Dogville: comunità ed inclusività

Quando possiamo definirci inclusivi? E cosa significa comunità inclusiva?
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Quando possiamo definirci inclusivi? E cosa significa comunità inclusiva?

L’inclusività è la «propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi e stereotipi». (Treccani)

Alcune mie riflessioni sul tema nascono da un’opera cinematografica: Dogville, film del 2003, diretto da Lars von Trier.

Dogville è una piccola comunità, i cui abitanti vivono nella monotonia e nell’inerzia, ripetendo quotidianamente attività, relazioni e riposo in un ciclo continuo di appiattimento, senza sogni e senza speranze, ma considerandosi, al contempo, una comunità funzionale e perfetta.

Un giorno arriva Grace, una donna che mostra, con ingenuità, la sua parte più intima e personale.

Gli abitanti, inizialmente piuttosto diffidenti, con il tempo, grazie al loro leader (Tom), iniziano ad apprezzarla. La comunità ne trae così vitalità ed entusiasmo.

Ben presto la situazione cambia: a Grace vengono fatte richieste di ogni tipo affinché ricambi quell’ospitalità. Le richieste diventano sempre più pressanti fino a sconfinare poi in violenza fisica e psicologica. La donna viene così incatenata e ridotta in schiavitù. I sentimenti di rabbia, di invidia, di avidità e di sfruttamento prevalgono sull’accoglienza.

Naturalmente Lars von Trier non poteva raccontarci la favola bella. Come di sovente avviene nelle sue opere, il regista mette a nudo le degenerazioni e le bestialità dell’essere umano e di conseguenza delle relazioni umane.

La favola dark si chiude con Grace che, salvata dal Padre, in un primo momento, vorrebbe perdonare gli abitanti della comunità “perché non sanno quello che fanno”, ma che poi, in un cambio prospettiva, ritenendo che non ci sia nulla di buono salvare, ordina la distruzione di Dogville. Assistiamo così ad un processo piuttosto noto storicamente: gli oppressi diventano oppressori.

È evidente il fallimento dell’inclusività. Il “corpo estraneo” viene rigettato.

Da un lato il gruppo non ritiene Grace meritevole di essere inclusa nella comunità, in quanto straniera al loro piccolo mondo perfetto e, dall’altro, c’è una donna che accetta ogni sopruso pur di meritarsi quell’inclusione.

Cosa poteva essere fatto affinché Grace fosse inclusa? Lei stessa cosa avrebbe potuto fare?

Se le differenze fossero state rispettate, valorizzate ed accolte come ricchezza, Dogville avrebbe potuto essere una comunità inclusiva?

Propendo per una risposta affermativa, perché l’inclusione richiede una riflessione diffusa che coinvolga tutti gli interlocutori.

Occorre ragionare insieme sulle conseguenze dei nostri comportamenti, affrontare i nostri pregiudizi ed imparare a superarli per creare una comunità equa che rispetti i diritti, l’identità e le caratteristiche di ogni persona.

Se le decisioni, al riguardo, fossero unilaterali, si aprirebbe la strada all’esclusione, proprio come nella storia che ci racconta Lars von Trier.

Spesso il termine inclusività è accompagnato alla parola diversità, che non apprezzo particolarmente. Sembra portatrice di distanza. Preferisco usare il termine “differenze” che meglio si inserisce in un contesto dialettico paritario ed arricchente, lontano da quel “dobbiamo ascoltare tutti”, dove quel noi assurge a soggetto portatore di verità e distanzia quel tutti, perché diversi. Diversi nelle idee, nei valori, nello stile di vita, nelle credenze, nel genere, nell’orientamento sessuale.

Dovremmo forse cambiare prima il linguaggio? Il prof. Aldo Carotenuto scriveva che quando si sviluppa un percorso individuale, usando un linguaggio non comune, il singolo viene visto come una stranezza. Un diverso.

È quella stranezza che dobbiamo accogliere perché può arricchire la comunità.

Diversamente, l’inclusione diventa solo un mezzo di omologazione e non di valorizzazione.