x

x

Sala e Tabacci

Cos’è, in fin dei conti, questo centro di cui si fa un gran parlare?
centro
centro

Toti: “Il centro è di tutti”. Berlusconi: “Il centro siamo noi”. Calenda: “Il centro sono io”. Tutti lo invocano ma nessuno lo incarna, magmatico e indefinito com’è per sua stessa natura. Ma in fin dei conti – parafrasando un Rodolfo De Angelis d’antancos’è questo centro di cui si fa un gran parlare?

Il “grande centro” – detto anche la “Cosa bianca”, o il “terzo polo” dopo il naufragio del Movimento Cinque Stelle – è insieme Eldorado e Isola che non c’è. Nostalgia del passato e insieme del futuro. Rimpianto di un tempo che fu e che probabilmente non sarà mai più: quello della Balena Bianca democristiana, smembrata nel gennaio del 1994 mentre ancora intonava l’ultimo canto da Casini e Mastella da un lato e Marini e Buttiglione dall’altro.

Un contenitore rimasto vuoto per trent’anni che oggi si cerca di riempire in fretta e furia per provare ad arrivare pronti al voto di settembre, un inedito della storia repubblicana che ha come ultimo precedente quello del novembre 1919, anno del debutto nelle urne di quel Partito popolare italiano che della Democrazia Cristiana fu antesignano. I corsi e ricorsi della Storia.

Ma quale potrebbe essere il comune denominatore di questo ipotetico centro di cui già si fantasticano performance a doppia cifra? Difficile individuarlo, guardando anche solo ad alcuni dei suoi potenziali interpreti. Carlo Calenda si richiama al socialismo liberale di Carlo Rosselli e all’azionismo partigiano. Emma Bonino è madre e madrina dei Radicali. Matteo Renzi è padre ed ex padrone del Partito democratico, da una cui costola ha dato poi forma a Italia Viva. Luigi Di Maio è il figliuol prodigo rinnegato di Beppe Grillo. Renato Brunetta è un vecchio socialista veneziano di scuola De Michelis con trent’anni di militanza in Forza Italia. Bruno Tabacci è la sinistra democristiana, Gianfranco Rotondi la destra. E via di questo passo. E poi ci sono Toti, Gelmini, Carfagna, Lupi, Quagliariello: tutte vecchie conoscenze berlusconiane che oggi vagano come anime inquiete nell’etereo purgatorio centrista.

Direte voi: anche la Dc aveva le sue correnti, spesso lontanissime tra di loro. Giusto. E tuttavia, al netto dei relativi distinguo, almeno un elemento in comune rimaneva: la fede cristiana. Oggi che il cattolicesimo è sventolato come un vessillo identitario dalle destre populiste e che la diaspora scudocrociata ha spinto i cattolici su ogni sponda dell’arco costituzionale, questo criterio non può però più dirsi discriminante. Anche perché non tutti gli aspiranti neo-centristi di cui sopra possono tecnicamente essere definiti “cristiani”.

Ma se non il Vangelo – e men che meno “Il Capitale” – quale potrebbe essere il libro sacro che mette d’accordo questa variopinta brigata? L’agenda Draghi, si dice.

E cosa prevede questa “agenda” di cui tutti si riempiono la bocca a manca ma non a destra? Il completamento del Pnrr, ovviamente (ma chi non lo vuole?) e la revisione del Codice degli appalti. La riforma del fisco e quella della giustizia. Il Superbonus e la diversificazione delle fonti energetiche. Peccato però che non tutte le forze che la invocano declinino poi all’atto pratico tale agenda allo stesso modo: Calenda vuole il nucleare e Bonino no, solo per fare un esempio.

L’assenza di un comune brodo di coltura potrebbe peraltro finire per amplificare le reciproche antipatie tra i sedicenti leader di questa eterogenea compagnia, che rischiano di risultare a conti fatti più numerosi degli elettori effettivi. Proseguendo di questo passo, per contare gli aspiranti premier del “grande centro” non basteranno più le dita di una mano: Calenda si è già fatto avanti in caso di (prevedibile) indisponibilità da parte di Draghi, Renzi corre da solo, Di Maio si scherma dietro Sala ma è chiaramente pronto al grande salto.

Questo fantomatico centro rischia insomma di trasformarsi anzitempo nel celebre “zoo comunale” della canzone di Jannacci, dove il “no, tu no” all’entusiastico “vengo anche io” non si capisce bene chi avrebbe più diritto di pronunciarlo.

Privo di una visione comune e in assenza di un qualsivoglia accordo sulla sua leadership, il nuovo centro sembra così condannato a rivelarsi come una accozzaglia mal assortita di nomi più o meno altisonanti. Più che un cartello elettorale, un’insegna dal sapore vintage: Sala e Tabacci. E valori bolliti.