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Diritto di famiglia: la potestà genitoriale cede il posto alla responsabilità genitoriale

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1. L’intervento riformatore attuato con la Legge n. 219/2013: un quadro di sintesi

Il legislatore italiano è recentemente intervenuto, come ampiamente noto, a riformare il diritto di famiglia, con l’intento di conformare il Codice Civile alle mutate istanze della coscienza sociale.

Con questo dichiarato scopo, la Legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante “Disposizioni in tema di riconoscimento di figli naturali”, ha direttamente inciso sull’articolato del Codice Civile ed ha conferito, all’articolo 2, apposita delega al Governo affinché provvedesse ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di delegazione, uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi ed indicando i principi e criteri direttivi cui il Governo si sarebbe dovuto attenere.

In esecuzione della predetta delega, è stato recentemente emanato il Decreto Legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’8 gennaio 2014.

L’intervento riformatore ha inteso recepire taluni obblighi internazionali, i quali hanno imposto al legislatore nazionale di rimuovere le discriminazioni ancora esistenti a carico dei figli naturali.

La nostra legislazione interna, in particolare, strideva non soltanto con l’articolo 21 della Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione Europea (resa vincolante a seguito dell’entrata in vigore – il 1° dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona), ma anche con l’articolo 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ove è prevista la protezione della vita privata e familiare, nonché il successivo articolo 14, nel quale è posto il divieto di ogni discriminazione.

L’intervento di riforma ha inteso: affermare l’unicità dello stato di figlio; introdurre disposizioni circa l’ascolto del minore; prevedere nuove norme in tema di rapporto del minore con gli ascendenti; puntualizzare la nozione di stato di abbandono; prevedere la segnalazione di situazioni di disagio alle competenti autorità amministrative.

Con la ratio di evitare che condotte colpevoli dei genitori si traducessero in trattamenti deteriori per il minore, si è ampliata la possibilità di riconoscimento – già introdotta, pur con significative limitazioni, dalla Legge 19 maggio 1975, n. 151, di “Riforma del diritto di famiglia” – dei figli nati da un’unione incestuosa, sempre che il riconoscimento risponda al superiore interesse del figlio.

Significativa, inoltre, la devoluzione al tribunale ordinario, di tutte le controversie tra genitori in materia di affidamento e determinazione dell’assegno per i figli, a prescindere dallo status dei genitori (si veda il novellato articolo 38 delle disposizioni attuative del Codice Civile).

Come è consentito vedere da questo sia pur sommario affresco, le innovazioni introdotte sono molteplici. Qui si intende offrire sono solo alcuni spunti di riflessione in merito ad una delle opzioni prescelte dalla riforma e, in particolare, alla eclissi della potestà genitoriale, sintagma espunto dal Codice Civile.

2. Il mutato volto della potestà: da potere illimitato nel diritto romano ad ufficio di diritto privato ai giorni nostri

Per comprendere la portata della innovazione che ha condotto all’espunzione dall’ordito normativo della potestà si ritiene necessario procedere ad una breve ricognizione storica che consenta di comprendere il significato e la portata dell’abrogazione della locuzione potestà genitoriale.

Il diritto romano ci mostra una potestà genitoriale assimilabile alla potestà sugli schiavi, l’esercizio di un potere cui corrispondeva la totale soggezione di chi vi fosse sottoposto, una soggezione tale da tradursi anche nello ius vitae ac necis, il padre avrebbe finanche potuto uccidere colui che fosse soggetto al suo tremendo potere.

Vincenzo Arangio Ruiz, nelle sue Istituzioni di diritto romano, tuttavia, evidenzia come il rigore della patria potestà fu, sin dall’inizio, mitigato dal costume; fu la convergenza di giurisprudenza e legislazione, segnatamente nel periodo imperiale, a determinare l’attenuazione dell’antico vigore della patria potestas.

È lo stesso autore ad evidenziare che, già nel diritto giustinianeo, gli insistiti richiami al vigore della patria potestas sono da intendersi come ossequio ad una tradizione superata, anziché espressione del diritto vigente. In altri termini, già in epoca giustinianea, cominciò a designarsi con l’espressione patria potestà qualcosa di affine alla moderna funzione del genitore di educare e proteggere la prole.

Avvicinandosi ai giorni nostri, il legislatore del 1942, riconobbe il “carattere pubblicistico” dell’istituto della patria potestà e in esso vide la “affermazione del principio giuridico della sottoposizione dei figli al potere familiare dei genitori” (così, il Punto 166 della Relazione al Re del 16 marzo 1942), in questo modo riaffermando il rapporto potestà-soggezione, nel solco della tradizione romanistica.

Fu la Legge n. 151/1975 a modificare, già nell’intestazione, il titolo IX del libro I del Codice Civile. Da lì in poi non si sarebbe più potuto parlare di “patria” potestà, bensì di potestà “genitoriale”. Il lessico giuridico, tuttavia, come ben sanno i frequentatori abituali delle aule giudiziarie, conserva un elevato grado di vischiosità; nella prassi, infatti, sovente si ritrova ancor oggi negli atti giudiziari il riferimento, dal sapore antico, alla “patria” potestà, in luogo di quella che il legislatore del 1975 aveva profilato quale potestà genitoriale, cioè di ambedue i genitori (e non del solo padre). Il mutamento, peraltro, era reso evidente sin dalla rubrica del richiamato titolo IX: non più “Della patria potestà”, bensì “Della potestà dei genitori”. A dispetto della potenza delle leggi, capaci di mandare al macero intere biblioteche, come recita l’antico detto, è difficile svellere radicati usi linguistici.

L’evoluzione interpretativa, specie sulla scorta dei principi enunciata dalla Costituzione repubblicana, in realtà, aveva – già prima del 1975 – condotto ad esiti ermeneutici nuovi. La potestà genitoriale, per opera della giurisprudenza, era già stata ridisegnata quale esercizio di una funzione, di un munus diretto a realizzare gli interessi della prole e non quelli di chi ne fosse investito.

Significativa, in proposito, è – tra le tante – la Sentenza 7 novembre 1985, n. 5408, ove si riconosce che la potestà genitoriale costituisce un ufficio di diritto privato, in quanto deve essere esercitata nell'interesse esclusivo del minore, il che non esclude che il genitore, verso lo Stato e verso i terzi, abbia un vero e proprio diritto soggettivo alla titolarità dell'ufficio e all'esercizio personale e discrezionale del medesimo, con l'unico limite di indirizzarlo verso il soddisfacimento delle sole esigenze del minore.

Tra i molti che potrebbero richiamarsi nella dottrina civilistica, esemplificativamente, è possibile citare Francesco Gazzoni, il quale nell’ultima edizione del suo autorevole manuale di diritto privato, a proposito della potestà genitoriale, in una direzione conforme a quella giurisprudenziale poco più sopra segnalata, osserva che detta potestà costituisce un tipico esempio di non coincidenza tra chi esercita il diritto e chi è titolare dell’interesse sotteso, giacché i genitori gestiscono in nome e nell’interesse dei figli i vari rapporti giuridici che a costoro fanno capo.

3. La discordanza tra legge delega e decreto delegato: per effetto del decreto, la potestà scompare, le subentra la responsabilità genitoriale

All’articolo 1, comma 6, la Legge 219/2012 aveva previsto che la rubrica del titolo IX fosse sostituita dalla seguente “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri del figlio” e l’articolo 2, comma 1, nell’enunciare i principi e criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il legislatore delegato, alla lettera h), assegnava al Governo di provvedere, con decreto, alla “unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell'esercizio della potestà genitoriale”.

Un simile orientamento del legislatore delegante pareva trovare giustificazione nella nozione di potestà offerta dal diritto vivente. Come visto, infatti, la potestà genitoriale era stata spogliata del riferimento all’antica soggezione al potere illimitato del pater e la relativa nozione si era riempita di contenuti nuovi, conformi alla mutata coscienza sociale ed al dettato costituzionale.

Ove la delega fosse stata scrupolosamente osservata avremmo, oggi, il mantenimento della locuzione “potestà dei genitori” nella rubrica del titolo IX ed una configurazione della responsabilità genitoriale “quale aspetto della potestà dei genitori”. Il legislatore delegato, invece, ha varcato un confine così chiaramente demarcato nella delega.

Eccedendo rispetto alle indicazioni rivenienti dalla legge delega, il Governo – col Decreto Legislativo n. 154/2013, all’articolo 7, comma 10, ha, difatti, disposto la modifica della rubrica del titolo IX, ora intitolato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”.

Ma il Governo si è spinto anche oltre, facendo scomparire il riferimento alla potestà dal Codice Civile e di Procedura Civile (articolo 709 ter), dal Codice penale e di Procedura Penale. Ogni riferimento alla potestà scompare anche nella legislazione speciale; la locuzione cessa di figurare, così, nella Legge 21 novembre 1967, n. 1185, recante “Norme sui passaporti”, nella Legge 1 dicembre 1970, n. 898, recante “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, nella Legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”, nonché, da ultimo, nella Legge 4 maggio 1983, n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia” e nella L. 31 maggio 1995, n. 218 di “Riforma del sistema di diritto internazionale privato”.

4. Le ragioni ed il possibile significato dell’opzione terminologica

L’espressione parental responsibility figurava già in numerose fonti internazionali. Il decreto delegato ha inteso farsi carico di una simile evoluzione giuridica. Ne costituisce un esempio il Regolamento (Ce) n. 2201/2003, così detto Bruxelles II bis, che disciplina all’interno dell’Unione Europea –  con la sola esclusione della Danimarca – la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.

Nel predetto regolamento è offerta, peraltro, anche una nozione di responsabilità genitoriale, valida esclusivamente nell’ambito applicativo proprio del regolamento stesso, ove si legge che per essa si intendono “I diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita”.

A livello di diritto internazionale, la locuzione responsabilità genitoriale era – lo si rammenta per completezza – già apparsa nella Dichiarazione ONU dei diritti del fanciullo approvata il 20 novembre 1959 (si vedano i principi sesto e settimo della Dichiarazione).

La modifica terminologica, come spiega la relazione al decreto, intende assumere una diversa visione prospettica dei rapporti genitori-figli, alla luce della quale occorre porre in risalto l’interesse superiore dei figli minori e non quello dei genitori investiti della responsabilità genitoriale. Detto altrimenti, con le efficaci parole di Francesco Ruscello, potrebbe dirsi che “con la nuova formulazione linguistica si abbandonerebbe l’idea asimmetrica e adultocentrica del rapporto genitori-figli a vantaggio di una idea improntata all’eguaglianza di diritti e di doveri e piú marcatamente puerocentrica”.

Anche alla luce della riscontrata discordanza tra legge delega e decreto delegato, rimane comunque il sospetto che la cancellazione della potestà in favore della responsabilità genitoriale sia stata una scelta non sufficientemente meditata: ancorché nobilmente ispirato dal desiderio di uniformarsi a fonti sopranazionali, oltre che dalla volontà di mettere al centro l’interesse del minore, il legislatore pare aver trascurato di considerare i nuovi contenuti di cui, in progresso di tempo, era venuto riempiendosi il sostantivo potestà, situazione giuridica affatto peculiare, come si è tentato di chiarire, e sin da tempo non più coincidente con l'illimitato potere patriarcale delle origini.

Poiché, mutuando un famoso titolo di Carlo Levi, le parole – specie nel diritto – sono pietre, l’esperienza applicativa rivelerà l’autentica portata dell’abbandono della vecchia potestà, forse scacciata a causa del suo imparentamento etimologico col sostantivo potere, in favore della ben più mite, anche se meno cristallina per il giurista italiano, parental responsibility.

1. L’intervento riformatore attuato con la Legge n. 219/2013: un quadro di sintesi

Il legislatore italiano è recentemente intervenuto, come ampiamente noto, a riformare il diritto di famiglia, con l’intento di conformare il Codice Civile alle mutate istanze della coscienza sociale.

Con questo dichiarato scopo, la Legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante “Disposizioni in tema di riconoscimento di figli naturali”, ha direttamente inciso sull’articolato del Codice Civile ed ha conferito, all’articolo 2, apposita delega al Governo affinché provvedesse ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di delegazione, uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi ed indicando i principi e criteri direttivi cui il Governo si sarebbe dovuto attenere.

In esecuzione della predetta delega, è stato recentemente emanato il Decreto Legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’8 gennaio 2014.

L’intervento riformatore ha inteso recepire taluni obblighi internazionali, i quali hanno imposto al legislatore nazionale di rimuovere le discriminazioni ancora esistenti a carico dei figli naturali.

La nostra legislazione interna, in particolare, strideva non soltanto con l’articolo 21 della Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione Europea (resa vincolante a seguito dell’entrata in vigore – il 1° dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona), ma anche con l’articolo 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ove è prevista la protezione della vita privata e familiare, nonché il successivo articolo 14, nel quale è posto il divieto di ogni discriminazione.

L’intervento di riforma ha inteso: affermare l’unicità dello stato di figlio; introdurre disposizioni circa l’ascolto del minore; prevedere nuove norme in tema di rapporto del minore con gli ascendenti; puntualizzare la nozione di stato di abbandono; prevedere la segnalazione di situazioni di disagio alle competenti autorità amministrative.

Con la ratio di evitare che condotte colpevoli dei genitori si traducessero in trattamenti deteriori per il minore, si è ampliata la possibilità di riconoscimento – già introdotta, pur con significative limitazioni, dalla Legge 19 maggio 1975, n. 151, di “Riforma del diritto di famiglia” – dei figli nati da un’unione incestuosa, sempre che il riconoscimento risponda al superiore interesse del figlio.

Significativa, inoltre, la devoluzione al tribunale ordinario, di tutte le controversie tra genitori in materia di affidamento e determinazione dell’assegno per i figli, a prescindere dallo status dei genitori (si veda il novellato articolo 38 delle disposizioni attuative del Codice Civile).

Come è consentito vedere da questo sia pur sommario affresco, le innovazioni introdotte sono molteplici. Qui si intende offrire sono solo alcuni spunti di riflessione in merito ad una delle opzioni prescelte dalla riforma e, in particolare, alla eclissi della potestà genitoriale, sintagma espunto dal Codice Civile.

2. Il mutato volto della potestà: da potere illimitato nel diritto romano ad ufficio di diritto privato ai giorni nostri

Per comprendere la portata della innovazione che ha condotto all’espunzione dall’ordito normativo della potestà si ritiene necessario procedere ad una breve ricognizione storica che consenta di comprendere il significato e la portata dell’abrogazione della locuzione potestà genitoriale.

Il diritto romano ci mostra una potestà genitoriale assimilabile alla potestà sugli schiavi, l’esercizio di un potere cui corrispondeva la totale soggezione di chi vi fosse sottoposto, una soggezione tale da tradursi anche nello ius vitae ac necis, il padre avrebbe finanche potuto uccidere colui che fosse soggetto al suo tremendo potere.

Vincenzo Arangio Ruiz, nelle sue Istituzioni di diritto romano, tuttavia, evidenzia come il rigore della patria potestà fu, sin dall’inizio, mitigato dal costume; fu la convergenza di giurisprudenza e legislazione, segnatamente nel periodo imperiale, a determinare l’attenuazione dell’antico vigore della patria potestas.

È lo stesso autore ad evidenziare che, già nel diritto giustinianeo, gli insistiti richiami al vigore della patria potestas sono da intendersi come ossequio ad una tradizione superata, anziché espressione del diritto vigente. In altri termini, già in epoca giustinianea, cominciò a designarsi con l’espressione patria potestà qualcosa di affine alla moderna funzione del genitore di educare e proteggere la prole.

Avvicinandosi ai giorni nostri, il legislatore del 1942, riconobbe il “carattere pubblicistico” dell’istituto della patria potestà e in esso vide la “affermazione del principio giuridico della sottoposizione dei figli al potere familiare dei genitori” (così, il Punto 166 della Relazione al Re del 16 marzo 1942), in questo modo riaffermando il rapporto potestà-soggezione, nel solco della tradizione romanistica.

Fu la Legge n. 151/1975 a modificare, già nell’intestazione, il titolo IX del libro I del Codice Civile. Da lì in poi non si sarebbe più potuto parlare di “patria” potestà, bensì di potestà “genitoriale”. Il lessico giuridico, tuttavia, come ben sanno i frequentatori abituali delle aule giudiziarie, conserva un elevato grado di vischiosità; nella prassi, infatti, sovente si ritrova ancor oggi negli atti giudiziari il riferimento, dal sapore antico, alla “patria” potestà, in luogo di quella che il legislatore del 1975 aveva profilato quale potestà genitoriale, cioè di ambedue i genitori (e non del solo padre). Il mutamento, peraltro, era reso evidente sin dalla rubrica del richiamato titolo IX: non più “Della patria potestà”, bensì “Della potestà dei genitori”. A dispetto della potenza delle leggi, capaci di mandare al macero intere biblioteche, come recita l’antico detto, è difficile svellere radicati usi linguistici.

L’evoluzione interpretativa, specie sulla scorta dei principi enunciata dalla Costituzione repubblicana, in realtà, aveva – già prima del 1975 – condotto ad esiti ermeneutici nuovi. La potestà genitoriale, per opera della giurisprudenza, era già stata ridisegnata quale esercizio di una funzione, di un munus diretto a realizzare gli interessi della prole e non quelli di chi ne fosse investito.

Significativa, in proposito, è – tra le tante – la Sentenza 7 novembre 1985, n. 5408, ove si riconosce che la potestà genitoriale costituisce un ufficio di diritto privato, in quanto deve essere esercitata nell'interesse esclusivo del minore, il che non esclude che il genitore, verso lo Stato e verso i terzi, abbia un vero e proprio diritto soggettivo alla titolarità dell'ufficio e all'esercizio personale e discrezionale del medesimo, con l'unico limite di indirizzarlo verso il soddisfacimento delle sole esigenze del minore.

Tra i molti che potrebbero richiamarsi nella dottrina civilistica, esemplificativamente, è possibile citare Francesco Gazzoni, il quale nell’ultima edizione del suo autorevole manuale di diritto privato, a proposito della potestà genitoriale, in una direzione conforme a quella giurisprudenziale poco più sopra segnalata, osserva che detta potestà costituisce un tipico esempio di non coincidenza tra chi esercita il diritto e chi è titolare dell’interesse sotteso, giacché i genitori gestiscono in nome e nell’interesse dei figli i vari rapporti giuridici che a costoro fanno capo.

3. La discordanza tra legge delega e decreto delegato: per effetto del decreto, la potestà scompare, le subentra la responsabilità genitoriale

All’articolo 1, comma 6, la Legge 219/2012 aveva previsto che la rubrica del titolo IX fosse sostituita dalla seguente “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri del figlio” e l’articolo 2, comma 1, nell’enunciare i principi e criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il legislatore delegato, alla lettera h), assegnava al Governo di provvedere, con decreto, alla “unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell'esercizio della potestà genitoriale”.

Un simile orientamento del legislatore delegante pareva trovare giustificazione nella nozione di potestà offerta dal diritto vivente. Come visto, infatti, la potestà genitoriale era stata spogliata del riferimento all’antica soggezione al potere illimitato del pater e la relativa nozione si era riempita di contenuti nuovi, conformi alla mutata coscienza sociale ed al dettato costituzionale.

Ove la delega fosse stata scrupolosamente osservata avremmo, oggi, il mantenimento della locuzione “potestà dei genitori” nella rubrica del titolo IX ed una configurazione della responsabilità genitoriale “quale aspetto della potestà dei genitori”. Il legislatore delegato, invece, ha varcato un confine così chiaramente demarcato nella delega.

Eccedendo rispetto alle indicazioni rivenienti dalla legge delega, il Governo – col Decreto Legislativo n. 154/2013, all’articolo 7, comma 10, ha, difatti, disposto la modifica della rubrica del titolo IX, ora intitolato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”.

Ma il Governo si è spinto anche oltre, facendo scomparire il riferimento alla potestà dal Codice Civile e di Procedura Civile (articolo 709 ter), dal Codice penale e di Procedura Penale. Ogni riferimento alla potestà scompare anche nella legislazione speciale; la locuzione cessa di figurare, così, nella Legge 21 novembre 1967, n. 1185, recante “Norme sui passaporti”, nella Legge 1 dicembre 1970, n. 898, recante “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, nella Legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”, nonché, da ultimo, nella Legge 4 maggio 1983, n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia” e nella L. 31 maggio 1995, n. 218 di “Riforma del sistema di diritto internazionale privato”.

4. Le ragioni ed il possibile significato dell’opzione terminologica

L’espressione parental responsibility figurava già in numerose fonti internazionali. Il decreto delegato ha inteso farsi carico di una simile evoluzione giuridica. Ne costituisce un esempio il Regolamento (Ce) n. 2201/2003, così detto Bruxelles II bis, che disciplina all’interno dell’Unione Europea –  con la sola esclusione della Danimarca – la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.

Nel predetto regolamento è offerta, peraltro, anche una nozione di responsabilità genitoriale, valida esclusivamente nell’ambito applicativo proprio del regolamento stesso, ove si legge che per essa si intendono “I diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita”.

A livello di diritto internazionale, la locuzione responsabilità genitoriale era – lo si rammenta per completezza – già apparsa nella Dichiarazione ONU dei diritti del fanciullo approvata il 20 novembre 1959 (si vedano i principi sesto e settimo della Dichiarazione).

La modifica terminologica, come spiega la relazione al decreto, intende assumere una diversa visione prospettica dei rapporti genitori-figli, alla luce della quale occorre porre in risalto l’interesse superiore dei figli minori e non quello dei genitori investiti della responsabilità genitoriale. Detto altrimenti, con le efficaci parole di Francesco Ruscello, potrebbe dirsi che “con la nuova formulazione linguistica si abbandonerebbe l’idea asimmetrica e adultocentrica del rapporto genitori-figli a vantaggio di una idea improntata all’eguaglianza di diritti e di doveri e piú marcatamente puerocentrica”.

Anche alla luce della riscontrata discordanza tra legge delega e decreto delegato, rimane comunque il sospetto che la cancellazione della potestà in favore della responsabilità genitoriale sia stata una scelta non sufficientemente meditata: ancorché nobilmente ispirato dal desiderio di uniformarsi a fonti sopranazionali, oltre che dalla volontà di mettere al centro l’interesse del minore, il legislatore pare aver trascurato di considerare i nuovi contenuti di cui, in progresso di tempo, era venuto riempiendosi il sostantivo potestà, situazione giuridica affatto peculiare, come si è tentato di chiarire, e sin da tempo non più coincidente con l'illimitato potere patriarcale delle origini.

Poiché, mutuando un famoso titolo di Carlo Levi, le parole – specie nel diritto – sono pietre, l’esperienza applicativa rivelerà l’autentica portata dell’abbandono della vecchia potestà, forse scacciata a causa del suo imparentamento etimologico col sostantivo potere, in favore della ben più mite, anche se meno cristallina per il giurista italiano, parental responsibility.