È reato la commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis light
Abstract
La Legge 242 del 2016, con il fine di promuovere la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa, ha reso lecita l’attività di coltivazione della stessa. La normativa prevede, tuttavia, che siano osservati taluni parametri inerenti al tipo di coltura e il livello di THC (tetroidrocannabinolo). L’introduzione della predetta norma ha posto il problema di stabilire se, considerata lecita la coltivazione, possa dirsi parimenti lecita la successiva commercializzazione delle sostanze derivanti dalla canapa (quali hashish e marijuana). Il dibattito giurisprudenziale ha sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite, le quali si sono pronunciate escludendo la liceità della condotta di commercializzazione della cannabis light.
Indice
1. Premessa sui prodotti derivati dalla cannabis light
2. Contenuto della Legge 242 del 2016 sulla cannabis light
3. I principali orientamenti emersi in giurisprudenza sulla cannabis light
4. La questione sottoposta alle Sezioni Unite
5. La soluzione delle Sezioni Unite
6. Conclusioni sulla cannabis light
1. Premessa sui prodotti derivati dalla cannabis light
L’introduzione della Legge 242 del 2016, recante disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, ha posto il quesito se sia lecito commercializzare le sostanze droganti prodotte mediante coltivazione, ove contengano un principio attivo nei limiti consentiti dalla normativa in esame.
Il quesito ha aperto un ampio dibattito pubblico, dovuto soprattutto alla dilagante crescita di esercizi commerciali destinati alla vendita per uso personale dei derivati dalla canapa, cosiddetti “cannabis shop”.
Per rispondere al quesito occorre in via preliminare esaminare il contenuto della legge dalla quale è sorto il dibattito giurisprudenziale e dottrinale, per poi procedere ad elencare le diverse soluzioni offerte dalla Corte di Cassazione fino alla decisione definitiva resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte.
2. Contenuto della Legge 242 del 2016 sulla cannabis light
La legge in esame, come specificato dall’articolo 1 della medesima, si pone l’obiettivo di sostenere e promuovere la coltivazione della canapa, coltura idonea a garantire la riduzione dell’impatto ambientale, del consumo dei suoli e della desertificazione, nonché della perdita della biodiversità.
Il comma 2 dell’articolo in commento prosegue ad individuare l’ambito applicativo, stabilendo che la normativa riguarda unicamente le coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002.
Ulteriore condizione individuata dalla legge, affinché l’attività di coltivazione avente ad oggetto le varietà di canapa indicate possa dirsi lecita, è data dal livello di THC (tetraidrocannabinolo), che deve essere inferiore allo 0,6%. La canapa che non superi la predetta percentuale è scientificamente nota come “canapa sativa”.
L’attività di coltivazione delle varietà specificate, purché non superi il livello di THC indicato, non rientra nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, di cui al decreto Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 ed è, dunque, considerata lecita.
Il dibattito, quindi, non riguarda la coltivazione, pacificamente consentita alle condizioni predette, bensì la commercializzazione al dettaglio delle sostanze ricavate dalla cannabis light.
La normativa infatti, pur indicando all’articolo 1 comma 3 gli scopi ai quali la coltivazione può essere finalizzata, non si sofferma a disciplinare la vendita al dettaglio delle stesse.
Da qui la discussa questione della liceità della messa in commercio delle sostanze ricavate dalla legittima coltivazione della canapa sativa, rispetto alla quale sono sorti due orientamenti contrastanti.
3. I principali orientamenti emersi in giurisprudenza sulla cannabis light
Un primo orientamento, basandosi su un’interpretazione strettamente letterale della legge 242 del 2016, esclude che nell’ambito applicativo della medesima possa ricomprendersi la condotta di commercializzazione delle infiorescenze ricavate dalla coltivazione della canapa sativa.
La norma, infatti, consente solo la coltivazione di quest’ultima alle condizioni predette e per i fini indicati dall’articolo 1 comma 3, tra i quali non rientra la messa in commercio.
Trattandosi, peraltro, di una normativa speciale rispetto a quella generale contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 309 del 1990, non può essere applicata analogicamente a casi non espressamente contemplati.
Deve, pertanto, ritenersi che la cessione delle sostanze derivanti dalla coltivazione della canapa (quali hashish e marjuana) non sia stata consentita dalla legge 242 del 2016 e continui ad essere considerata illecita, in quanto penalmente rilevante ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (Cassazione penale, Sezione VI, 27 novembre 2018, n. 56737, imputato Ricci; Cassazione penale., Sezione VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, imputato Moramarco; Cassazione penale., Sezione IV, 13 giugno 2018, n. 34332, imputato Durante).
Un contrario orientamento ermeneutico sostiene la liceità, oltre che della coltivazione, anche della messa in vendita dei derivati dalla canapa il cui principio attivo non superi la percentuale fissata dello 0,6%.
Si sostiene, infatti, che avendo il legislatore consentito la coltivazione della canapa avrebbe implicitamente ammesso anche la commercializzazione della medesima, essendo conseguenza logica che dalla prima derivi necessariamente la seconda.
Sicché la cessione delle sostanze droganti il cui principio attivo non superi quello consentito dalla legge 242 del 2016 rientrerebbe nell’ambito applicativo di quest’ultima; sarebbe, pertanto, esclusa la punibilità secondo le previsioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
Secondo questo orientamento il legislatore avrebbe rinvenuto nella soglia del principio attivo dello 0,6% il giusto bilanciamento tra l’esigenza di tutelare la salute e l’ordine pubblico e quella di consentire la coltivazione della canapa, considerato che al di sotto di questa soglia le sostanze non possono ritenersi stupefacenti o psicotrope (Cassazione penale, Sezione VI, 29 novembre 2018, n. 4920, imputato Castignani).
I due orientamenti, fornendo soluzioni opposte, hanno suscitato un ampio dibattito, rendendo necessario un intervento chiarificatore circa la corretta interpretazione della legge 242 del 2016. La Sezione IV della Corte di Cassazione con ordinanza n. 8654/2019 chiedeva alle Sezioni Unite di prendere posizione sul punto, stabilendo se la commercializzazione potesse ritenersi consentita dalla legge 242 del 2016, ovvero penalmente rilevante in base al decreto 309 del 1990.
4. La questione sottoposta alle Sezioni Unite
L’ordinanza di rimessione cui si è fatto riferimento sopra non ha preso posizione circa il dibattito illustrato, limitandosi ad esporre le ragioni a sostegno dei diversi orientamenti emersi, sì da lasciare l’ultima parola alle Sezioni Unite.
Circa l’orientamento che esclude dall’ambito applicativo della legge 242 del 2016 la commercializzazione di hashish e marjuana si osserva che dai lavori preparatori non emerge la volontà del legislatore di consentire la messa in commercio di tali sostanze.
La legge entrata in vigore si è anzi conformata al parere espresso dalla XII Commissione (Affari sociali), la quale si era orientata negativamente circa l’esclusione dalle Tabelle di cui al decreto Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 della canapa il cui THC non superasse l’1%.
Equivale a dire che era stato reso parere negativo in merito alla possibilità di considerare lecita qualsivoglia condotta avente ad oggetto la canapa sativa, con la logica conseguenza che, ad esclusione della coltivazione, tutte le altre rimanevano sottoposte al decreto n. 309 del 1990.
Tale condotta è peraltro estranea alle finalità tassativamente indicate dall’articolo 1, comma 3 della legge 242 del 2016.
Inoltre il combinato disposto degli artt. 17, 73 e 75 decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 pone, in via generale, il principio di illiceità delle condotte di detenzione per la vendita, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle di cui all’articolo 14.
Quest’ultima norma prevede, a sua volta, l’inserimento nella tabella II della “cannabis e dei prodotti da essa ottenuti”. Ragion per cui il divieto esiste e ha carattere generale, onde i rapporti fra il decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 e la legge n. 242 del 2016 appaiono ricostruibili in termini di regola- eccezione.
Poiché quest’ultima legge è da considerarsi derogatoria di un principio generale (ovvero quello secondo cui è illecita l’attività avente ad oggetto sostante stupefacenti), occorre stabilire quale sia il suo ambito applicativo, tenendo conto che si tratta di una legge speciale, non suscettibile di applicazione analogica.
A sostegno del secondo orientamento, che ammette la liceità della messa in commercio delle sostanze derivanti dalla coltivazione della canapa, depone però la considerazione che tra le finalità della legge rientrano, a norma dell’articolo 1, comma 3, lettera d), legge n. 242 del 2016 il sostegno e la promozione della coltura della canapa finalizzata alla produzione di alimenti.
L’articolo 2, comma 2, stabilisce espressamente che dalla canapa coltivata è possibile ottenere alimenti, sia pure prodotti nel rispetto delle discipline di settore.
L’articolo 5, poi, rinvia a un decreto del Ministro della salute, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, la necessità di definire i livelli massimi di residui di THC ammessi negli alimenti.
Questo complesso di norme, ammettendo l’utilizzo di alimenti contenenti residui di THC, sancisce la liceità del consumo umano - e quindi della commercializzazione - di prodotti contenenti tale principio attivo, sia pure alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla normativa.
Alla stregua di tali considerazioni acquista un consistente spessore logico il rilievo secondo il quale ai sensi dell’articolo 1, comma 2, legge n. 242 del 1990, la coltivazione di canapa delle varietà ammesse, iscritte nel catalogo indicato dalla predetta norma, esula dall’ambito di applicazione del decreto Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
Stando sempre alla normativa, anche il consumo umano, ivi inclusa la commercializzazione di prodotti alimentari contenenti THC che non superi lo 0,6%, rientra nel predetto ambito di piena liceità.
Sembrerebbe, pertanto, contraddittorio ritenere vietata la detenzione, cessione e vendita di derivati della cannabis provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242 del 2016.
5. La soluzione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno aderito all’orientamento che esclude la liceità della condotta di messa in commercio dei prodotti derivati dalla cannabis light, la quale continuerebbe ad essere penalmente rilevante, essendo disciplinata dal decreto Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
Essa ha infatti ritenuto che:
“la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2202/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’articolo 73, comma 1 e 4, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
La conclusione cui sono pervenute le Sezioni Unite privilegia l’interpretazione letterale della normativa di riferimento, avallando il primo orientamento giurisprudenziale sopra esposto.
Evidenzia, infatti, la Suprema Corte che occorre considerare anzitutto il contenuto della legge 242 del 2016, la quale legittima la coltivazione della canapa, ma limitatamente alle varietà da essa individuate.
A ciò si aggiunga che il legislatore ha altresì specificato i prodotti che da essa possono essere ottenuti in via esclusiva; tra questi vi rientrano fibre e carburanti, ma non anche hashish e marijuana.
Dalla legge di riferimento è evidente che, legittimando la coltivazione della canapa, la finalità promossa è funzionale a consentire la produzione di fibre ed incentivare altri usi industriali, diversi dalla produzione di sostanze stupefacenti.
Ne consegue che la commercializzazione della cannabis sativa e dei suoi derivanti, ove siano diversi da quelli consentiti dalla legge del 2016, integra il reato di cui all’articolo 73 del decreto Presidente della Repubblica 309 del 1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore a quello indicato dalla legge del 2016.
La commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina da un lato è infatti estranea all’ambito di operatività della legge 242 del 2016 e, dall’altro, integra un’attività illecita, essendo punita dal decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
Dunque la messa in vendita dei prodotti derivanti dalla coltivazione della cannabis light, diversi da quelli consentiti dalla legge del 2016, continua ad essere sottoposta al Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti e, pertanto, è punita penalmente ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica.
6. Conclusioni sulla cannabis light
La decisione delle Sezioni Unite sarà senz’altro destinata ad avere un forte impatto sociale.
Vi è, infatti, da considerare che dopo l’introduzione della legge 242 del 2016, ritenendosi che la canapa ricavata dalla coltivazione consentita alle condizioni illustrate, potesse anche essere successivamente commercializzata, si è assistito ad una crescita esponenziale di esercizi dediti alla vendita al dettaglio dei derivati dalla canapa sativa.
Resta da chiedersi se, alla luce dell’ultima pronuncia resa dalle Sezioni Unite, l’attività commerciale da questi svolta possa ancora ritenersi autorizzata in quanto consentita dalla legge 242 del 2016 o se, invece, debba ritenersi illecita, in quanto integrante i reati di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
Invero, data la complessità della materia, sul punto sarebbe auspicabile un intervento del legislatore volto a fornire un’interpretazione chiarificatrice circa la portata applicativa della legge in questione.
In tal modo si perverrebbe a stabilire in via definitiva se la normativa possa estendersi anche alla commercializzazione o se essa debba ritenersi limitata unicamente alla coltivazione.
Altra possibile via potrebbe essere quella di intervenire sulle tabelle di cui al decreto n. 309 del 1990 al fine di stabilire quali siano le soglie di principio attivo al di sotto delle quali la sostanza non possa considerarsi drogante e dunque la cessione non può ritenersi illecita.