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Fenomenologia del dioscuro grillino

Un'istantanea del Movimento Cinque Stelle
Movimento Cinque Stelle
Movimento Cinque Stelle

Ora che nel Movimento Cinque Stelle tutto è finito – o quantomeno agli sgoccioli – ora che ognuno ha intrapreso la propria strada, è interessante recuperare la foto di famiglia del Grillismo e fermarsi a riflettere su cosa i suoi protagonisti della prima ora siano nel frattempo diventati. Un po’ come quando si torna a casa per le vacanze di Natale e si tira fuori da cassetti impolverati vecchi album che ci ricordano di come eravamo. Un esercizio che aiuta anche a capire a che punto siamo giunti nel percorso della nostra vita.

Una delle tante anomalie alle quali il Movimento in questi anni ci ha abituati è che i suoi “dioscuri” non sono mai stati due, come da manuale, bensì tre. Ognuno di essi rappresenta plasticamente le relative mutazioni genetiche di un esperimento nato nel 2009 per guarire la politica e di politica morto ad appena tredici anni, in piena fase prepuberale.

Il primo è Alessandro Di Battista. Delle diverse anime che compongono il magmatico Movimento degli esordi, “Dibba” rappresenta quella barricadera: un po’ tribuno un po’ Che Guevara, terzomondista con una spolverata di Sansepolcrismo che non guasta mai, Di Battista è l’uomo che vive la cravatta come “il cappio della borghesia” e l’Aula di Montecitorio come un recinto nel quale si sente recluso ma nel quale – dopo quattro anni di peregrinazioni in giro per il mondo – è oggi disposto a rientrare per provare a riprendere il timone di una nave oramai alla deriva. Dei tre dioscuri Alessandro Di Battista – che non rappresenta nessuno a parte sé stesso – è quello che si colloca più a destra.

All’estremo opposto è Roberto Fico, emblema della sinistra pentastellata. Cresciuto nell’humus del movimentismo extraparlamentare comunista tipico di Napoli quasi quanto il babà, Fico è l’intransigente che guida la commissione di Vigilanza Rai senza compromessi né indennità di funzione. È il vicino della porta accanto che va alla Camera in autobus due giorni dopo esserne stato eletto presidente. Duro e puro fino alle estreme conseguenze, Roberto Fico – che nella sua figura racchiude tutti quei Cinque Stelle rimasti prevalentemente immuni dal contagio della poltrona, da Taverna a Lombardi passando per Fraccaro e Crimi – rischia ora di restare senza impiego a cagione della sua incrollabile fede nella (immutabile?) regola dei due mandati.

Nel mezzo svetta sornione Luigi Di Maio. Campano come Fico ma cresciuto a Pomigliano, Di Maio è “il più giovane” per antonomasia: nel 2013 è il più giovane vicepresidente della Camera, nel 2018 il più giovane ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico nonché il più giovane vicepremier, mentre nel 2019 sarà il più giovane titolare della Farnesina. Folgorato sulla via di Città della Pieve, nel febbraio 2021 si converte al “draghismo” nello stesso istante in cui l’ex banchiere centrale viene chiamato a guidare il Paese dopo il naufragio del Conte bis. Sempre più lontano da uno stile e un linguaggio di piazza che non gli si confanno ormai più, alla vigilia della caduta del governo Draghi Di Maio – che a differenza di Di Battista la cravatta la ha (quasi) sempre indossata – consuma il più clamoroso degli strappi lasciando i Cinque Stelle e portandosi dietro almeno un terzo dei suoi parlamentari superstiti. Democristiano reincarnato nel Terzo Millennio, Luigi Di Maio – capofila e condottiero dei governisti ex pentastellati, da Castelli a Ruocco, passando per Di Stefano e Spadafora – si candida a diventare il premier di un futuro non troppo remoto.

Tra le figure paradigmatiche del Movimento ce n’è poi una di più recente fabbricazione: quella dell’Avvocato del popolo. Coniata e incarnata da Giuseppe Conte all’atto di accomodarsi sulla poltrona di Palazzo Chigi, questa figura dal retrogusto giacobino – un po’ Marat e un po’ Robespierre, ma mai troppo amata dalla base “rousseauviana” – è destinata a consumarsi preferibilmente entro il 26 settembre 2022, data in occasione della quale l’estinzione del M5S sarà stata certificata una volta per tutte dall’implacabile responso delle urne.

Cosa sarà rimasto a quel punto del glorioso Movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio?

Probabilmente solo polvere di (cinque) stelle.