Corruzione in atti giudiziari: asservimento generico compromettente della funzione giurisdizionale

Profili sistematici e limiti di offensività a margine della sentenza della Suprema Corte Cass. Pen., Sez. VI, 29 aprile 2025, n. 16333
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Corruzione in atti giudiziari: asservimento generico compromettente della funzione giurisdizionale

Profili sistematici e limiti di offensività a margine della sentenza della Suprema Corte Cass. Pen., Sez. VI, 29 aprile 2025, n. 16333

 

ABSTRACT: La corruzione in atti giudiziari rappresenta, per definizione, una delle forme più gravi e insidiose di devianza pubblica, perché mina alla radice l’imparzialità del potere giudiziario e l’affidamento collettivo sul corretto esercizio della giurisdizione. La recente sentenza della Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. VI, n. 16333/2025) offre un’occasione preziosa per riflettere sulla portata applicativa dell’art. 319-ter c.p., riaffermando come l’offesa al bene giuridico tutelato possa concretizzarsi anche in assenza di un riferimento puntuale ad uno specifico procedimento, purché sussista un patto di asservimento generico capace di compromettere la funzione giudicante in modo strutturale. L’analisi ripercorre i principali snodi ricostruttivi: dalla natura plurioffensiva del reato di corruzione in atti giudiziari — a presidio dell’indipendenza soggettiva del giudice e dell’equità processuale — fino ai confini, tutt’altro che agevoli, tra condotte meramente esecutive e contributi agevolatori penalmente rilevanti. Sotto questo profilo, la sentenza ribadisce che non può rispondere a titolo di concorso chi presti un’attività di per sé lecita, senza coscienza e volontà di concorrere al pactum sceleris, riaffermando così un pilastro del diritto penale: la personalità della responsabilità penale. Non mancano profili critici: un’applicazione eccessivamente estensiva della nozione di asservimento generico rischia di avvicinare la fattispecie a un diritto penale fondato su mere congetture, imponendo alla Giurisprudenza di merito l’onere di un rigoroso controllo probatorio, nel rispetto del principio di offensività in concreto. È proprio in questa delicata tensione tra l’effettiva repressione dei fenomeni corruttivi e la tutela delle garanzie di legalità che si misura, in ultima analisi, la tenuta dello Stato di diritto.
 

CORRUZIONE GIUDIZIARIA E MERCIMONIO DELLA FUNZIONE: L’ASSETTO DI GARANZIE NELL’ INTERPRETAZION PIU’ RECENTE

Il reato di corruzione in atti giudiziari, disciplinato dall’art. 319-ter c.p., rappresenta una delle fattispecie incriminatrici più pregnanti nel panorama dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, giacché incide direttamente sul dovere di imparzialità che deve permeare l’esercizio della funzione giurisdizionale. A ben vedere, il Legislatore ha inteso riservare a tale ipotesi un trattamento sanzionatorio aggravato rispetto alla corruzione propria e impropria, ex artt. 318-319 c.p., nella consapevolezza che la lesione del bene giuridico tutelato — l’indipendenza e la terzietà del giudice — comporta un vulnus di portata sistemica. In dottrina è ormai pacifico che la corruzione in atti giudiziari sia fattispecie a struttura complessa, a natura plurioffensiva: da un lato, si tutela l’interesse dell’amministrazione pubblica al corretto svolgimento della funzione giudiziaria; dall’altro, si garantisce il diritto dei consociati ad ottenere una pronuncia imparziale, quale corollario del diritto di difesa, ex art. 24 Cost., e del giusto processo ex art. 111 Cost. [S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv it. dir. proc. pen., 1993, p. 973; analogamente F. Cingari Ancora sulla corruzione in atti giudiziari, p. 892, R. Bartoli, Falsità ideologica per induzione, p. 1132]. Non a caso, la Corte costituzionale ha più volte sottolineato la necessità di interpretare tali fattispecie in modo da non svuotare di contenuto la tutela sostanziale dei valori costituzionali. In tale prospettiva, ogni accordo corruttivo che abbia l’effetto di piegare la discrezionalità del giudice ad interessi privati costituisce, di per sé, un attentato all’intero assetto di garanzie predisposto a tutela dell’autonomia giurisdizionale. La sentenza in esame riveste un’importanza particolare in quanto valorizza la portata sistemica della lesione insita nella corruzione in atti giudiziari, respingendo una visione eccessivamente formalistica che limiterebbe l’applicabilità della norma ai soli casi in cui l'accordo corruttivo sia riferito a un procedimento specifico. Viene così ribadito che l’essenza del disvalore penale risiede nella compromissione dell’autonomia e imparzialità del giudice, anche quando il pactum sceleris non si traduca immediatamente in un atto processuale concreto. L’accordo finalizzato all’assoggettamento della funzione giurisdizionale a interessi estranei alla giustizia si configura, di per sé, come una violazione grave dell’equilibrio istituzionale e della fiducia collettiva nel corretto esercizio della funzione giudiziaria.
 

IL PACTUM SCELERIS DIFFUSO: INTERPRETAZIONE FUNZIONALE DELL’ART. 319-TER C.P.

Uno dei passaggi centrali dell’arresto in commento riguarda l’affermazione secondo cui l’art. 319-ter c.p. risulta integrato anche laddove il mercimonio riguardi un asservimento generico della funzione giurisdizionale, senza che sia individuabile un nesso finalistico puntuale tra l’utilità ricevuta (o promessa) e la gestione di uno o più procedimenti identificati. Sul piano strettamente esegetico, il dato testuale dell’art. 319-ter c.p. sembrerebbe evocare, con l’espressione “per favorire o danneggiare una parte in un processo” la necessità di una connessione oggettiva con un fascicolo individuato. Tuttavia, la Cassazione ribadisce che tale formula va intesa in senso funzionale, alla luce della ratio legis: la violazione del bene giuridico tutelato si realizza allorché il giudice, ancorché genericamente, si vincoli ad orientare la propria discrezionalità in favore del corruttore o di soggetti da questi indicati. Tale approdo interpretativo è coerente con la lettura costituzionalmente orientata del principio di legalità: la determinatezza della norma penale, ex art. 25, comma 2, Cost., non impone una descrizione minuziosa delle singole fattispecie concrete ma richiede, quantomeno, che l’incriminazione delinei confini sufficientemente chiari e prevedibili. In tal senso, se l’accordo corruttivo è di natura “diffusa” — volto a garantire un sostegno stabile a qualunque istanza di un determinato avvocato — non si ravvisa alcuna lesione del principio di determinatezza, posto che l’offesa al bene giuridico è ancora più ampia e strutturale. Non mancano tuttavia, in dottrina, opinioni più restrittive. Secondo taluni autori, una simile estensione rischia di dilatare oltre misura l’ambito applicativo della norma, avvicinando la fattispecie ad un modello di responsabilità di tipo puramente potenziale, in contrasto con il principio di offensività sostanziale, inteso come necessario requisito dell’illecito penale. Si è altresì rilevato come un’interpretazione eccessivamente ampia potrebbe aprire la strada a forme di responsabilità “per appartenenza” ad un contesto ambientale inquinato da pratiche corruttive non univocamente circoscritte a condotte tipiche [Mattia Bellagamba, La corruzione in atti giudiziari nella teoria generale del reato, Giappichelli, 2021]. A fronte di tali rilievi, la pronuncia della Suprema Corte dimostra di non trascurare l’esigenza di un accertamento rigoroso: pur affermando la sufficienza dell’asservimento generico, difatti ribadisce che occorre una prova gravata, precisa e concordante dell’esistenza dell’accordo illecito, in quanto presupposto logico-giuridico dell’offensività della condotta. In altri termini, il fatto che l’accordo non sia legato a un atto processuale specifico non comporta un abbassamento della soglia di gravità del reato; al contrario, impone al giudice un accertamento ancora più attento e completo su tutti gli elementi costitutivi, compresa la reale stipulazione di un patto che preveda vantaggi ripetuti e non meramente episodici e/o occasionali.
 

IL PATTO CORRUTTIVO VALE ANCHE SENZA UN RITORNO ECONOMICO IMMEDIATO

Di particolare interesse è la parte motivazionale nella quale la Suprema Corte affronta la questione dello scopo lucrativo. Nel caso esaminato era emerso che l’avvocato corruttore aveva accettato di pagare somme di denaro o offrire altri benefici, pur senza avere la certezza di ottenere, almeno nell’immediato, un guadagno economico superiore a quanto speso. La difesa, basandosi su questo aspetto, aveva sostenuto che mancasse un vantaggio concreto e, di conseguenza, uno degli elementi fondamentali del patto corruttivo. La Sesta Sezione affronta la questione con un’argomentazione che si muove sul piano sostanziale: lo scopo lucrativo immediato non costituisce elemento costitutivo essenziale, essendo sufficiente che l’utilità perseguita dal corruttore sia di natura economicamente apprezzabile o, comunque, idonea a rafforzare la propria posizione competitiva. Nel caso di specie, l’obiettivo dell’avvocato era quello di consolidare la propria reputazione professionale, offrendo ai propri assistiti la garanzia di decisioni “aggiustate”, in particolare in tema di revoca di misure cautelari. Questa prospettiva evidenzia come, in ambito forense, la corruzione possa tradursi in un modello di fidelizzazione distorta, volto a incrementare il portafoglio clienti e ad assicurare una rendita di posizione basata su un indebito rapporto privilegiato con l’organo giudicante. Sotto il profilo dogmatico, tale impostazione trova riscontro in quell’orientamento dottrinale che, ormai da tempo, interpreta il concetto di “utilità” in termini ampi, ricomprendendovi qualunque beneficio, anche di natura non immediatamente patrimoniale, purché suscettibile di valutazione economica o idoneo a generare vantaggi competitivi. [Fiandaca, G.- Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 2012]. In Giurisprudenza, tale principio è stato reiteratamente affermato, nella consapevolezza che l’attività corruttiva non si esaurisce nella mera dazione di somme di denaro, ma può esplicarsi in forme più sofisticate di scambio di favori, incarichi professionali o indebite agevolazioni. La conclusione cui perviene la Corte si salda, altresì, con il principio di offensività in concreto: l’accordo che mira a piegare l’imparzialità della funzione giudiziaria, anche a fronte di un ritorno economico solo mediato, presenta comunque una carica offensiva pienamente idonea a integrare la tipicità del reato. Resta fermo, evidentemente, l’onere probatorio in capo all’accusa di dimostrare l’effettiva esistenza del nesso di scambio e la direzione finalistico-funzionale dell’utilità promessa o erogata.
 

CONCORSO DEL TERZO NEL PACTUM SCELERIS

Nella parte motivazionale dedicata al concorso di persone, la Suprema Corte ribadisce un principio di stretta aderenza al dettato dell’art. 110 c.p., inteso come regola di chiusura del sistema penale e, al contempo, garanzia del rispetto del principio di colpevolezza di cui all’art. 27, primo comma, Cost. Il problema si presenta in modo particolarmente complesso nei reati che richiedono la partecipazione di più soggetti — come la corruzione in atti giudiziari — in cui la condotta tipica del pubblico ufficiale non coincide con quella del soggetto esterno che partecipa all'accordo corruttivo, pur non rivestendo una qualifica pubblica. Affinché un soggetto esterno, privo di qualifica pubblica, possa essere ritenuto responsabile per concorso nel reato di corruzione in atti giudiziari, è necessario che il suo comportamento abbia avuto un ruolo concreto nella realizzazione dell’accordo illecito. In altre parole, deve aver fornito un contributo causale effettivo, ad esempio proponendo il patto corruttivo, facendo da intermediario tra le parti o erogando direttamente l’utilità promessa. Tuttavia, questo apporto materiale da solo non basta. È fondamentale che il soggetto abbia agito con piena consapevolezza dell’illiceità dell’accordo, dimostrando la volontà di partecipare al reato. Deve cioè sapere che sta contribuendo a un’intesa finalizzata a influenzare indebitamente l’esercizio della funzione giudiziaria. Infine, è richiesto che condivida, o quantomeno accetti, lo scopo illecito dell’accordo, ovvero l’intenzione di piegare l’imparzialità del giudice attraverso vantaggi indebiti. Anche se non ottiene un beneficio personale, il solo fatto di accettare che l’utilità venga usata a tal fine è sufficiente per configurare il concorso nel reato In tal senso, la sentenza in discussione ha chiarito che l’estensione dell’addebito a soggetti terzi richiede non solo la sussistenza di un contributo causale rilevante, ma anche la coscienza e volontà di concorrere a realizzare il disegno illecito. Nella fattispecie de qua, la Corte opera una distinzione che appare di particolare interesse anche sul piano pratico: occorre distinguere fra la condotta del terzo che costituisce semplicemente l’oggetto della prestazione scambiata — divenendo merce di scambio — e quella che integra un apporto consapevole di tipo agevolatore alla formazione o esecuzione dell’accordo corruttivo. L’operaio o il fornitore che realizzano un bene o una prestazione promessa dal corruttore al corrotto possono trovarsi, in concreto, ad agire senza alcuna contezza del contesto illecito, svolgendo un’attività ontologicamente neutra, priva di finalizzazione criminosa. Ben diversa è la situazione in cui il terzo, estraneo al binomio corruttore-corrotto, si renda partecipe di una condotta di intermediazione, fungendo da canale per la dazione dell’utilità o agevolando, con atti di copertura o schermatura, l’effettiva ricezione del vantaggio illecito. La Giurisprudenza richiede, in tali casi, la prova di elementi sintomatici di consapevolezza: comportamenti non coerenti con la normalità operativa, reiterazione di condotte di trasferimento anomalo di utilità, occultamento di flussi economici, rapporti fiduciari atipici con i protagonisti del pactum sceleris. Sotto il profilo operativo, la distinzione risulta tutt’altro che agevole. Nei contesti corruttivi più insidiosi — in cui la dazione di utilità è frammentata in prestazioni complesse — la ricostruzione probatoria dell’elemento soggettivo può incontrare ostacoli significativi. È compito dell’autorità giudiziaria e della difesa di valorizzare, da un lato, gli indicatori obiettivi di compartecipazione; dall’altro, di neutralizzare tentativi di incriminazione surrettizia di condotte prive del necessario coefficiente finalistico. Resta fermo che l’adesione consapevole all’accordo corruttivo può intervenire anche ex post, purché si traduca in un apporto materiale o morale idoneo a consolidare o perfezionare l’intesa illecita. In questo senso, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, richiama la regola secondo cui il concorso sopravvenuto — sia esso agevolatore o determinante — non perde rilevanza per il solo fatto di manifestarsi in una fase esecutiva successiva. Tale approccio, costituisce presidio essenziale per evitare scivolamenti verso forme di responsabilità penale per mero sospetto o, peggio ancora, per contiguità ambientale. In altre parole, l’art. 110 c.p. non può trasformarsi in una valvola di estensione indiscriminata della punibilità: è la logica dell’imputazione soggettiva — pilastro del nostro sistema penale — a imporre una rigorosa verifica di tutti i requisiti costitutivi.
 

LA SOGLIA DELL’OFFENSIVITA’ NEL MERCIMONIO DIFFUSO: RIFLESSIONE SUL PERICOLO DI AUTOMATISMI

Non si può nascondere, nel commentare una pronuncia come quella in esame, che la scelta della Cassazione di ribadire la piena configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, anche in presenza di un asservimento generico della funzione, solleva sul piano sistematico qualche interrogativo. Intendiamoci: nessuno mette in dubbio che la corruzione giudiziaria, proprio per la sua carica eversiva, meriti un trattamento sanzionatorio aggravato rispetto alla corruzione “comune”. La ratio dell’art. 319-ter c.p. non è soltanto quella di tutelare la correttezza formale di un singolo atto processuale, ma di preservare l’indipendenza della giurisdizione come pilastro dell’ordinamento. Su questo piano, è giusto ricordare che un mercimonio possa avere natura diffusa e “a tempo indeterminato”. Tuttavia, quando si afferma che non è necessario neppure individuare un fascicolo o una parte processuale specifica, ma basta la “mera disponibilità” del Pubblico Ufficiale ad orientare la propria funzione secondo logiche private, non si può ignorare che qui si tocca una soglia delicata: quella dell’offensività in concreto. Ed ancora si è affermato [Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 236] che la corruzione in atti giudiziari presenta un maggior disvalore, rispetto ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., che le conferisce una diversa e più specifica fisionomia criminosa, giustificandone il trattamento sanzionatorio più rigoroso: desta però perplessità l’estensione dell’art. 319-ter c.p. anche a situazioni in cui l’atto oggetto dell’accordo sia formalmente lecito, come nella corruzione impropria ex art. 318 c.p. Il rischio è di far rientrare nel reato aggravato situazioni in cui non c’è nulla di sbagliato nell’atto compiuto, per il sol fatto – dunque – del mero accordo illecito tra le parti [Grosso, C.F., Commento agli artt. 6-12 1. 26 aprile 1990 n. 86, in Legisl. pen., 1990, 296; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 236; Seminara, S., op. cit., 784]. Se l’accordo corruttivo diventa un patto astratto, privo di qualunque riscontro in atti o comportamenti processuali, il rischio è che si finisca per colpire ipotesi di collusione solo ipotetica, basandosi su rapporti personali, frequentazioni o contiguità professionali che, in contesti ordinari — soprattutto nei piccoli fori — possono avere una spiegazione perfettamente lecita. Chi esercita la professione forense è ben consapevole di come, in determinati contesti, sia del tutto normale che si sviluppino rapporti improntati alla cordialità, alla consuetudine e, talvolta, a forme di reciproca cortesia tra avvocati e magistrati. Ecco perché è cruciale ribadire un concetto: non può mai essere la sola “prossimità ambientale” a sorreggere l’accusa di corruzione. La pronuncia della Sesta Sezione, correttamente, lo afferma in controluce: occorre sempre una prova robusta del pactum sceleris, inteso come incontro di volontà con contenuto illecito concreto, anche se non “puntuale” su un procedimento ma comunque strutturato, stabile, sorretto da una logica di scambio. In questa prospettiva, la prova gioca un ruolo decisivo. Se è vero che il reato si perfeziona già al momento dell’accordo, la prova di tale accordo non può ridursi a suggestioni o a inferenze di contesto: servono fatti sintomatici, atteggiamenti reiterati, atti esecutivi coerenti con la presunta disponibilità del giudice, flussi di utilità o di vantaggi che non trovano giustificazione alternativa. Il principio di gravità, precisione e concordanza indiziaria ex art. 192, comma 2, c.p.p. non è un orpello formale: è il presidio di legalità che impedisce di scivolare verso una sorta di penale “preventivo”, basato più sul timore di una possibile devianza che su fatti dimostrati. Un discorso analogo merita la figura del terzo concorrente. Qui la sentenza svolge un’opera di chiarimento utile, ricordando che per rispondere a titolo di concorso non basta avere “toccato” un pezzo dell’utilità scambiata. Il confine non è scontato, perché nei meccanismi corruttivi più complessi è frequentissimo che le dazioni di denaro o di beni passino attraverso passaggi intermedi — subappaltatori, fornitori, collaboratori di studio, professionisti terzi. Ma la differenza tra chi esegue una prestazione lecita, pur essendo inconsapevole di essere parte di uno scambio illecito, e chi invece agisce con consapevole finalità di agevolazione, è cruciale. Chi fornisce un contributo neutro, non sorretto da dolo, non può essere trasformato in un concorrente solo perché la sua opera è stata strumentalizzata da altri. Su questo punto la prassi operativa dovrà muoversi con cautela: nelle indagini ma anche nelle strategie difensive. Per la difesa, la sfida sarà spesso proprio questa: dimostrare l’assenza di consapevolezza, la linearità dei flussi, la ragionevolezza di prezzi, tempi e prestazioni. E documentare tutto, perché in un contesto di indagine su fenomeni di corruzione “diffusa” il livello di sospetto può salire a dismisura. In filigrana, dunque, questo aspetto della pronuncia ci ricorda che il diritto penale della corruzione non è mai un terreno di automatismi, ma di pesi e contrappesi. Reprimere la corruzione in atti giudiziari significa tutelare la fiducia dei cittadini nell’imparzialità del giudice, ma senza tradire i principi di determinatezza, offensività concreta e colpevolezza personale. E questo bilanciamento, come sempre, non è scritto una volta per tutte nel codice: è affidato alla sensibilità dell’interprete e alla serietà della prova.
 

CONCLUSIONE

E’ forse utile chiudere l’analisi qui condotta riconoscendo alla pronuncia in commento un merito che non va trascurato: quello di aver riportato al centro del discorso giuridico la dimensione strutturale dell’imparzialità giurisdizionale. Non vi è dubbio che la corruzione in atti giudiziari, più di altre forme di mercimonio pubblico, tocchi le fondamenta della fiducia collettiva nel sistema giustizia. Un giudice corrotto non compromette solo l’esito di un fascicolo, ma incrina — spesso in modo irreparabile — la percezione stessa di equità e di terzietà che legittima l’intero esercizio della giurisdizione. Sotto questo profilo, l’idea che l’art. 319-ter c.p. punisca non solo l’accordo “puntuale” ma anche la disponibilità permanente della funzione appare pienamente coerente con la ratio di una norma che mira a difendere la giustizia come bene comune. La corruzione “diffusa”, organizzata su base fiduciaria, è spesso la più pericolosa proprio perché non lascia tracce evidenti: non c’è quasi mai un’unica valigetta di banconote, ma una rete di relazioni, favori, promesse che si sedimentano nel tempo. Eppure — e qui sta la tensione irrisolvibile del penalista — questo stesso spazio di tutela più ampio comporta un rischio di incriminazione eccessiva, se non è accompagnato da un filtro probatorio adeguato. Se il patto corruttivo non è legato a un atto o a una parte individuata, l’accertamento finisce per basarsi quasi sempre su elementi indiziari: frequentazioni, contatti, corrispondenze ambigue, conferimenti di incarichi apparentemente leciti. Ma è proprio qui che il principio di legalità nella sua determinatezza e quello di offensività esigono di tornare protagonisti. Non basta evocare l’allarme sociale: serve la prova di un accordo di scambio vero, di un quid pluris che trasformi la contiguità in collusione e la relazione in mercimonio. È la differenza, sottile ma decisiva, tra un sospetto legittimo e una responsabilità penale provata oltre ogni ragionevole dubbio. Su questo crinale si gioca anche la sorte del terzo concorrente: perché se già è delicato individuare l’intesa tra corruttore e corrotto, lo è ancor di più attribuire responsabilità a chi, magari, ha eseguito un appalto, una consulenza, un pagamento senza sapere — o senza poter sapere — di essere parte di un disegno illecito. La pronuncia lo dice chiaramente: chi esegue un’attività neutra non risponde del reato, a meno che non emerga una partecipazione consapevole, funzionale al patto. In pratica, questa distinzione resta spesso affidata alla capacità di smontare — o di ricostruire — la catena di passaggi. Qui la difesa tecnica diventa essenziale: tracciabilità dei flussi, documentazione dei lavori eseguiti, linearità contrattuale. Sono tutti strumenti concreti che permettono di sottrarre terreno a ricostruzioni induttive. La sentenza – in commento - ci ricorda che la corruzione in atti giudiziari non è un fenomeno solo episodico: è spesso la forma più raffinata di abuso del potere. Ma ci ricorda anche che la risposta punitiva, per essere giusta, deve rimanere ancorata ai principi cardine del diritto penale liberale: la tipicità della condotta, l’offensività in concreto, la prova rigorosa del dolo, la personalità della responsabilità. È su questo equilibrio, sempre imperfetto, che si misura la solidità del nostro sistema di garanzie.