La curva del consenso
“Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai?” cantava Fabrizio De André nel 1973. Nel caso del Partito democratico la risposta appare ogni giorno più scontata. Costretto a inseguire i Cinque Stelle dai tempi dello streaming di Bersani fino alla più recente infatuazione del thailandese Bettini per Giuseppe Conte, obbligato ad aspettare un “sì” da Calenda con la trepidazione di un innamorato da feuilleton mentre corteggia svogliatamente il Fratoianni di turno, il partito del Nazareno sembra subire più che dettare il gioco delle alleanze elettorali avendo ormai smarrito l’afflato purista delle origini.
Nato con il crisma veltroniano della “vocazione maggioritaria” – subito tradito dall’alleanza elettorale con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro – nel corso della sua storia il PD è andato lentamente trasformandosi nel “partito sistema”, perno attorno al quale nell’ultimo decennio si sono costruite e sorrette le più eterogenee maggioranze di governo.
Esattamente come la Democrazia cristiana durante la Prima Repubblica – dalla quale i Dem hanno ereditato la tradizione cattolico-democratica – ma con una, anzi due sostanziali differenze di fondo.
La prima è che il partito di Piazza del Gesù era una forza politica compiutamente di centro, per sua stessa natura vocata al ruolo di punta del compasso e ago della bilancia tra una destra messa ai margini dell’arco costituzionale e una sinistra ritenuta pericolosa propaggine di Mosca nel cuore dell’Occidente. La seconda è che la Balena Bianca poteva contare su un consenso molto ampio – reso evidente dall’impianto proporzionale del sistema elettorale allora in vigore – che le consentiva di volta in volta di dare le carte al tavolo delle trattative per la formazione dei diversi governi, tutti rigorosamente a trazione Dc.
Il Partito democratico le percentuali dello Scudo crociato se le sogna (solo Veltroni e Renzi riuscirono nell’impresa di portarlo rispettivamente al 33 e al 40% in occasione delle politiche del 2008 e delle Europee del 2014) e dunque le carte non solo non le dà, ma si è anzi visto più di una volta costretto a riceverle pur essendosi trovato per diverso tempo a rappresentare la maggioranza relativa dell’elettorato.
Ora che quella maggioranza si appresta a traslocare in via della Scrofa dopo essere passata per le mani dei Cinque Stelle, il PD rischia seriamente di trasformarsi nella Democrazia cristiana del 1976. Quella, per intenderci, che Montanelli si vide costretto a votare “con il naso turato” pur di non far andare al governo i comunisti. In quel caso l’incubo da scongiurare aveva le sembianze gentili di Enrico Berlinguer, mentre oggi assume quelle più decise di Giorgia Meloni.
E questa volta non basterà agitare al vento le solite accuse di Fascismo (arma spuntata e mai realmente efficace, come dimostrato negli anni dai successi elettorali di Berlusconi prima e Salvini poi) per scongiurare il tanto temuto sorpasso all’ultima curva. Anche se i sorpassi estivi, come insegna Dino Risi, finiscono sempre in una scarpata.