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Frutti d’una vigna antica

Il senso della memoria e della comunità
Il senso della memoria e della comunità

Il senso della memoria e della comunità: una iniziativa dei frati predicatori a Bologna nel 1919

 

Storie e memorie

Passando attraverso un’aspra selva di semplificazioni, possiamo dire che esistono due modi per vivere il proprio passato: quello della storia e quello della memoria. Il primo si limita a fornire una semplice conoscenza della concatenazione di eventi e persone che hanno determinato la condizione presente del soggetto; il secondo invece riattualizza il passato di modo che sia viva chiave di lettura per il presente. Come tutte le opposizioni dualistiche, anche questa soffre del limite evidente di riferirsi a realtà ideali, senza considerare la complessità del reale. Difatti, accade sovente sia che una memoria si fondi su di una conoscenza teorica edificata su altro, sia che la conservazione di una storia abbia negli eventi legati alla memoria le sue fondamenta.

Una simile complessità non appartiene solamente all’identità sociale, ma anche a quella personale. Sia a livello individuale che a livello comunitario sentiamo sempre la necessità di relazionarci con il nostro passato attraverso questi due elementi, tanto distinti quanto uniti in una prassi virtuosa. Mentre è lecito, da un lato, dare per scontato che la scientificità della nostra cultura renda evidente il valore della storia, dall’altro penso che il nostro smodato amore per il concetto di rivoluzione renda meno chiaro il peso della memoria. Come si è visto, essa consiste nel riattualizzare un evento passato attraverso dei gesti che, consentendo in qualche maniera la sua permanenza nel presente, rinnovano il peso che l’evento ha avuto sulla nostra esistenza.

È possibile quindi affermare che l’essenza diacronica di un ente, singolare o collettivo, trovi nella memoria lo strumento indispensabile per rifondare su di una stabilità atemporale le differenti accidentalità, presenti o future.

 

L’essenza d’una relazione

Mi scuso con voi, cari lettori, se questo lungo incipit vi è suonato bizzarro ed un po’ freddo, ma penso fosse necessario non tanto a fondare il discorso seguente, quanto a giustificarne la presenza. Difatti, le memorie, come sopra intese, sono tanto importanti per chi le vive quanto futili ed oziose per chi le osserva. Questo accade perché mentre una conoscenza storica ha un valore che possiamo definire obiettivo, coglibile da chiunque a prescindere dalla sua relazione con l’oggetto di cui narra il passato, la memoria, in quanto evento riattualizzante, è pregnante solo per chi, in qualche maniera, sente la necessità di rileggere il proprio presente alla luce di quei trascorsi.

Per fare un esempio, il compleanno di una persona, una delle forme di memoria più diffuse e semplici, è rilevante solo per il diretto interessato e per le persone che hanno una relazione con lui: gli altri invece possono al massimo essere interessati al dato che comporta, cioè la data di nascita del soggetto, ma non saranno minimamente influenzati dall’attualizzazione in sé.

Queste considerazioni implicano che quando si considera una memoria, si ha a che fare con la volontà di una comunità di rileggere la propria identità e, solo alla luce di quanto ottenuto, trasmettere un dato storico che possa allargare i confini della stessa. Questo è ciò che è accaduto in occasione dell’VIII Centenario del Convento Patriarcale di san Domenico in Bologna, chiusosi lo scorso 6 gennaio.

Le iniziative della comunità dei frati Predicatori hanno ricercato nelle origini del complesso conventuale, e della comunità ivi installatasi, quegli elementi sostanziali capaci di consentire una sana lettura della sua attualità.

 

I tre pilastri

La figura carismatica del beato Reginaldo d’Orleans, primo priore del convento di Bologna, costituisce un interessante esempio per comprendere questo tipo di ricerca, nonché una chiave di lettura per la presenza stessa dei domenicani in città.

Da un lato infatti la sua levatura accademica gli permise d’inserire la comunità con successo nella vita universitaria bolognese del XIII secolo; dall’altro il suo personale carisma, unito all’ardore tipico di una vocazione adulta, gli consentì di essere pastore ed efficace promotore vocazionale[1].

Semplice è scorgere in questi aspetti, dai quali si costituì la comunità bolognese, altrettanti capisaldi della moderna missione dei frati: da un lato una viva presenza intellettuale ed accademica, utile connessione fra la modernità ed il glorioso passato della città; dall’altro la necessità di tradurre tale prestigio intellettuale in azione pastorale attraverso la mediazione di una fervorosa e sincera spiritualità.

Molti sarebbero gli elementi utili ad una sana rilettura della comunità di Bologna desumibili da questa memoria; tuttavia, oltre a quelli citati, ve n’è uno con il quale vorrei lasciarvi e che forse è meno di frequente associato all’Ordine dei Frati Predicatori: l’attenzione agli ultimi.

Leggendo l’ottimo e piacevole testo scritto di recente da padre Angelo Piagno sulla storia del convento di san Domenico, mi sono imbattuto nel resoconto del VII centenario, tenutosi ovviamente nel 1919[2].

Il clima sociale, politico e spirituale era ovviamente molto diverso, tuttavia identico era il passato rievocato e quindi simili anche le iniziative prese. Proprio fra queste ho scovato l’interessante opera dell’allora priore fra Enrico Brianza a favore dei bambini di strada: un semplice ricreatorio che, attorno all’Arca di san Domenico, potesse tenerli lontani da quell’ambiente malsano.

Questo gesto testimonia una vicinanza dei frati Predicatori ai più deboli che spesso passa in sordina, quasi nascosta fra le pagine della storia, ma che scaturisce da una comunione celata che, radicata nella povertà materiale vissuta privatamente dai primi frati domenicani, si traduce in segni discreti e concreti.

Riflettere su questo mi ha permesso di notare tutti i piccoli atti di carità che i miei confratelli, individualmente o come comunità, praticano in questo nostro XXI secolo: il loro silenzio assume, alla luce della memoria, non solo un sapore antico, ma anche un invito nuovo a scoprire un modo di fare e di scorgere la carità che sia non fine, ma semplice conseguenza di un rapporto profondo e consapevole con il Signore.

Ecco che quindi, presenti ma celati dietro coloro che fanno dell’attenzione agli ultimi la loro missione, i frati Predicatori rivelano allo sguardo attento la bellezza di chi, illuminato da Cristo, è capace di fare della semplicità del quotidiano un’occasione di carità.

 

[1]Per approfondire la figura del beato Reginaldo, cfr Pietro Lippini (a cura di), San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.

[2] Cfr Angelo Ottaviano Piagno, Il convento patriarcale di san Domenico. Storia e miracoli, ESD, Bologna 2019, pp. 141-140.

Testi ESD consigliati:

  • Angelo Ottaviano Piagno, Il convento patriarcale di san Domenico. Storia e miracoli, ESD, Bologna 2019.
  • Pietro Lippini (a cura di), San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.