Farinelli: la voce soave del cantante castrato

Farinelli
Farinelli

Broschi, Carlo Maria Michele Angelo, detto Farinelli o, più sovente, Farinello.

Nacque ad Andria il 24 gennaio 1705 da Salvatore Brosca e da Caterina Barrese. Apprese i primi elementi musicali dal padre e dal fratello Riccardo; poi condotto a Napoli verso il 1714-1715 (e qui probabilmente evirato), entrò alla scuola privata di N. Porpora. Dotato di non comuni attitudini musicali e di una voce molto bella, fu protetto dalla facoltosa famiglia di magistrati napoletani Farina, da cui trasse la denominazione di Farinello.

Il suo debutto sembra avvenisse nel 1720 a Napoli nella serenata Angelica e Medoro del Porpora il cui testo, di Metastasio, era anche la prima prova drammatica del poeta: tale notizia sembra ormai affermata da F. Walker (citato dall’Enc. dello Spett.).

A quell’anno, comunque, o al 1722, risalirebbero l’amicizia e la stima fra il B. e il Metastasio – i quali solevano chiamarsi l’un l’altro “gemello” -, amicizia e stima che durarono quanto la loro vita.

Al contrario di quanto si credeva, nel 1721 il B. non cantò nell’opera Eomene del Porpora al Teatro Alibert o delle Dame di Roma: il suo nome, infatti, non figura fra gli interpreti dell’opera, come è provato dal De Angelis, mentre è accertato che nel gennaio 1722 cantò, sullo stesso teatro romano, nella Sofonisba di L. A. Predieri e nel Flavio Anicio Olibrio del Porpora (libretto di A. Zeno), nel ruolo di Placidia. Il De Angelis, anzi, annota che questo sembra essere il primo vero trionfale debutto del Broschi. Dal 1722 iniziò, con una compagnia diretta dal Porpora, un giro di rappresentazioni nelle principali città italiane ed europee che durò un intero quindicennio, ovunque ottenendo successi indicibili, avendo a fianco i più grandi cantanti dell’epoca: Vittorina Tesi, Francesca Cuzzoni, Faustina Bordoni Hasse, G. Amorevoli, N. Grimaldi, F. Bernardi detto il Senesino, ecc. Ebbe un vasto repertorio e fra le numerosissime interpretazioni memorabili furono quelle del concerto alla corte viennese nell’inverno 1724, della Didone abbandonata di T. Albinoni (libretto del Metastasio) al Teatro S. Cassiano di Venezia nel carnevale 1725, dei Fratelli riconosciuti di G. M. Clari al Nuovo Teatro Ducale di Parma il 13 maggio 1726, della Fedeltà coronata, ossia l’Antigonedi G. M. Orlandini (libretto di B. Pasqualigo) al Teatro Malvezzi di Bologna nell’estate 1727, accanto al celebre e non più giovane cantante A. Bernacchi, che gli fu prodigo di consigli, dei concerti ancora alla corte di Vienna nel 1728 e nel 1731, dell’Edippo a Colono di P. Torri (libretto di D. Lalli) al teatro di corte di Monaco il 22 ottobre 1729, dell’Idaspe del fratello Riccardo (libretto di G. P. Candi) al Teatro S. Giovanni Grisostomo di Venezia nel carnevale 1730, dell’Artaserse di j. A. Hasse (libretto del Metastasio) allo stesso teatro l’ultima sera di carnevale 1730, e infine della Merope, ancora del fratello Riccardo (libretto di A. Zeno) al Teatro Regio di Torino il 29 ottobre 1732.

Veri trionfi riscosse a Londra al Lincoln’s Inn Fields Theatre il 29 ottobre 1734, quando cantò nell’Artaserse dello Hasse con arie di altri musicisti, fra le quali una specialmente, del fratello Riccardo, inserita al terzo atto, “Son qual nave ch’agitata”, suscitò negli spettatori un entusiasmo straordinario per un’eccezionale messa di voce, ferma, sostenuta fino alla fine e particolarmente lunga. La potenza e il fascino della sua voce in quest’opera furono tali da far dimenticare al suo rivale Senesino, che interpretava il ruolo del tiranno Artabano, la finzione scenica: il cantante, infatti, commosso gettò le braccia al collo di Farinelli, che interpretava la parte di Arbace. A Londra egli si trattenne fino al 4 maggio 1736, partecipando alla contesa del Porpora contro Haendel e trionfando, oltre che sul Senesino, anche sull’altro celebre cantante Gaetano Majorano, detto il Caffarello. Nell’estate del 1736 si recò a Parigi, dove diede applauditissimi concerti, e a Versailles, ma il 23 novembre dello stesso anno faceva ritorno a Londra. Alla fine del maggio 1737 Farinelli, che nel frattempo aveva ricevuto l’invito della corte spagnola, per mezzo dell’ambasciatore spagnolo a Londra, il conte di Montijo, a recarsi come cantante di camera dei reali di Spagna, Filippo V e Elisabetta Farnese, accettò un compromesso temporaneo e si mise in viaggio per la Spagna. Il 9 luglio 1737 si fermò a Versailles di nuovo e qui si esibì con grandissimo successo alla presenza del re Luigi XV, poco amante della musica e in particolare di quella italiana, ma che in quest’occasione lo ricolmò di ricchissimi doni.

Giunto il 7 agosto 1737 a Madrid, fu accolto con grande favore da Filippo V e da sua moglie: già il 30 agosto lo stesso Filippo, lo ammise quale “familiar Criado” con regolare diploma, cui era unito uno stipendio di circa 2.000 ducati e in più alloggio, servitù con livrea di corte, carrozze con cavalli reali e il privilegio dell’esenzione da qualsiasi giurisdizione. Non poche furono, fino al dicembre 1737, le difficoltà e le trattative perché Farinelli potesse stabilirsi al servizio di Filippo V; l’impresa del teatro inglese, nella quale s’era impelagato anche il Porpora, non voleva liberarlo dall’impegno, in quanto la rottura del contratto le avrebbe causato una grave perdita finanziaria. Alla fine vinse Filippo V e Farinelli terminò così a Madrid tutte le sue peregrinazioni artistiche.

Il favore da lui goduto alla corte di Filippo V e di Elisabetta Farnese aumentò a dismisura con i successori di questi sovrani, Ferdinando VI e Barbara di Braganza. Gli furono affidate, infatti, la cura della cappella musicale reale e la direzione dei teatri reali del Buen Retiro, di Aranjuez e de los Caños del Peral. Si deve a Farinelli il definitivo trionfo del dramma musicale italiano: egli fece tradurre i libretti in castigliano, chiamò in Spagna i più famosi cantanti e strumentisti italiani e ricorse a messe in scena straordinariamente fastose e immaginose, che utilizzavano invenzioni meccaniche in parte sue, in parte del macchinista bolognese G. Bonavera, da lui chiamato alla corte spagnola. In tale modo Farinelli sostituì completamente nei gusti della corte e dell’aristocrazia il melodramma italiano al teatro in versi, che, tuttavia, conservava ancora molto favore nel popolo. Suo compito fu pure, per esplicita richiesta del re, di cantargli tutte le sere quattro arie, due dall’Artaserse di Hasse, “Pallido il sole” e “E pur questo dolce amplesso”, un minuetto, che Farinelli cambiava sempre, e un’aria forse di sua composizione, imitante il canto dell’usignolo. Benché sia giudizio diffuso che egli non abusasse della sua eccezionale posizione presso i sovrani spagnoli (con decreto del 3 settembre 1750 Ferdinando VI in persona gli aveva offerto la croce dell’Ordine di Calatrava, che si concedeva solo ai nobili) per immischiarsi negli affari politici, è vero piuttosto il contrario. Non solo, infatti, egli sollecitò incessantemente l’intervento di Filippo V, di Elisabetta Farnese e di Ferdinando VI presso la corte napoletana, perché fossero concessi titoli e uffici ai suoi familiari napoletani (il fratello Riccardo, il cognato Giovanni Domenico Pisani, Domenico Barberello Grimaldi e altri), il che senza dubbio non fu di piccolo peso nell’inclinare ranimo del successore di Ferdinando VI, Carlo di Borbone, contro di lui; ma anche pretese di prendere attiva parte, con suggerimenti e iniziative le più varie, alla politica di riforme del ministro Zenón de Somodevilla, marchese de la Ensenada, legandosi così al destino politico di lui.

Nel 1752 egli tentò, ma inutilmente, d’indurre Carlo di Borbone, attraverso Elisabetta Farnese, ad accettare il trattato di Aranjuez tra la Spagna, l’Impero e il re di Sardegna; due anni dopo impiegò tutta la sua influenza su Ferdinando VI per sostenere la politica di accordi con la Francia proposta dal marchese de la Ensenada, contro quella favorevole all’Inghilterra del duca di Huéscar, del conte di Valparaiso e di Riccardo Wall; nell’agosto 1758, dopo la morte di Barbara di Braganza, intrigò con il duca d’Alba per indurre Ferdinando VI a un nuovo matrimonio. Nociva finì per essergli anche la protezione della regina Barbara, la cui memoria divenne invisa alle corti borboniche per il testamento che dichiarava erede di tutte le sue sostanze la casa reale del Portogallo. Durante la lunga infermità di Ferdinando VI, inoltre, diede adito al sospetto di macchinare contro i diritti alla successione sul trono spagnolo di Carlo di Borbone. Finalmente dovette essere decisivo contro Farinelli il giudizio del più ascoltato consigliere di Carlo, il ministro Bernardo Tanucci, il quale, a proposito del cantante, osservava: “Non è cosa che più disanimi gli onorati ministri d’un sovrano che queste figure inferiori le quali, non essendo obbligate a rispondere della condotta del governo, di governo clandestinamente parlano, e di affari. Muovono il sovrano, del quale non può poi il ministro far querela”… (lettera al principe di Jaci, 19 luglio 1757). Il 28 novembre 1758, scrivendo ancora al principe di Jaci, ambasciatore a Madrid, definiva Farinelli “una figura arabica… che costì non c’è stato e non ci sarà che per guastare e inquietare il Pubblico e il Privato”. Il 13 febbraio 1759 ancora il Tanucci ammoniva il suo corrispondente da Vienna Francesco Bindi: “…la regina morta di Spagna [Barbara di Braganza], Ensenada, Farinello, ecc. son nomi che non si devon più rammentare da chi vuol aver carità del genere umano.

Questi motivi spiegano il comportamento, che nel giudizio di molti autori appare ingiustificato, di Carlo di Borbone verso Farinelli al momento di salire sul trono spagnolo (1759): egli ordinò, infatti, al ministro Riccardo Wall che Farinelli fosse lasciato libero di andare dove meglio gli piacesse, conservando tutti i suoi stipendi e privilegi, nonché tutti i doni ricevuti (fra i quali due violini, un Amati e uno Stradivari, tre clavicembali assai pregiati e tutta la musica della regina), a patto, però, che non gli si presentasse innanzi.

Così, nell’autunno 1759, Farinelli tornò in Italia e fu dapprima a Parma, dove avrebbero voluto trattenerlo alla corte, poi nel novembre del 1760, si recò a Napoli, accolto con molto entusiasmo dal popolo, ma con tale freddezza dai membri della Reggenza, che preferì, dal 3 luglio del 1761, fissare la residenza in una villa di sua proprietà a Bologna. Qui, ricco e carico di gloria, ossequiato dalla cittadinanza, dai magistrati, da letterati e musicisti, fra i quali il padre G. B. Martini (che gli fu grande amico), Mozart e Gluck, e persino da sovrani, come l’elettrice di Sassonia e Giuseppe II d’Asburgo Lorena, Farinelli morì il 15 luglio 1782.

L’arte del Farinelli fu giudicata da chi lo ascoltò assolutamente inarrivabile e la sua fama può paragonarsi solo a quella del suo illustre “gemello” Metastasio, ambedue tipici rappresentanti del sec. XVIII, ricco di grandi figure. Come cantante ebbe voce di sopranista naturale, dall’estensione di tre ottave, di timbro chiarissimo, dolce e penetrante, che all’inizio della sua carriera adoperò più per suscitare meraviglia che per far musica. Amava, infatti, variare, secondo la moda del resto, tutte le arie, ma lo faceva con gusto e abilità, essendo egli stesso un buon musicista: compose, infatti, un Ossequioso ringraziamento per le cortesissime grazie ricevute dalla britannica nazione (1737), sei Arie con strumenti e altri pezzi vocali e strumentali. Suonava anche il cembalo e la viola da maestro e con tali strumenti si dilettò nei lunghi anni della sua vecchiaia, continuando a cantare fino agli ultimi giorni con voce chiara e perfetta, nella quale non si percepiva l’usura del tempo.

Eccezionale fu la sua tecnica vocale: trillo uguale, rotondo e della medesima forza qualunque fosse la durata; chiarissimi i mezzi trilli, i gruppetti, le scale velocissime, le appoggiature eleganti, ma soprattutto straordinaria la messa di voce, alla quale s’è già accennato. Colto e raffinato (conosceva benissimo le lingue francese, inglese, tedesca e spagnola), fu anche di bell’aspetto ed elegante. Divulgatore della cultura italiana, aiutò generosamente gli artisti italiani ad affermarsi ovunque i suoi impegni all’estero lo conducessero. “Il complesso stesso delle sue eccezionali qualità di uomo e di artista ne fecero un fenomeno unico e irrepetibile” (Enc. dello Spett.).