unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio.

“Si appalesa all’evidenza arbitraria la lettura del dato normativo proposta dal Tribunale per i Minorenni di Milano, volta a desumere dal dettato legislativo, in realtà del tutto silente e perciò neutro al riguardo, una riforma tanto radicale ed innovativa, della quale si dibatte in dottrina e giurisprudenza da diversi decenni e sulla quale manca alcun conforto alla luce del dibattito parlamentare che ha portato all’emanazione della nuova disciplina”.

Secondo il Tribunale di Monza (con sentenza 29 giugno 2006).

«La nuova disciplina dell’affidamento condiviso non ha inciso a livello di riparto di competenze tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni; anzi, la circostanza che il giudice chiamato a decidere sull’affidamento condiviso debba contestualmente fissare anche “la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli” e che l’art. 155, co. 2, c.c., applicabile anche alle unioni di fatto, preveda l’adozione di “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, fa ritenere che non sia più proponibile lo sdoppiamento di competenze tra Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario, cosicché anche le determinazioni di ordine economico dovranno essere adottate dal giudice minorile nell’ambito dei rapporti di sua competenza»

Tornava sulla questione con un orientamento del tutto minoritario, il Tribunale per i minorenni di Milano, che con decreto 7 luglio 2006, ribadiva il proprio punto di vista.

LA DECISIONE DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI MILANO 7 LUGLIO 2006

Appare evidente, a parere di questo Tribunale, la volontà di una disciplina unitaria e di una decisione contestuale, essendo unica la norma sostanziale di riferimento. Ciò comporta che la divisione di competenze sino ad oggi esistente in relazione ai procedimenti relativi ai figli naturali (avanti al TM per i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli e avanti al TO per le domande di contenuto economico) è venuta meno.

Occorre quindi verificare quale sia l’autorità giudiziaria competente ad applicare la nuova disciplina nel caso di figli di genitori non coniugati, tenendo conto delle norme processuali contenute nella legge che determinano l’individuazione del rito applicabile. Su tale ultimo punto non può infatti trascurarsi che l’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 richiama integralmente le norme precedenti tanto sostanziali che processuali, senza neppure la clausola “in quanto compatibili”, e che queste ultime presuppongono l’innesto su un rito ben preciso che è quello di cui agli artt. 706 e ss. c.p.c.. Non sembra infatti condivisibile l’affermazione di alcuni commentatori secondo la quale le norme processuali della legge si innesterebbero, per i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, sulla procedura camerale e ciò in quanto l’art. 2 della legge intitolato Modifiche al codice di procedura civile contiene disposizioni che si inseriscono come nuovi commi o come nuovi articoli all’interno della disciplina del capo I titolo II libro IV c.p.c. che quindi presuppongono. Sia il nuovo art 155 che l’art 4 l. 54/2006 nella parte in cui richiama «le disposizioni della presente legge», non sono richiamati dall’art 38 disp att cc, mentre sarebbe necessario, come già sottolineato, un richiamo espresso per escludere la competenza del Tribunale Ordinario. Non si ritiene inoltre dirimente né rilevante il richiamo all’espressione «procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» di cui all’art 4. Alcuni commentatori hanno osservato che se il legislatore avesse voluto attribuire al Tribunale Ordinario la competenza, avrebbe stabilito l’applicabilità delle nuove disposizioni anche ai «figli» di genitori non coniugati e non ai «procedimenti», relativi ai figli di genitori non coniugati, ritenendo che con tale espressione si sia voluto sottolineare l’intenzione del legislatore di riferirsi ai procedimenti già esistenti aventi ad oggetto l’affidamento e l’esercizio della potestà parentale sui figli naturali e, quindi ai procedimento di cui agli art 317 bis e 336 cc, già di competenza del Tribunale per i Minorenni. Peraltro tale tesi trascura che alla luce della riforma sono individuabili almeno 6 distinti procedimenti, alcuni nuovi, altri modificati sicchè deve ritenersi che a tali procedimenti voglia riferirsi il richiamo contenuto nella disposizione finale della legge. Tali procedimenti sono:

art. 155 cc e 706 e ss. cpc: separazione dei genitori;

art 155 bis cc e 710 cpc: opposizione all’affidamento condiviso;

art 155 ter cc e 710 cpc: modifiche al provvedimento di separazione;

art 155 quater cc e 710 cpc: modifica in materia di assegnazione della casa;

art 155 quinquies cc : disposizioni per i figli maggiorenni (che, come è ovvio, non sarebbe invocabile avanti al Tribunale per i Minorenni)

art 709 ter co 2 cpc: sanzioni, successive alla separazione, per violazione delle condizioni di separazione.

Come si vede non tutti i procedimenti concernono questioni relative all’affidamento (ed in particolare assegnazione casa, mantenimento, applicazioni di sanzioni al coniuge inadempiente), ed un procedimento non riguarda il figlio minorenne. Si tratta pertanto di vari “procedimenti” tutti applicabili ai figli di genitori non coniugati.

Laddove si richiama l’applicazione ai figli naturali delle «disposizioni della presente legge» non si fa alcuna distinzioni tra parte sostanziale e parte processuale che presuppone, come sopra già detto, l’applicazione delle norme di cui agli artt. 706 e ss c.p.c., pur ovviamente non dovendosi pervenire ad una pronunzia di separazione. Non appare infatti sostenibile il mantenimento della competenza in capo al Tribunale per i Minorenni con applicazione del rito di cui agli artt. 706 e seg. c.p.c. senza stravolgere la natura stessa del TM, la cui peculiarità, quanto alla presenza dei Giudici Onorari, è stata più volte sottolineata dalla Corte Costituzionale come fondamentale all’interno delle decisioni, esclusivamente di natura collegiale, di competenza di questa A.G. Elemento ulteriore può desumersi dall’art. 708 c.4° come novellato che prevede che i provvedimenti provvisori siano impugnabili avanti alla Corte di Appello senza alcun riferimento alla sezione per i Minorenni, viceversa indicata quale organo di secondo grado rispetto alle decisioni del TM dall’ultimo comma dell’art. 38 disp. att. c.c., presupponendo quindi, per ognuno dei procedimenti individuati e disciplinati dalla nuova legge, la competenza del Tribunale Ordinario. L’indicazione specifica dell’art. 708 c. 4° c.p.c., invece, porta ad escludere che i provvedimenti impugnabili possano essere adottati dal Tribunale per i Minorenni. Va infatti osservato che appare irragionevole sostenere che l’autorità ordinaria possa essere ritenuta competente per le modifiche di provvedimenti adottati dall’autorità minorile.

E’ stata inoltre modificata la competenza per tutti i procedimenti ex artt. 155 ter c.c. e 710 cpc, (compresi quelli relativi ai figli di genitori non coniugati ex art. 4 comma 2 della legge), da attribuirsi al Tribunale del luogo di residenza del minore. L’art 710 cpc è espressamente richiamato dall’art. 709 ter co 1 cpc il quale ha innestato alcune modifiche alla disciplina in atto ed ha introdotto una procedura del tutto nuova. Nella prima parte si disciplina la soluzione delle controversie insorte tra i genitori distinguendo tra l’ipotesi in cui sia pendente un procedimento (per le quali è competente il giudice che procede) e l’ipotesi in cui il giudizio di separazione sia esaurito. In quest’ultimo caso si prevede che la competenza sia del «Tribunale del luogo di residenza del minore». Pertanto se in seguito al provvedimento di separazione il minore ha cambiato residenza non sarà più competente il foro del convenuto. Il Tribunale di residenza del minore non può che essere il Tribunale Ordinario visto che le procedure ex artt 155 ter cc e 710 cpc - nonché le sanzioni e gli ammonimenti per il genitore inadempiente dopo che si è esaurita la prima procedura di cui al secondo comma dell’art 709 ter cpc - sono materia del tutto separata (sia dal punto di vista sostanziale che procedurale) rispetto all’originario procedimento ex art 155 cc e per la quale non vi è un richiamo dell’art. 38 disp. Att..

Ed altrettanto deve ritenersi quando uno dei due genitori attivi il procedimento relativo all’attribuzione della casa ai sensi dell’art 155 quater a seguito del mutamento della situazione di fatto (nuovo matrimonio, nuova convivenza more uxorio): anche in tal caso si tratta di un procedimento di modifica dei provvedimenti già in precedenza adottati, e per il quale si applica l’art. 710 c.p.c. e quindi il foro della residenza del minore con relativo mancato richiamo da parte dell’art. 38 disp. Att.. Né può certo ritenersi la competenza del Tribunale per i Minorenni per i figli maggiorenni (art. 155 quinquies).

Non appare pertanto convincente la tesi secondo cui il persistente richiamo, da parte dell’art. 38 disp. att. cc, dell’art. 317 bis c.c. che, a sua volta, avrebbe assorbito l’art. 155 c.c. riformato, avrebbe come conseguenza lo spostamento dell’intera competenza (con riferimento all’affido e al mantenimento dei figli naturali riconosciuti) ai Tribunale per i Minorenni che dovrebbero decidere su tali controversie (ma con alcune evidenti esclusioni quali le controversie relativi ai figli maggiorenni che potrebbero, peraltro, avere dei fratelli minorenni) con il rito camerale, ovvero, come ritenuto da alcuni, applicando il procedimento cautelare uniforme. Tesi cui questo Tribunale non ritiene di aderire in quanto non appaiono convincenti e sembrano contrastare con il complessivo impianto della novella. Non si ritiene, in particolare, di poter adattare procedimento camerale e natura contenziosa del rito, con l’emissione di conseguenti provvedimenti di condanna al pagamento di obbligazioni che costituiscano titolo esecutivo (si osserva che l’art. 148 c.c. espressamente prevede che il decreto emesso dal Presidente costituisca titolo esecutivo). Diverso è quanto accaduto in relazione al procedimento di cui all’art. 269 c.c. per il quale le SS.UU. della Cassazione (n. 5629/1996) hanno confermato la natura camerale del procedimento pur con gli adattamenti necessari a garantire le parti in ordine alla competenza per territorio, al diritto di difesa e di prova, all’applicazione dei termini ordinari previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c.. In tal caso infatti la Suprema Corte ha ritenuto di poter affermare l’applicabilità del rito camerale pur con gli opportuni adattamenti. Peraltro si tratta di tutt’altra fattispecie, ove è prevista dalla norma applicata l’emissione di sentenza (che costituisce, quindi, titolo esecutivo) ed espressamente è previsto, dall’art. 277 c.c., che il giudice possa anche dare i provvedimenti che stima utili per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui.

Lo stesso è a dirsi della applicabilità del rito del cautelare uniforme, rito che presuppone la attribuzione della natura cautelare ai provvedimenti provvisori emessi nella cause di affidamento della prole, cosa discutibile e controversa; inoltre il cautelare uniforme presuppone una pronunzia da parte di un giudice monocratico, da controllarsi attraverso una pronuncia collegiale, mentre il Tribunale per i Minorenni pronunzia sempre e solo collegialmente, con l’evidente difficoltà di creare collegi diversi rispetto a quelli che abbiano pronunziato in via provvisoria. Resta in ogni caso il problema della mancata previsione legislativa della attribuzione espressa della efficacia esecutiva ai decreti emessi dal TM all’esito del rito camerale, pur essendovi indubbiamente numerosi esempi di provvedimenti costituenti titoli esecutivi in mancanza di una attribuzione espressa del legislatore potendosi peraltro ricavare l’efficacia esecutiva dalla interpretazione sistematica di un complesso di norme.

In conclusione più coerente con l’intero complesso di norme sostanziali e processuali appare l’attribuzione della competenza relativa ai procedimenti di affidamento dei figli naturali ai Tribunali Ordinari.

Non può infine sottacersi che l’individuazione nel Tribunale Ordinario del giudice competente evita finalmente ai genitori non coniugati la necessità di fare riferimento ad un Tribunale distrettuale con tutte le conseguenze in ordine ai tempi e costi dei relativi spostamenti. Le considerazioni che precedono portano a ritenere più lineare e sistematicamente coerente l’interpretazione che individua quale unico giudice competente il Tribunale Ordinario. Non vi sono motivi che possano indurre a ritenere come contraria al sistema tale ipotesi ed è evidente che l’individuazione dell’unico giudice competente nel Tribunale Ordinario non pone alcun problema in punto rito. Tale soluzione interpretativa offre invece la possibilità di parificare effettivamente l’intervento dell’autorità giudiziaria con riferimento ai genitori naturali e legittimi, superando una non più tollerabile disparità di trattamento, esigenza questa assai sentita.

A prescindere dal tipo di filiazione, legittima o naturale, i genitori si rivolgeranno al Tribunale Ordinario in tutti i casi in cui sia richiesta la regolamentazione dell’esercizio della potestà (con riferimento anche agli aspetti economici) e al Tribunale per i Minorenni in tutti i casi, diversi da quello indicato, in cui sia necessario l’intervento della Autorità Giudiziaria per il controllo dell’esercizio della potestà. Non si tratta certo di situazione nuova e non si ravvisano particolari problemi di confine tra intervento del Tribunale per i Minorenni ed il Tribunale Ordinario perché si tratta di questione già nota e ampiamente trattata dalla giurisprudenza in relazione ai figli legittimi per i quali - nel previgente testo - si riteneva che l’art.333 c.c., laddove richiama la tutela dei figli minori rispetto ad un ipotizzato pregiudizio, enuncia una situazione ricompresa anche tra i presupposti della disciplina di cui all’art.155, I c. c.c. (vecchio testo) e 6 L.898/70 (e succ. modif.), atteso il richiamo ivi contenuto all’interesse morale e materiale della prole (e quindi anche l’art. 710 c.p.c. che richiama l’art.155 c.c.). Tali norme avevano medesimo contenuto, pur prevedendo fattispecie distinte, individuabili in astratto. In particolare si riteneva che mentre l’art. 333 c.c. presuppone la convivenza dei genitori (essendo irrilevante l’esistenza del vincolo di coniugio) ovvero la loro separazione di fatto, gli artt.155 c.c., 710 c.p.c. e 6 L.898/70 presupponevano l’esistenza di un giudizio di separazione o divorzio (o di modifica delle corrispondenti condizioni), ovvero di una sentenza che li avesse definiti, incidendo sul vincolo matrimoniale. L’art.333 c.c. è stato così applicato soltanto nei casi di coniugi non separati legalmente, ovvero di genitori separati di fatto (indipendentemente dall’esistenza del vincolo di coniugio), mentre per le altre fattispecie si è ritenuto che fosse presupposto quantomeno la pendenza di una causa di separazione o divorzio, o di modifica delle corrispondenti condizioni (in questo senso v. Cass., sent. n.3159 dell’11/4/97), e quindi, in pendenza di un simile giudizio, la competenza del Tribunale per i Minorenni permaneva solo in relazione ad accertamenti e pronunce riguardanti la titolarità della potestà sui figli minori, stante la sua competenza esclusiva in materia di provvedimenti ablativi della potestà parentale sulla prole ai sensi dell’art.330 c.c.

Dopo la novella tale orientamento deve essere esteso ai figli naturali una volta che uno dei due genitori attivi il procedimento contenzioso in materia di esercizio della potestà (richiesta di affidamento dei figli, regolamentazione dei rapporti con i genitori e conseguenti questioni di carattere economico).

Ciò posto, appare evidente come permanga una competenza concorrente del TM, fino a diverso provvedimento da parte del giudice funzionalmente competente, ai sensi dell’art. 333 c.c. nel caso si ravvisi la necessità e l’urgenza di un intervento della AG per la presenza di una situazione di pregiudizio per il minore.

La concreta situazione prospettata dalle parti deve pertanto essere valutata con cautela, apparendo opportuna in ogni caso la comparizione personale dei genitori, pur avendo la questione della competenza carattere preliminare, per evitare che, in questa delicata fase interpretativa in cui non si sono consolidati orientamenti uniformi, un ritardo della decisione possa recare grave pregiudizio al minore.

IL TRIBUNALE DI MONZA PROCEDE AL REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Il ricorso di affidamento di minore nato fuori dal matrimonio respinto in data 28/6/2006 dal Tribunale per i Minorenni di Milano, dichiaratosi funzionalmente incompetente, veniva riproposto innanzi al Tribunale di Monza.

Questo Tribunale, rilevando la sussistenza dei requisiti richiesti ex lege (provvedimento negativo del primo giudice; riassunzione del procedimento; conflitto virtuale negativo), anche al fine di non negare alle parti un’adeguata tutela giudiziaria, procedeva alla richiesta d’ufficio del regolamento di competenza, inviando gli atti alla Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 11 ottobre 2006.

Il Tribunale di Monza, che in polemica con il Tribunale per i Minorenni di Milano si era già pronunciato in proposito con la sentenza 29 giugno 2006, ha fatto propri alcuni principi di diritto già affermati dal Tribunale di Milano (con la sentenza 28 giugno 2006, n. 7711) ed ha specificato nell’ordinanza quanto segue:

“La domanda proposta davanti al Tribunale ordinario di Monza “ai fini della continuazione del procedimento” (pagina 21 del ricorso) attiene alla materia dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, con riferimento ai quali l’esercizio della potestà genitoriale è indubbiamente disciplinato, dal punto di vista sostanziale, dalla norma di cui all’art. 317bis CC, mentre l’intervento dell’autorità giudiziaria per l’eventuale sua regolamentazione è rimesso, in base all’art.38 disp. att. CC, alla competenza esclusiva del Tribunale per i minorenni.

La recente novella legislativa in materia (legge n. 54/2006) ha, in effetti, inciso solamente sul merito della regolamentazione dell’esercizio della potestà dei genitori, stabilendo che le nuove norme abbiano a trovare applicazione anche ai “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.

E’ del tutto evidente l’intento di introdurre una disciplina sostanziale unitaria dei rapporti tra genitori e figli, fondata sul principio dell’affidamento condiviso e destinata ad operare ogni qual volta la crisi della coppia genitoriale comporti la cessazione della convivenza.

Altrettanto palese, in particolare, è l’esigenza di evitare discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali.

L’assetto processuale, attributivo della competenza funzionale al Tribunale per i Minorenni, non è stato invece modificato, mancando un’esplicita abrogazione dell’art. 38 disp. att. CC.

Orbene, se da un lato è vero che l’abrogazione di una norma può essere anche implicita (per incompatibilità tra la nuova disciplina e quella preesistente), deve tuttavia essere considerato che nessuna incompatibilità sussiste nella fattispecie, dal momento che il giudice minorile risultava già investito della competenza a provvedere in ordine all’esercizio della potestà parentale ed all’affidamento dei minori ex art. 317 bis CC.

Dunque, gli stessi poteri potranno ancora essere esercitati applicando la nuova disciplina sostanziale relativa all’affidamento dei figli minori, secondo le forme tipiche dei procedimenti camerali (che sono utilizzabili anche nell’ambito dei procedimenti contenziosi, come accade davanti al Tribunale ordinario per quelli di cui all’art. 710 CPC e davanti al Tribunale per i minorenni per la pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 277 II comma CC in materia di accertamento della filiazione naturale).

Inoltre, deve essere osservato che le norme sulla competenza sono di stretta interpretazione, cosicché solo una norma di legge espressamente e chiaramente formulata avrebbe potuto elidere o modificare la competenza per materia del giudice specializzato.

Non si può, dunque, ritenere che il carattere unitario della nuova disciplina di diritto sostanziale abbia necessariamente determinato una simmetrica unitarietà della disciplina processuale, a favore di quella prevista, in via ordinaria, per la separazione personale dei coniugi.

Al contrario, proprio la limitazione della nuova disciplina ai soli rapporti sostanziali impedisce, secondo elementari criteri di ermeneutica, di ritenere sussistente nella specie un’abrogazione tacita dell’art. 38 disp. att. CC.

Invero, come si diceva, nella nuova legge n. 54/2006 non è riscontrabile alcun elemento che consenta di ritenere che si sia voluta introdurre una disciplina generale ed uniforme dei procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli.

Per contro, il tenore letterale dell’art. 4 secondo comma della legge richiama l’applicabilità della novella riferendosi ai “procedimenti” relativi ai figli di genitori non coniugati, mostrando l’intenzione di voler conservare i modelli processuali vigenti e le rispettive discipline.

D’altra parte, se davvero il legislatore avesse voluto introdurre una disciplina processuale unitaria e, in particolare, estendere il modello processuale della separazione personale dei coniugi (che richiede, pur sempre, la pronuncia di una sentenza costitutiva) alla crisi della coppia di fatto, si deve ritenere che lo avrebbe fatto in modo esplicito ed inequivoco.

La nuova disciplina dell’affido condiviso non ha, quindi, inciso in alcun modo sui criteri di ripartizione delle competenze processuali tra il Tribunale ordinario ed il Tribunale per i minorenni.

Non solo, ma la circostanza che il giudice chiamato a decidere sull’affidamento condiviso debba contestualmente fissare anche “la misura e modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione ed all’educazione dei figli” e che l’art. 155 II comma CC, applicabile alle unioni di fatto in crisi, preveda l’adozione di “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, fa ritenere che non sia più proponibile il precedente sdoppiamento di competenze tra Tribunale per i Minorenni e Tribunale ordinario, sicchè anche le determinazioni di ordine economico dovranno, d’ora in poi, essere adottate dal giudice minorile nell’ambito dei rapporti di sua competenza.

Quale la conclusione?

Sottolineando che l’orientamento del Tribunale per i Minorenni di Milano resta assolutamente minoritario, non resta che auspicare un rapido intervento della Cassazione che valga a risolvere la questione una volta per tutte, eliminando ogni forma di incertezza.

Certo, un legislatore attento non avrebbe perso l’occasione per esprimere rapidamente un aggiustamento della normativa, rimuovendo la confusione in atto mediante un’interpretazione autentica della norma in oggetto: purtroppo nel nostro paese il legislatore soffre di congenita distrazione.