Mario del Monaco, il tenore dei tenori
Mario Del Monaco è stato per oltre un trentennio il protagonista pressoché assoluto del Teatro musicale internazionale, rivaleggiando forse soltanto con Giuseppe Di Stefano, artista peraltro di diverso temperamento e caratteristiche vocali, insieme con il quale rappresentò le due punte di diamante del Teatro d’opera dell’immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta. Figura di primo piano nel panorama tenorile del secondo dopoguerra, affermatosi nel momento in cui i grandi tenori del periodo tra le due guerre si avviavano al tramonto. La sua voce, splendida per timbro e volume, aveva nel registro basso un colore “baritonale” che conferiva alla sua vocalità un vigore e una ricchezza di colori del tutto particolare; si aggiungeva a questa particolarità una altrettanto straordinaria nitidezza nel registro acuto che, sostenuta da un fraseggio vibrante e incisivo, veniva a riallacciarsi alla grande tradizione dei tenori verdiani della seconda metà dell’Ottocento.
Mario Del Monaco nacque a Firenze il 27 luglio 1915 da Ettore e Flora Giachetti . Quest’ultima, dotata di una bella voce sopranile e di un naturale talento artistico, gli trasmise l’amore per la musica. Quando la famiglia si trasferì a Cremona, fu avviato allo studio del solfeggio e del pianoforte con il maestro Dondi, un musicista che suonava il pianoforte nei cinema per i film muti dell’epoca.
Nel 1925 il padre fu inviato a Misurata (Libia) come commissario coloniale, da lì a Tripoli, dove tornò a coltivare i suoi interessi musicali, frequentando il Teatro Miramare, dove confluivano molte compagnie teatrali provenienti dai maggiori centri musicali italiani: poté così assistere ad una rappresentazione dell’Aida di G. Verdi, in cui il ruolo di Radames era sostenuto dal tenore Attilio Barbieri, che in seguito sarebbe divenuto suo insegnante. Rientrato in Italia, si stabilì a Pesaro e nel 1928 si iscrisse nella classe di violino del liceo musicale “G. Rossini”, ma abbandonò ben presto lo studio perché scoprì di possedere una voce tenorile molto robusta e squillante. Frequentò contemporaneamente il liceo musicale ed il liceo artistico. Studiò quindi, per un breve periodo, il canto con il maestro Barbieri, incontro questo molto importante per lo studio e gli inizi della carriera, tanto che quest’ultimo favorì il suo esordio, nel 1931, al Teatro Gigli di Mondolfo nelle Marche, dove interpretò un breve ruolo nel Narciso di J. Massenet.
In seguito, prese parte ad una rappresentazione del Don Pasquale di G. Donizetti ,con una compagnia formata da allievi del liceo e dilettanti in un teatrino di Ancona, e infine, fu Arturo nella Lucia di Lammermoor di Donizetti a Sant’Angelo di Lizzola. Dopo questa parentesi dilettantesca prese lezioni di canto da L. Melai Palazzini, un’allieva di A. Bonci che, tuttavia, indirizzandolo verso un repertorio di agilità, se facilitò il registro acuto, assottigliò la sua voce danneggiandone la potenza e la smagliante bellezza del timbro. L’inesperienza e la naturale facilità d’emissione lo indussero ad accostarsi al repertorio settecentesco e iniziò a percorrere varie località delle Marche e della Romagna per esibirsi nelle chiese in applauditi recital; in seguito intraprese un serio corso di studi con A. Melocchi, insegnante nel liceo musicale di Pesaro. Rieducata la voce con appropriati esercizi, riacquistò gradualmente la potenza, l’ampiezza e la facilità naturale, raggiungendo piena omogeneità nella gamma che dal si bemolle giungeva sino al re bemolle sovracuto; tuttavia, non ancora soddisfatto dei progressi raggiunti, iniziò a creare una sua tecnica con cui riuscì a ottenere il meglio dal suo organo vocale.
Aggiudicatosi una borsa di studio al Teatro dell’Opera di Roma dopo essersi presentato alla giuria presieduta da T. Serafin, con brani di U. Giordano, G. Puccini, F. Cilea e G. Donizetti, e fu ammesso a frequentare la scuola di perfezionamento del Teatro. Partì pieno d’entusiasmo per Roma, ma anche questa esperienza si rivelò deludente: l’errata scelta del repertorio impostogli dall’insegnante di canto danneggiò ulteriormente la sua voce costretta ad affrontare ruoli non congeniali e impervi. In breve tempo perse quasi completamente la voce e agli inizi del 1938 tornò a Pesaro, ove riprese a studiare col Melocchi; richiamato alle armi, fu mandato all’autocentro di Milano, dove poté continuare lo studio del canto. Seguendo i consigli del vecchio insegnante riacquistò la voce e poté ottenere brevi scritture per i concerti domenicali del locale dopolavoro.
Il suo vero esordio ebbe luogo nel marzo del 1940 con Cavalleria Rusticana di P. Mascagni al Teatro di Cagli, dove il soprano Rina Filippini, che nel 1941 divenne sua moglie, esordì come Nedda in Pagliacci di R. Leoncavallo. Ottenuta per interessamento della Filippini un’audizione da Fausto De Tura, impresario del Teatro Puccini di Milano, fu scritturato per Madama Butterfly di Puccini; il suo debutto nel ruolo di Pinkerton, avvenuto nel dicembre del 1940, ebbe un esito trionfale. Il successo riportato nell’opera pucciniana gli procurò numerose scritture in vari teatri italiani: dopo una tournée in Sicilia al Teatro Biondo di Palermo per Cavalleria Rusticana e Tosca di Puccini, fu al Teatro Massimo Bellini di Catania per Bohème. Nel 1941, nonostante l’incalzare degli eventi bellici e la distruzione del Teatro alla Scala, la cui compagnia stabile si trasferì a Como, venne scritturato dal complesso scaligero per lo spettacolo inaugurale della stagione, cantando in Bohème diretta da G. Del Campo. Fu poi scritturato da G. Lanfranchi, impresario del Teatro Regio di Parma, per quattro recite di Tosca, accanto a Maria Caniglia e M. Basiola, direttore A. Erede: incoraggiato dal tenore F. Merli, presente allo spettacolo, riscosse entusiastici consensi che gli spalancarono le porte dei maggiori teatri italiani. Riconfermato a Parma per Bohème, Manon Lescaut, Turandot di Puccini e Ariodante di N. Rota, fu poi prescelto da A. Votto quale protagonista della Madama Butterfly a Rosignano Solvay.
Dopo questi esordi trionfali approdò al Teatro La Fenice di Venezia, per l’inaugurazione della stagione 1943-44, in cui fu Rodolfo in Bohème accanto a Mafalda Favero; l’anno successivo , sempre alla Fenice, sostituì A. Pertile per la prima rappresentazione di Un ballo in maschera di Verdi accanto alla Favero, con cui nell’aprile del 1945 condivise il trionfo, consolidando definitivamente la sua affermazione sui palcoscenici.
Da qui iniziò a calcare le scene dei maggiori teatri italiani come il S. Carlo di Napoli, Arena di Verona, Firenze ove cantò in Turandot con Gina Cigna. Nel frattempo, ampliato anche il suo repertorio, ed affermatosi in campo nazionale, poté affrontare i pubblici europei e nel settembre del 1945, con la compagnia del S. Carlo, cantò al Covent Garden di Londra nei Pagliacci di R. Leoncavallo accanto a M. Carosio; il successo riscosso fu tale che venne invitato a effettuare una registrazione in disco per la Voce del Padrone.
Nel 1947, ormai entrato a far parte dell’olimpo dei grandi protagonisti del Teatro lirico internazionale e avviato a una carriera tra le più luminose che durerà oltre trent’anni, totalizzò oltre cento recite, esibendosi nei maggiori teatri del mondo e giungendo in tournée fino in Brasile. Nel 1950 affrontò non senza esitazione, conoscendo le impervie difficoltà della partitura verdiana, lo studio di Otello. L’occasione di debuttare nel ruolo che consacrerà la sua fama nel mondo e che canterà ben 427 volte, raggiungendo un primato forse ineguagliato nella storia del Teatro musicale, si presentò allorché gli pervenne una richiesta dal Teatro Colón di Buenos Aires (1950). Diretto ancora dal Votto, riportò un autentico trionfo, che si rinnovò poi a Rio de Janeiro e in tutti i teatri del mondo per l’intero arco della sua carriera.
Fu quindi scritturato dal War Memorial Opera di San Francisco per Aida (con R. Tebaldi) e altre opere di repertorio; in seguito, contattato da R. Bing, manager del Metropolitan di New York, ottenne un contratto di due anni con debutto il 13 novembre 1951 con Aida (protagonista Z. Milanov, direttore F. Cleva). La stessa opera, con altre di repertorio, portò nello stesso anno al Teatro de Bellas Artes di Città del Messico, avendo Maria Callas quale partner. Nel 1952, dopo una memorabile Carmen di G. Bizet accanto a R. Stevens, iniziò con il Metropolitan una collaborazione durata oltre dieci anni con un repertorio assai vario ed eterogeneo. Frattanto la sua carriera si andava tingendo di un colore quasi mitico e accanto al delirio delle folle, soprattutto americane, si univa l’ammirazione dei critici, tanto che O. Downes sul New York Times lo definì “tenor of tenors”, rinverdendo così il personaggio che era stato di E. Caruso.
Tornato alla Scala nel 1955 dopo due anni di assenza, fatta eccezione per una recita di Andrea Chénier con la Callas, Mario Del Monaco apparve nei suoi cavalli di battaglia (Otello, Carmen, Andrea Chénier) e, dopo una parentesi veronese, affrontò il pubblico scaligero con Norma di V. Bellini, accanto a Maria Callas; l’opera, andata in scena il 7 dicembre 1955, nonostante gli screzi con la grande cantante che lo stesso Del Monaco aveva proposto per il ruolo della protagonista al sovrintendente A. Ghiringhelli e al maestro Votto, direttore dello spettacolo, ebbe esito trionfale, anche grazie al crescente antagonismo sorto tra i due protagonisti durante la rappresentazione. Dopo tournées a Lione (Sansone e Dalila di C. Saint-Säens ,1956), New York (Ernani di Verdi e Norma), Milano (Francesca da Rimini di R. Zandonai e Lohengrin di R. Wagner, 1957), nel 1959 si recò nell’Unione Sovietica per Carmen e Pagliacci al Teatro Bol’šoj di Mosca, quindi a Belgrado, Tokio e a Parigi per Carmen in lingua francese, che gli valse un’onorificenza da parte dell’Académie française.
Continuò ad arricchire il suo già vasto repertorio e nel 1960 esordì alla Scala ne I Troiani di H. Berlioz, interpretando il ruolo di Enea; interrotta per otto mesi la carriera nel 1964, in seguito a un incidente automobilistico, la riprese con rinnovato entusiasmo soprattutto negli Stati Uniti potendo contare su mezzi vocali sostanzialmente integri. Al ritorno dagli Stati Uniti, riprese la carriera nei maggiori centri europei fino al 1974, allorquando, dopo un concerto alla Salle Pleyel di Parigi, diede l’addio alle scene europee con alcune recite di Pagliacci alla Staatsoper di Vienna e a quelle italiane con Il Tabarro di G. Puccini a Torre del Lago.
Dedicatosi in seguito all’insegnamento e alla stesura di un libro di memorie, “La mia vita e i miei successi” (Milano 1982), dovette interrompere ogni attività in seguito all’insorgere d’una grave malattia. Ritiratosi nella villa di Lancenigo (Treviso), morì a Mestre il 16 ottobre 1982.
Artista versatile e tenace, deciso a seguire il suo istinto piuttosto che a imitare modelli ideali, riuscì a forgiare una sua voce, una sua tecnica personale che si espandeva con generosa ampiezza di volume, varietà timbrica e fin dagli esordi fu sostenuta da un fraseggio scandito e autorevole. Fu protagonista acclamato d’un repertorio vasto e oneroso, che col tempo andò restringendosi ad alcuni ruoli in cui l’identificazione col personaggio raggiunse livelli pressoché ineguagliabili. Ruoli come Radames, Calaf, Des Grieux, Andrea Chénier, Pollione, divennero gli interpreti d’una personalità esuberante e generosa che in essi trovava la sua più congeniale manifestazione espressiva. Autorevoli anche se contrassegnati da un denominatore comune rappresentato dalla personalità di un cantante che ha preferito plasmare i ruoli interpretati su un unico modello, una sorta di prototipo che Dal Monaco ha saputo imporre lungo tutto l’arco di una carriera lunga e logorante, forse talora in maniera monocorde ma sempre efficace, da vero dominatore della scena: protagonista di un ruolo portato avanti con convinzione e per questo amato e idolatrato dai pubblici di tutto il mondo.