Fine della Prima Repubblica

Responsabilità, cause, contesti e conseguenze
Prima Repubblica
Prima Repubblica

Indice

1. La debolezza del sistema dei partiti e il contesto geopolitico

2. L’inchiesta di Mani Pulite e le innovazioni del sistema giudiziario

3. L’elemento mediatico e le nuove emancipazioni

 

La transizione incompiuta e le occasioni mancate

Sono passati trent’anni dall’inizio del crollo della Prima Repubblica in Italia. Convenzionalmente, la fine del sistema dei partiti risale al febbraio 1992, quando l’arresto di un funzionario milanese del Partito Socialista aprì le porte ad una valanga giudiziaria che si abbatté sulla partitocrazia e sulla società italiana. Tuttavia, i sintomi di debolezza della classe politica del Paese sono antecedenti agli eventi legati all’inchiesta Mani Pulite.

Sebbene quanto è seguito non è costituzionalmente definibile come Seconda Repubblica, un notevole cambio di passo e di paradigma ha scandito la Storia e la politica italiana dal 1994 ad oggi. E per la personalizzazione della politica che poi è seguita; e per il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale. Le cause del crollo della Prima Repubblica vanno cercate nel debole assetto che l’Italia si è data sin dall’inizio della Storia repubblicana. La polarizzazione politica dell’Italia post-bellica prevedeva una parte dell’arco costituzionale destinata a governare secondo le logiche di Yalta e un’altra restava formalmente all’opposizione.

L’immobilismo che è seguito anche a causa dell’assenza di ricambio della classe dirigente ai vertici delle istituzioni – con l’eccezione di brevi periodi negli anni Ottanta con i governi a guida repubblicana e socialista – ha agevolato lo sviluppo sistemico e pervasivo di un clientelismo che ha nuociuto non solo al gioco democratico della politica, ma anche all’economia e alla competitività dell’Italia a livello internazionale, per non parlare della credibilità del sistema-Paese nel suo complesso. La corruzione politica ha quasi subito infettato molti apparati istituzionali dello Stato nel Dopoguerra e ha presentato il conto alla fine della Guerra Fredda. Il reato contestato dalle inchieste milanesi era il finanziamento illecito dei partiti, che prosperava in un sistema statalista e clientelare, fondato sulla irresponsabile creazione di più debito pubblico che aveva corroso non solo il settore politico, ma riversò i suoi danni a cascata su parte di quello privato-imprenditoriale. Un sistema che via via era diventato antieconomico anche per i suoi ideatori. E che alla fine aveva smesso di generare la crescita di cui avevano beneficiato milioni di cittadini negli anni.

Accesa la miccia dello scontento dovuto anche ad una crisi economica montante nei primi anni Novanta, una politica debole e litigiosa, un paese che dopo il 1989 contava meno sullo scacchiere geopolitico Stati Uniti e Unione Sovietica, si è giunti alle premesse idonee per il crollo della partitocrazia. Una serie di eventi del tutto inimmaginabile fino a pochi anni prima che si affacciava verso:

1) un’instabilità che ha scandito i lustri della Seconda Repubblica, convenzionalmente dal 1994 in poi.

2) Una magistratura acriticamente osannata da molti media e cittadini e vilipesa da un’altra parte di cittadini-tifosi.

3) Una politica a capolinea e incapace di gestire una transizione post-Guerra Fredda verso una sincera, responsabile, autentica autoriforma.

4) Una cittadinanza che prima ha goduto dei frutti del boom economico, salvo poi inveire contro una classe politica che ha eletto per mezzo secolo e che non era altro che lo specchio del Paese.

5) Un sistema-Paese che, sconfitto dopo la Seconda Guerra Mondiale, era riuscito a diventare la quinta economia del pianeta, ma che poi scivolò nel purgatorio delle costanti crisi interne che presentarono il conto alla fine della Guerra Fredda.

All’inizio degli anni Novanta, l’Italia era del tutto impreparata alle sfide interne (la fine del sistema dei partiti e il necessario riallineamento con la legalità) ed esterne (l’ingresso nella futura Unione Europea e l’adozione della moneta comune). Il Paese era alla ricerca di un nuovo equilibrio, una stabilità che mai aveva avuto al netto degli aiuti d’oltre-Atlantico.

Tra attentati mafiosi a martiri della Repubblica, tra una canea mediatica che dal vincolo di soggezione della partitocrazia era passata all’attacco indiscriminato della stessa, tra una magistratura quasi timida per mezzo secolo e poi attiva e mediatizzata, nel mezzo dello snodo geopolitico post-1989, l’Italia ha perso una grande occasione di autoriforma e di fare i conti con la propria Storia. Il 1992-1994 poteva rappresentare un momento di presa di coscienza non solo della politica, ma della cittadinanza tutta. L’inizio di una nuova vita del Belpaese, in conformità con il mondo che cambiava e le nuove sfide che si affacciavano sul panorama geopolitico di quegli anni. La politica avrebbe dovuto guidare il Paese con responsabilità verso un cambiamento costituzionale ed istituzionale e dunque verso una nuova Repubblica.

Una vera Seconda Repubblica, capace di affrontare con efficacia le sfide del futuro; vicina alla cittadinanza e aperta all’economia di mercato, salda nell’alleanza atlantica e in Europa, meno burocratizzata, corrotta, sclerotica, al servizio dei più deboli.

Negli anni si è parlato molto di “soluzione politica” alla questione del finanziamento illecito ai partiti. Difatti, è la politica che, in accordo con il popolo sovrano, deve risolvere i problemi della politica, dunque della cosa pubblica. Non il Capo dello Stato, non la magistratura, non altre istituzioni. Ad ognuno i suoi compiti: è quando gli uomini e gli organi dello Stato non fanno il loro lavoro che la via della decadenza sociopolitica viene imbroccata e si causano disastri istituzionali. Il dibattito attorno alla costruzione di un nuovo “sistema-Italia” che correggesse le storture manifestate sin dal principio della Repubblica andava stabilito in maniera seria e responsabile; magari con una nuova Assemblea costituente che riscrivesse o correggesse le regole del gioco. Proprio come dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il Belpaese si diede una nuova Costituzione, che rappresentò una cesura con l’esperienza fascista. Imperfetta, dopo una nuova guerra – la Guerra Fredda – anche la Costituzione e l’architettura istituzionale necessitavano di essere rivisti alla luce di un nuovo patto sociale tra popolo e politica.

Complice l’assenza di riformismo e di modifiche di rilievo della Carta fondamentale, è impreciso – come si usa nel linguaggio corrente, sui media e nelle discussioni storico-politiche – parlare di Prima e Seconda Repubblica. Sarebbe più corretto parlare di Primo tempo della Repubblica e Secondo tempo della Repubblica, questa contraddistinta da nuovi contesti più o meno inediti; in particolare, dai personalismi dei leader in campo, dallo svuotamento ideologico e dal bipolarismo scandito dalla legge elettorale maggioritaria.

La cerniera storico-temporale del 1992-1994 poteva rappresentare un momento in cui guardare alla propria storia con sincerità: consci di non poterla cambiare, ma ansiosi di emendare il presente per assicurare un futuro migliore ai cittadini, all’economia, alle istituzioni del domani. Se l’Italia è tutt’ora un paese instabile e molti italiani continuano ad abbracciare un comodo ma non contraddittorio “individualismo statalista” – o addirittura andare all’estero per mancanza di prospettive – ciò è dovuto anche al terremoto del 1992-1994 – che ha le sue radici nel 1989 – e al mancato rinnovamento riformista di politica e cittadinanza in ambito istituzionale.

Tuttavia, dopo ogni terremoto, nei paesi seri, c’è una rinascita. Si sgombrano le macerie, si crea nuova linfa. Nuova “res publica”. Questo non è successo in Italia, dove dopo il crollo del Muro di Berlino ci si è avviati, in un penoso lento galoppo strisciante, alla rincorsa della globalizzazione con le zavorre e le contraddizioni, le corruttele e i fiaschi della Prima Repubblica. Al costante infrangimento delle promesse in sede internazionale e dei trattati europei. Ad una (classe) politica spesso non riformista e autoreferenziale, mediatica e mediatizzata, a tratti irresponsabile e grottesca.

Al consolidamento, infine, di una cittadinanza sempre più disillusa, rancorosa, ma anche abulica, indifferente, con voglia o intenzione di guardare al proprio passato in maniera serena ed incapace di proiettare se stessa verso un futuro radioso. Capire cause, contesti e conseguenze della fine della Prima Repubblica – che non coincide con la nascita di una Seconda, ma che segna solo l’avvio verso una nebbia di transizione storica – è importante per non perdere la prossima occasione per riformare il paese e riformarsi come cittadini responsabili e attenti. Questo paper analizza tre macro-fattori principali che hanno determinato il crollo della Prima Repubblica.

Il crollo del sistema dei partiti che dal Dopoguerra avevano guidato il Paese dalle macerie del Fascismo all’Europa unita è una delle cause maggiori della fine di un assetto nato, cresciuto e conclusosi all’ombra della Guerra Fredda. La debolezza del sistema dei partiti, col tempo sempre più miopi, autoreferenziali, irresponsabili si è scontrata con l’emergere post-1989 di un sistema clientelare che toccava parte della classe politica e parte dell’imprenditoria – il tutto alla luce di scellerati incrementi della spesa pubblica improduttiva. Secondariamente, l’inchiesta di Mani Pulite avviata a Milano nel 1992 ha contribuito allo smantellamento di una classe politica in crisi.

L’operato dei magistrati è stato doveroso, quanto controverso, ma occorre però non perdere di vista le colpe che spesso affliggevano i coinvolti nelle inchieste e poi nei processi. Importanti sono state le innovazioni del sistema giudiziario; particolarmente attivo e con a disposizione nuovi e strumenti di procedura penale. Un ultimo elemento che ha contribuito al crollo della partitocrazia della Prima Repubblica è stata l’emancipazione mediatica e quella popolare. All’estensione di tv e giornali si è poi aggiunta la protesta di piazza che ha agevolato la fine del sistema che aveva governato l’Italia per mezzo secolo.

 

La debolezza del sistema dei partiti e il contesto geopolitico

Il crollo

La caduta del Muro di Berlino ha imposto un riassetto degli equabili mondiali. Con la fine della cortina di ferro, non era più necessario da parte dei due rispettivi blocchi – americano e sovietico – influenzare i paesi d’Europa. I democristiani e gli altri membri del Pentapartito videro dunque sfumare il legame saldo con Washington, così come l’opposizione rimase orfana dell’Unione Sovietica e degli amici del Patto di Varsavia che da Praga a Budapest, da Sofia a Varsavia nel 1989 scelsero la libertà.

L’appoggio ricevuto da DC e PCI da parte dei rispettivi blocchi di affiliazione fu cruciale per determinare una spaccatura non solo ideologica, ma anche sociale e culturale nel Paese. Con il ritiro dell’appoggio americano a seguito il crollo del nemico ad Est venne a crearsi un fisiologico indebolimento e un rilassamento della classe politica nel suo complesso. Finita la Guerra Fredda, cessava la necessità di far fronte al più grande Partito Comunista dell’Occidente, percepito dalla maggioranza dei cittadini italiani come un pericolo – e non solo per i suoi legami con l’URSS. La DC – nata dalla necessità di rappresentare un paese cattolico e moderato, operaio e borghese, tradizionalista e conservatore – aveva perso un grande rivale storico. La perdita del nemico costituì per la DC l’esaurimento della sua missione storica; la fine del ruolo di rappresentanza e di diga.

Dopo il 1989, l’appoggio americano ai dc in Italia per Washington non era più necessario. Nel loro momento unipolare (1991-2001), gli Stati Uniti si avventurarono in nuovi teatri con la Prima Guerra del Golfo e spostarono il baricentro degli interessi in materia di sicurezza e difesa fuori dell’Europa. L’assenza del nemico e la fine dell’URSS ebbero effetti anche sull’opposizione comunista in Italia. Il PCI fu lambito dalle rivoluzioni pre-1989, specialmente dal tentativo riformista gorbacioviano, che con glasnost e perestrojka proponeva un superamento del totalitarismo leninista-brezneviano e maggiori aperture economiche e politiche.

L’URSS che si era decisa a rispettare gli accodi di Helsinki nel 1975, avviò un lento declino una decina di anni dopo con l’arrivo di un riformista al Cremlino che promise apertura e trasparenza. Questo interessò anche il PCI che sentì l’esigenza di cambiare pelle. Sul calare degli anni Ottanta, una componente moderata diede vita al Partito Democratico della Sinistra. La componente più tradizionale e anti-gorbacioviana, formò un gruppo orgogliosamente comunista e si oppose all’accantonamento di falce e martello del segretario Achille Occhetto. L’impatto del crollo del Muro fu la prima e necessaria condizione che indebolì il sistema dei partiti in Italia e di questo rese più evidenti e visibili le questioni attorno al finanziamento più o meno illegale.

 

L’arroganza

Complice il congelamento geopolitico della Guerra Fredda, ad eccezione di un revival del Partito Comunista negli anni Ottanta e dell’inaugurazione di esecutivi non a guida democristiana di allora, il quadro politico nazionale in Italia rimase sostanzialmente invariato per quasi cinquant’anni. Questo abituò le classi di governo e l’opposizione alle parti assegnate loro dalle logiche di Yalta, nonché dagli elettori.

I partiti di governo si abituarono al potere che esercitavano dal 1948: nonostante i quarantuno esecutivi fino al 1994, il sistema politico italiano era relativamente stabile e questo rafforzò la classe dirigente nella propria convinzione di poter assumere un atteggiamento di intoccabilità. Al riparo, dunque, dall’idea di possibili inchieste e vicende giudiziarie maggiori – nella Prima Repubblica ci furono casi di corruzione, ma non ebbero carattere sistemico.

L’idea balorda ed irresponsabile di essere intoccabili, l’hybris, la miope sicumera di gran parte della classe politica al governo del Paese sfociò in eccessi e senso dell’impunità che svuotarono le istituzioni democratiche all’insegna di un sistema clientelare balordo – basato sia su finanziamenti pubblici che privati – che consentiva e serviva per restare al o conservare il potere. In particolare, il PSI giustificava il finanziamento illecito con la necessità di rafforzare la sua posizione di ago della bilancia tra le due grandi chiese, DC e PCI.

Il guaio di una classe politica che rimase al governo per quasi mezzo secolo fu ravvisabile nella progressiva perdita di contatto con il Paese reale e l’idea di una politica morale, dalle “mani pulite”. Molti italiani erano disposti a perdonare gli eccessi di una parte di questa classe politica in parte arraffona, ma quando la tangente venne richiesta anche nelle piccole attività ed esercizi commerciali, a molti questo apparve inaccettabile e del tutto disfunzionale al ciclo economico. La classe politica, più simile ad una casta che ad un consesso di servitori e rappresentanti dei cittadini, non si rese conto che gli atteggiamenti malavitosi non erano più perdonabili una volta mutato l’assetto mondiale dopo il 1989.

Complice di questo, anche il senso di impunità che si era sviluppato a Palazzo. L’arroganza di molti politici impedì loro di percepire il cambiamento storico ed epocale che era in atto allora – la fine del mondo a blocchi. Si potrebbe parlare di un’eutanasia miope del potere governante in Italia. Un suicidio dettato dall’incapacità di percepire i cambi di registro della Storia, che imponeva per forza di cose la fine del sistema partitocratico a livello nazionale. Come i reali francesi venero travolti dalla Rivoluzione esattamente duecento anni prima rispetto al crollo del Muro di Berlino, anche quella politica italiana del ventesimo secolo non capì lo scollamento dalla realtà.

 

La stanchezza

Negli anni, il sistema sempre più generalizzato della tangente venne capillarizzato tramite un rapporto malsano tra parte dell’imprenditoria e parte della politica. Piccole e grandi aziende intrattenevano rapporti corruttivi con parte della classe politica, sia locale che nazionale. Un gioco che prevedeva da una parte l’elargizione dell’imprenditore della tangente al politico per ottenere un appalto o un favore di varia natura. Dall’altra, la pressione dei politici nell’ottenere finanziamenti per sé o per il partito in cambio dell’eliminazione della concorrenza nella gara d’appalto.

Difficile dire chi avviasse il rapporto. Secondo le indagini di Mani Pulite talvolta erano gli imprenditori che pagavano i politici; talvolta erano questi ultimi che facevano pressioni sulla classe imprenditoriale. Negli anni questo sistema multilaterale, anti-mercato, antimeritocratico e malavitoso annichilì la concorrenza in determinati settori economici. La tangente era diventata costume: per molti era anche il sistema per non avere grane con la Pubblica Amministrazione; una sorta di tassa – un pizzo – per assicurarsi il proprio posto entro spazi di lucro illegali. Pagare per non avere problemi e ricevere il servizio – il giro delle tangenti non era solo nelle alte sfere della politica, ma toccava molti settori della società.

Questo anche per sottolineare che molti cittadini non erano estrani, o vittime, rispetto al sistema generalizzato della corruzione-concussione tra politica e aziende. Non a caso si parlò di Tangentopoli, la città che andava avanti a furia di mazzette. Un sistema esteso dal vertice alla base della società italiana, che toccava tante piccole e grosse imprese. Che, tuttavia, a lungo andare, non erano più in grado di pagare secondo il listino emesso dai politici; e nei primi anni Novanta non sopportavano più di pagare il pedaggio alla classe politica. Complici la crisi economica e la stanchezza di un sistema appesantito dalla corruzione sistemica, anche molti politici si liberarono delle offerte di alcuni imprenditori. Sebbene il sistema clientelare tra imprenditoria e sistema dei partiti beneficiasse ambedue gli attori, diversi imprenditori si stancarono di pagare tangenti.

La Prima Guerra del Golfo scandì un aumento del prezzo del petrolio. Per alcuni piccoli-medi imprenditori pagare la tangente era diventato insostenibile. Questa stanchezza, poi, si sarebbe tradotta nelle lunghe file di fronte alla procura di Milano per confessare il giro corruttivo dietro la prospettiva di detenzione.

 

Il ricambio

La mancanza di ricambio politico e dell’alternanza tra partiti è stato il motivo di una salda affezione dell’Italia al mondo libero occidentale, ma anche della sclerotizzazione e degenerazione del sistema politico nazionale. L’arroganza e l’irresponsabilità di un sistema stabilizzato a suon di tangenti e violazioni della legge sul finanziamento ai partiti aveva creato un mondo a sé che faceva comodo sia alla maggioranza che all’opposizione – quest’ultima esposta numericamente a meno occasioni corruzione per il semplice fatto che non era al governo del Paese e vantava un sistema di finanziamento ad hoc in alcune regioni d’Italia.

Durante la Prima Repubblica, la politica è stata stabilissima nell’instabilità: da una parte un blocco e dall’altro un altro blocco garantivano una continuità istituzionale all’interno delle logiche polari della Guerra Fredda. Dall’altra, le pressioni sistemiche di un paese a cavallo tra tre mondi (l’alleanza atlantica, il terzo mondo iugoslavo e il Patto di Varsavia) indebolivano il paese e lo rendevano vulnerabile. Per questo, la composizione del governo rimase invariata e non contemplò l’ipotesi di grossi ricambi o inclusioni.

Ciò impedì sia alla maggioranza di rinnovarsi e correggere storture sistemiche che deteriorarono il tessuto istituzionale del paese; sia all’opposizione di trovare proposte alternative e riformiste per offrire un’alternativa valida ad un paese che per due terzi non era comunista. L’assenza di ricambio e l’impossibilità dettata dalle logiche di Yalta di avere un partito comunista nel governo di un paese occidentale ha consentito alle classi di governo centriste di approfittare – dunque abusare – della loro posizione di potere.

DC ed alleati, “condannati a governare” favorirono un sistema clientelare forti dell’impossibilità di ricambio politico. Da qui l’aumento delle occasioni di ladrocinio, mascherate dalla “necessità” di raccogliere fondi per l’attività politica e “salvare l’Italia dal Comunismo”. L’ossificazione del sistema politico era il rovescio di un’economia in prevalenza ancora statalizzata ed ostile al mondo privato. L’assenza di un ricambio consolidò un sistema che aveva preso in ostaggio l’attività politica e quella economica. Nessuno aveva vantaggio a interrompere il flusso tangentizio e consociativo di parte della politica con parte dell’imprenditoria pubblica e privata.

 

Le picconate

I capi dello Stato della Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica sono stati interpreti del ruolo affidato loro nel rispetto della Costituzione. Chi con più e chi con meno attivismo, ogni Capo dello Stato dal Dopoguerra ha attraversato momenti di crisi economica e politica. Per molti versi, non era il caso del Presidente Francesco Cossiga – all’inizio del mandato piuttosto silente ed allineato alla DC che lo aveva condotto al Colle. Cossiga era stato eletto nel 1985 e grossomodo le crisi del passato (a partire dal terrorismo rosso e nero) erano state superate.

Al Cremlino arrivò poco dopo Mikhail Gorbaciov, negli Stati Uniti c’era Ronald Reagan e il mondo si avviava verso il lento scioglimento del bipolarismo ideologico postbellico nell’acquis geopolitico. Cossiga guardava gli eventi internazionali con attenzione; in un primo momento non era un presidente interventista. Non era un Giovanni Gronchi e neppure un Sandro Pertini. Tuttavia, negli ultimi anni del suo mandato subì una metamorfosi.

Complice, ancora, la caduta del Muro di Berlino, il politico democristiano capì cosa questo avrebbe significato per la classe politica che non apriva al necessario quanto diligente riformismo. E che preferiva la stabilità dei blocchi per non scivolare nell’instabilità politica della concorrenza democratica autentica, senza gli aiutini ora da Washington, ora da Mosca. Da silenzioso custode della Costituzione, Cossiga iniziò a “picconare” il sistema politico, il Parlamento e il governo sulle necessarie riforme a seguito del mutamento degli assetti geopolitici. Cossiga dimostrò un arrembante attivismo nell’avvisare la classe politica sui tempi che erano cambiati dopo il 1989. Il suo duro messaggio alle Camere del 1991 cadde nel vuoto.

Durante la sua fase di picconatore – cosa che gli valse rimproveri da governo e opposizione –, molti nella DC non capirono il “risveglio” del loro ex collega di partito. Cossiga attaccò duramente anche l’opposizione: sebbene appartenesse alla corrente della sinistra dc, tra lui e il PCI si arrivò progressivamente a relazioni molto tese. Il che non aiutò un’evoluzione necessaria della politica nel complesso verso una nuova fase. Tuttavia, l’azione demolitoria ed anticonvenzionale del Picconatore fu un segnale che l’intera classe politica ignorò deliberatamente. Con i suoi metodi, Cossiga picconò il sistema dei partiti e tentò di demolirlo dall’interno.

 

Le defezioni

Con la fine del mondo a blocchi le logiche di consolidamento di diverse anime all’interno di partiti-contenitori vennero a meno. Enormi accozzaglie identitarie spesso federate da leader carismatici si sfaldarono come conseguenza della fine della Guerra Fredda. Con il “liberi tutti” del 1989, partiti e nano-leader delle correnti che nella Prima Repubblica convivevano, iniziarono a richiedere più indipendenza dalla casa madre ed uscire dal partito. Alcuni volevano riportare indietro l’orologio della Storia e tornare al “glorioso” passato ideologico, franato dopo il 1989. Altri invece decisero di uscire dal proprio partito per abbracciare i cambiamenti dettati dalla globalizzazione in marcia.

Queste due scuole hanno indebolito il sistema dei partiti sia di governo che di opposizione. DC e PCI non capirono fino in fondo il perché delle scissioni o quantomeno non seppero dare risposte coerenti e convincenti ai leader che incarnavano un’eterogeneità di vedute. Due esempi delle due scuole sono rispettivamente Rifondazione Comunista e La Rete. La creazione di nuovi partiti si inseriva nel calo di consensi verso quelli tradizionali.

Alcuni, dunque, decisero di riempire quel vuoto guardando indietro (Rifondazione), altri avanti (La Rete, ma anche i movimenti referendari di Mario Segni). La fondazione del nuovo soggetto politico comunista avvenne a seguito di una frattura tra i dirigenti del PCI. Una componente più ortodossa non era d’accordo con i cambi decisi dopo il 1989 e decise di dare vita ad una nuova entità tradizionalista.

D’altra parte, anche la DC vide la scissione di un suo giovane esponente che seppe intercettare la voglia di cambiamento nell’elettorato centrista. Specialmente nel Mezzogiorno, La Rete di Leoluca Orlando strappò diversi consensi alla Balena Bianca, ma la vera rivoluzione nella DC furono le spinte referendarie di Segni, che in parte prese il testimone delle battaglie dei Radicali. La Rete e i referendum Segni incarnarono la necessità di dare risposte, ciascuno a suo modo e con i propri orizzonti, alla crisi del sistema dei partiti. La seconda scuola ha come esempio di spicco la creazione di Rifondazione Comunista, l’ultimo atto di una crisi che durò anni nelle ultime fasi del PCI e che determinò la spaccatura del principale partito di opposizione tra PDS e l’ala più ortodossa.

 

L’economia

Nonostante l’ottimismo degli “anni da bere” e la rampante crescita degli anni Ottanta, l’economia italiana cominciò ad affrontare nuovi scogli proprio all’inizio degli anni Novanta – debito e deficit rispetto al PIL erano diventati insostenibili. La stragrande maggioranza dei partiti era piuttosto ostile e avversa all’economia di mercato e apprezzava lo statalismo e la centralizzazione economica – che per definizione non è dinamica ed è incapace nel lungo termine di creare soluzioni innovative e reagire alle pulsioni del mercato e dell’innovazione tecnologica. La produzione industriale crollò del quattro per cento dal 1992 al 1993.

La Lira era sotto attacco: continuava a cedere rispetto al dollaro e pian piano le risorse economiche (comprese quelle per pagare le tangenti) scarseggiavano. La bilancia dei pagamenti con l’estero aveva un deficit di novantamila miliardi nel 1990. Il deficit era ben superiore rispetto ai parametri poi fissati a Maastricht (e che l’Italia aveva sottoscritto), così come lo era il rapporto debito/PIL (sopra il sessanta per cento consentito). L’entrata nell’Euro di qualche anno dopo sarebbe stata il frutto di una concessione tutta politica in sede europea.

Il Paese voleva entrare nella moneta unica in aperta violazione delle regole sottoscritte. L’inclusione dell’Italia nell’Euro (fine anni Novanta) e nell’embrione della futura Unione Europea (inizio anni Novanta) contemplava un rigore budgetario che in Italia era appesantito dal sistema delle tangenti e della corruzione. Con la separazione da Tesoro e Banca d’Italia del 1981 la politica cedeva a malincuore la possibilità di stampare moneta a più non posso. Ciò sancì l’indipendenza del controllo monetario, ma non impedì il gonfiarsi del debito pubblico rispetto al PIL – arrivato ad una manciata di punti sopra il bilancio dell’anno negli anni Novanta – e del deficit. Il deterioramento delle finanze pubbliche alle porte degli anni Novanta determinò anche uno scontento generale.

Il Governo Amato operò un prelievo forzoso del sei per mille sui conti correnti, nell’ambito di una manovra finanziaria tesa a risanare i conti pubblici. Ma la botta arrivò con la speculazione del 1992, prima in Inghilterra e poi in Italia, che obbligò quest’ultima ad uscire dallo SME. All’epoca era tardi per riformare un sistema estrattivo che usava la spesa pubblica in maniera massiva ed inefficiente.

 

L’inchiesta di Mani Pulite e le innovazioni del sistema giudiziario

Il risveglio

Sin dai primi momenti dell’inchiesta la magistratura milanese ha goduto di un forte sostegno da parte dei movimenti di protesta e un forte discredito dai partiti tradizionali e i loro leader. Molti di questi, inermi di fronte ad un settore giudiziario attivo e incalzante nei primi anni Novanta. Se è vero che durante la Prima Repubblica la magistratura ha giocato ruoli importanti nell’ambito del terrorismo e della lotta contro la criminalità organizzata, non si può dire che sia stata promotrice di cambi rilevanti nella società o nella politica italiana.

Certamente non era il compito della magistratura orientare cambiamenti politici, riforme e cambi di sistema: l’impero partitocratico a guida dc era in predicato di dissolversi a causa della sua miopia ben prima di essere raggiunto dagli avvisi di garanzia tra il 1992 e il 1993. Al netto della necessità della notifica di reato per aprire inchieste e casi giudiziari, un’impressione diffusa è che con le doverose eccezioni, nella Prima Repubblica la magistratura è stata silente nella sorveglianza di una legalità del sistema politico – lo testimoniano le poche inchieste veramente di peso attorno al sistema dei partiti.

Tenendo conto dell’azione doverosa e del coraggio di alcuni magistrati, nonché delle notizie di reato giunte ai palazzi di giustizia necessarie per l’avvio delle inchieste, molti – non tutti – rami del settore giudiziario sono stati immobili di fronte ad un sistema solido e potente come quello dei partiti nella Prima Repubblica.

Non che la magistratura dovesse arbitrariamente intervenire nelle questioni politiche, ma l’addormentamento a cui questa sembrava sottoposta negli anni della Prima Repubblica (la Procura di Roma era definita il “porto delle nebbie”) è messo in risalto dal grande interventismo nei primi anni Novanta, quando il sistema partitico era in crisi. Si potrebbe ipotizzare che nel suo complesso la magistratura fosse quasi bloccata nel sistema dei partiti, che avevano l’interesse a vincolarla ai propri interessi, far insabbiare certi dossier scottanti, etc. Dopo l’avvio del pool di magistrati milanesi dell’inchiesta Mani Pulite, quasi per imitazione, molte procure d’Italia si attivarono in questo senso.

L’attivismo della magistratura fu importante per alterare gli equilibri del sistema dei partiti, che si rivelò più debole di quanto non apparisse. Che prima di Mani Pulite il sistema tangentizio e corruttivo vigente non fosse noto a molti magistrati e cittadini è improbabile, ma sarebbe ingeneroso affermare che “tutta” la magistratura fosse silente negli anni della Prima Repubblica. Una società con una politica onnipotente e una magistratura debole è al pari di una società con la politica debole e la magistratura onnipotente: denota un forte squilibrio istituzionale che danneggia le istituzioni e lo Stato.

 

Il contadino

Se è vero che la Storia non la fanno solo i singoli, è pur vero che gli individui spesso giocano ruoli fondamentali nell’orientarne il corso. Il PM Antonio Di Pietro ha dimostrato una tale resistenza e determinazione nella sua funzione, che è impensabile guardare indietro alla stagione di Mani Pulite senza fare rifermento al suo operato. Non che i colleghi che lo avevano preceduto o altrove siano stati da meno, ma l’azione da caterpillar di Tonino – non senza polemiche specialmente per quello che riguarda la custodia cautelare e le presunte confessioni indotte – ha reso possibile l’incriminazione di un sistema illegale stratificato.

Di Pietro ebbe intuizioni importanti per lo scardinamento del sistema corruttivo e in questo senso rappresentò una novità nel mondo della magistratura meneghina. Apportò diverse innovazioni importanti che sono il sale di Mani Pulite. Egli è infatti il padre del concetto di “dazione ambientale” (il sistema di malaffare che si era creato all’interno della politica e la conseguenza cessione di denaro a più strati politico-sociali) e “fascicolo virtuale” (il database a cui venivano aggiunti “pezzi” d’inchiesta che man mano si configurarono).

Importante e inedita è stata anche la sinergia che egli ha stabilito tra i corpi dello Stato. La “squadretta del pool” era formata da Polizia giudiziaria, Guardia di Finanza, Carabinieri, Vigili urbani. Questo ha consentito ad agenti di diversi corpi dello Stato di parlarsi ed entrare in comunicazione e sinergia, almeno localmente, in Lombardia. La caparbietà di Di Pietro, non al riparo da critiche, è stata un elemento cruciale per la prosecuzione delle inchieste e l’interesse mediatico che ne derivava.

le sue dimissioni nel dicembre 1994 dal ruolo di PM l’interesse popolare nei confronti di Mani Pulite venne a scemare. L’arresto di Mario Chiesa, il socialista colto in flagrante mentre incassava una tangente il 17 febbraio 1992 al Pio Albergo Trivulzio di Milano, fu l’elemento di accensione dell’inchiesta che venne seguita dai primi attimi dal PM molisano. Attorno ad essa si svilupparono presto non solo adulazioni grottesche, ma anche fenomeni di marketing e semi-idolatria. Il “Di Pietro party”, il sapone di Mani Pulite, viaggi apostolici a Montenero di Bisaccia, gli striscioni “Buon Natale Di Pietro”.

 

I codici

Dalla metà degli anni Ottanta, con l’apertura dell’URSS e i primi accenni di una globalizzazione che avrebbe dettato il passo nelle società negli anni a venire c’è la questione dell’informatica. Questa sempre più sistemica nelle strutture degli Stati e nelle vite dei cittadini, dediti ad un’azione progressiva nei confronti delle nuove tecnologie. L’uso dei computer, prima di entrare in tutte le case, entrò nella PA e nelle redazioni dei giornali. Gli sistemi informatici e il centralizzare le informazioni nei database si rivelò un efficace metodo di organizzazione e suddivisione del lavoro. E condusse all’adizione di un nuovo codice all’interno delle attività quotidiane di operatori dello Stato e delle aziende, beneficiando l’efficienza e la rapidità degli output. Nei primi anni Novanta l’informatica si sviluppò notevolmente e venne applicata anche al ramo giudiziario, in special modo durante le indagini di Mani Pulite.

L’utilizzo nei nuovi sistemi computerizzati ha consentito collegamenti e comunicazioni non solo tra procure, ma tra inchieste che determinarono la capillarità dell’azione della magistratura nei confronti del sistema politico-imprenditoriale.

Di Pietro ebbe l’intuizione di mettere a frutto l’uso dell’informatica, da accoppiare ai suoi metodi talvolta bruschi e diretti. La cosiddetta Duomo Connection aveva dato i primi segnali dell’uso dell’informatica nei processi ed era Stata l’antesignana sia di Mani Pulite che dell’uso dell’informatica applicata ai procedimenti giudiziari. Al codice e al linguaggio binario dell’informatica, alla fine degli anni Novanta arrivò un nuovo codice.

Il nuovo Codice di Procedura Penale, il Vassalli-Pisapia, viene varato nel 1989. Importanti le novità previste a partire dal passaggio da un sistema inquisitorio al sistema accusatorio. Si trattò di una rivoluzione in Italia, se non altro dal profilo giuridico, dal momento che il codice seguiva ancora le orme di quello degli anni Trenta. Il cambiamento di rito ha comportato diverse rivoluzioni che hanno consentito alla magistratura di lavorare in maniera più efficace nel processo di perseguimento dei reati. Secondo le norme del nuovo codice, il PM acquisì maggiore importanza e più attivissimo al momento del dibattito processuale. Senza la presenza di questi due nuovi codici, l’inchiesta di Mani Pulite avrebbe assunto dimensioni diverse e probabilmente non avrebbe avuto l’estensione che poi ebbe sulla società e sulla politica italiana.

 

Le confessioni

La stagione che segnò il crollo della Prima Repubblica è stata costellata da un protagonismo mediatico della magistratura e in particolare della Procura di Milano. I detrattori della stessa denunciano l’uso della custodia cautelare come strumento per invogliare gli imputati a confessare il network del malaffare. Così facendo, spiegano, la Procura avrebbe abusato della carcerazione preventiva per stimolare confessioni di imprenditori e politici. Una seconda categoria di osservatori difende in toto l’operato della Procura di Milano e spiega che l’inchiesta di Mani Pulite fu condotta in maniera regolare e nell’osservanza delle tre condizioni per cui è prevista la carcerazione preventiva – pericolo di reiterazione, pericolo di fuga, pericolo di inquinamento probatorio. Probabilmente, a livello storico è vero un incrocio delle due versioni. Se da una parte la custodia cautelare era giustificata in diversi casi, in altrettanti non era necessaria.

Resta vero che gli imprenditori, spaventati dalla scoperta del caso Chiesa e dal terremoto che aveva scatenato dopo che i primi impresari del Milanese iniziarono a parlare, corsero a denunciare in Procura le relazioni di malaffare e gare truccate intrattenute negli anni. Le confessioni “a grappolo” originate dalla scoperta della rete corruttiva invogliarono anche altri a confessare ai PM i reati compiuti, chiamando in causa altri soggetti.

Quanto tali confessioni fossero indotte dagli stessi inquirenti è difficile dirlo, ma gli inquirenti seppero usare il nuovo Codice di Procedura Penale e l’incrocio dei dati tramite l’informatica per agevolare le confessioni. La prospettiva di un soggiorno in carcere aiutò imprenditori, politici e manager a vuotare il sacco con maggiore speditezza. Altre volte, invece, ci furono più o meno pressioni per invogliare l’imputato a cantare. Ancora oggi c’è una divisione manichea tra chi sostiene che vi fu una sorta di “tortura per far parlare” gli inquisiti e chi sostiene che il quadro normativo che disciplinava la misura fu ossequiato. D’altra parte, è attraverso il sistema delle confessioni che l’inchiesta si allargò a macchia d’olio e toccò non solo politica e imprenditoria.

Spalleggiata dalla stragrande maggioranza dei media – che troppo spesso nel complesso hanno dimenticato l’habeas corpus degli indagati a fronte di una divinizzazione patetica del settore giudiziario per ingrassare l’audience – l’inchiesta procedette in maniera doverosa, ma certamente con qualche eccesso, specialmente attorno alle modalità di interrogazione degli imputati. Tuttavia, non sono state avviate grosse procedure internazionali attorno alla stagione che ha visto il crollo di Tangentopoli su violazioni dei diritti umani. Ma non sono da escludere episodi di “manette facili”, seppur in conformità con codici e leggi.

 

L’elemento mediatico e le nuove emancipazioni

La protesta

La protesta caratterizzò un attivismo incontenibile al tempo sia in Italia che in Europa. La gente era tornata in piazza a seguire i cambi di passo della geopolitica da Berlino a Mosca. Anche parte della società italiana sentì il dovere di scendere in piazza. I motivi di protesta erano radicati al Nord: l’incremento elettorale di un nuovo movimento autonomista e di protesta, la Lega Nord, fu determinante nell’allontanare molti elettori dalla DC, ma anche a dare voce ad istanze che fino a quel momento erano escluse dai dibattiti politici nazionali. Tra cui il divario Nord-Sud, l’eccessiva pressione fiscale, la denuncia del pantano romano. La protesta venne incarnata da Umberto Bossi, leader della Lega. Le istanze di un Settentrione produttivo, dicevano i leghisti, non erano ascoltate a Roma, dove in preminenza lavoravano imprese statali. I ceti operai, prima monopolizzati dal PCI, persero fiducia nel gigante di Botteghe Oscure e si trovarono a votare il movimento di Bossi, come fu il caso delle elezioni dell’aprile 1992 con una Lega all’otto per cento su scala nazionale.

Nel profondo Nord giocò inoltre il richiamo ad elementi tradizionali (dipinti troppe volte come folklore): il Nord era solo e la DC si era meridionalizzata nei suoi vertici politici (Ciriaco De Mita, Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe Gargani, Vincenzo Scotti, Antonio Gava, Nicola Mancino, Gerardo Bianco, Antonio Maccanico). Pochi ai vertici della politica (romana) capirono i nuovi temi e gli oggettivi problemi sepolti per troppo tempo in varie zone del paese – specialmente al Nord.

La sensazione di essere dimenticati dalla politica e da “Roma ladrona” venne cavalcata dalle proteste leghiste e questo contribuì a screditare la classe politica tradizionale. Al fenomeno dell’incremento della Lega si accoppiò quello di una piazza rumorosa che durante Mani Pulite, tra fiaccolate, proteste, striscioni, urla, cori e monetine, manifestava il proprio sdegno per l’emergere della corruzione tra le alte sfere dirigenziali nazionali. Antesignani dei social media, i fax vennero usati dal “popolo dei fax” per manifestare sconcerto e rabbia. L’idea che alcuni del “popolo callido” rispetto alla “politica corrotta” fossero stati beneficiari del sistema dei partiti non sfiorò neppure chi scese in piazza.

 

L’emancipazione

La stragrande maggioranza dei media e dei giornalisti guardò con favore al crollo del sistema dei partiti. Complici i cambiamenti internazionali e l’entusiasmo del cambio dell’assetto mondiale, molti si sentirono più liberi e disposti a narrare in maniera più spavalda le questioni attorno alla classe politica che in molti casi avevano precedentemente omaggiato. Quanto al rapporto stampa-magistratura milanese durante la stagione di Mani Pulite le fughe di notizie venivano sia dalla Procura che dagli studi degli avvocati che dalla Polizia giudiziaria. Inoltre, parecchi tra i cronisti del tempo, che irresponsabilmente spesso gonfiarono l’impatto delle indagini dando la percezione generalizzata di un sistema politico sotto attacco nel suo complesso, erano anche molto giovani. Talvolta calcarono la mano alimentando una pressione mediatica su indagati o futuri tali, favorendo l’impressione che un avviso di garanzia equivalesse ad una condanna. Da qui il furore popolare contro la classe politica nel suo complesso (“tutti corrotti”) e, di nuovo, un sostegno sincero quanto grottesco e acritico ai magistrati milanesi – vendicatori del popolo sano e puro. Si può parlare nel complesso di una emancipazione di parecchi media dalla lunga ombra dei partiti. Molti giornalisti del tempo scambiarono il dovere di informare con quello di fare spettacolo.

Negli anni della fine della Prima Repubblica c’è stato un riscatto mediatico generalizzato, ma anche una rumorosa popolarizzazione delle vicende politico-giudiziarie. Un altro aspetto da tenere in conto quando si parla di emancipazione dei media è quello dell’indipendenza. Alcune testate sono diventate più indipendenti a livello finanziario – il che consentì maggiore affermazione tra il pubblico dei giornali stessi. La maggiore “confidence” nel trattare le questioni giudiziarie e il crollo della classe politica era operata da molti giornalisti nella pericolosa certezza non solo di essere nel giusto, ma pure di avere la maggioranza del pubblico dalla loro parte. Un circolo vizioso: un pubblico entusiasta che si considerava estraneo al sistema corruttivo generalizzato – e non si assumeva le proprie responsabilità di cittadini nella proliferazione di tale sistema – si informava tramite mezzi di informazione che esaltavano l’inchiesta – e che avevano anche un effetto considerevole sia sugli indagati che sul pool di Mani Pulite. A farne le spese sono state le dinamiche processuali. Il che ha contribuito ad una difficile storicizzazione della questione giudiziaria rivista in chiave mediatica.

 

Le immagini

Il ruolo della tv nel triennio 1992-1994 – e di show demagogico-populisti sia sulle reti pubbliche che quelle private – è stato essenziale nel creare un’opinione pubblica non più silenziosa, bensì inferocita nei confronti della classe politica. Il ruolo dell’immagine del potente in manette o delle deposizioni dei testimoni nel processo Enimont ha contribuito a creare una spaccatura del dibattito sulle questioni giudiziarie di allora. Da una parte i colpevolisti che “volevano il sangue”; dall’altra i sostenitori del vecchio assetto, che lamentavano ingiusti processi alla classe dirigente e criticavano l’uso della custodia cautelare. Il ruolo dell’immagine è ravvisabile anche nelle prime dei quotidiani di allora: era l’epoca dei “titoloni”, del “sbatti il mostro in prima pagina”. Il che si è tradotto in un forte sostegno popolare. Già negli anni Ottanta, le personalizzazioni mediatiche di Bettino Craxi e delle assemblee di partito, di Umberto Bossi e della Milano da bere, di un Francesco Cossiga picconatore hanno aiutato a traghettare il pubblico verso nuovi orizzonti e modi di digerire certe immagini legate ad eventi politici. Quella degli anni Ottanta e degli anni Novanta era una società nuova: più ricca, a colori, con esigenze ed interessi diversi. Soprattutto non più silenziosa.

Nella società delle immagini ci si accontenta di notizie sommarie e scarsi approfondimenti. Si crede sia sufficiente vedere gli schermi che trasmettono le dirette dall’aula o le sentinelle sotto il palazzo di Giustizia. Pochi giornalisti decisero di andare controcorrente e prendere le difese del vecchio sistema – che non aveva solo torti e colpe, ma che all’epoca non poteva politicamente rivendicare le sue ragioni al netto di ruberie e reati che vedevano via via contestati. D’altra parte, le notizie erano quelle che erano e non si poteva non darle: la critica nei confronti di molti media non è tanto sulla notizia in sé, ma sulla modalità di trasmissione. I bilanci dei giornali presero fiato nel triennio 1992-1994: il numero delle copie aumentò e consolidò uno zoccolo duro di lettori-tifosi. Lettori che non volevano più solo la parola scritta, ma anche l’immagine e la fanatica e rituale narrazione attorno alla stessa, cosa che agevolò l’eclissi allegorica del sistema dei partiti della Prima Repubblica. Si parlò molto di gogna mediatica. La “bavetta” di Arnaldo Forlani nel processo Cusani, i dubbi dell’ex ministro Gianni De Michelis, la sicurezza e l’oratoria di Craxi sono immagini che hanno contribuito allo smantellamento anche metaforico di un sistema.

 

I referendum

Se Leoluca Orlando uscì dalla DC per formare il suo partito, Mario Segni rimase nella Balena Bianca, ma rappresentava un fastidio per molti dirigenti a causa delle sue battaglie riformiste. Questo coadiuvò molta popolarità per la sua causa – quella referendaria e di tentativo di riforma del sistema elettorale. Il referendum sulla preferenza unica fu un successo: un tentativo dall’interno del sistema di cambiare e ammodernare lo stesso con nuovi meccanismi di elezione della rappresentanza politica. Il sistema maggioritario determinò un cambio radicale delle configurazioni politiche – alcuni sostengono che è stato questo l’unico elemento di passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ma non si tratta di un cambio costituzionale. La legge Mattarella è una legge elettorale uninominale maggioritaria nata sull’onda del referendum del 18 aprile 1993, convertita in legge in Parlamento il 4 agosto dello stesso anno. A fare le spese del sistema maggioritario sarebbe stato il centro; è anche così si spiega la reticenza della DC, negli anni, a cambiare legge elettorale.

I referendum diedero un forte impulso popolare e aiutarono a sviluppare un’intolleranza da parte di grandi settori della popolazione nei confronti della classe politica nel suo complesso. I referendum Segni a cavallo tra la fine della Guerra Fredda e le elezioni politiche del 1994 sono stati eventi mediatici di successo e attrazione: quello che più di tutti i cambiamenti dell’epoca quello che si avvicinava maggiormente al cambiamento da una repubblica all’altra. I referendum avevano catturato la necessità di cambiare il sistema politico e i meccanismi di elezione del medesimo. In seguito, Segni decise di intraprendere la strada politica per dare corpo al cambiamento che la maggioranza dei votanti aveva espresso alle urne. Tuttavia, benché avesse compreso con largo anticipo l’impossibilità di andare avanti con un sistema dei partiti in parte compromesso e corrotto rispetto alle sfide della modernità e del cambio di assetto geopolitico, Segni si trovò di fronte avversari inediti che promettevano stabilità e al contempo novità.

 

La discesa

L’ingresso in politica di Silvio Berlusconi è stato l’elemento che più di tutti ha collegato la fine di un vecchio mondo con l’inizio di uno nuovo. Fu la porta tra la conclusione di un assetto politico e il debutto di uno nuovo. La discesa in campo si accompagnò a mutamenti della comunicazione politica e una netta presa di distanza dalla “vecchia politica”. Le televisioni di Berlusconi hanno supportato attivamente l’inchiesta di Mani Pulite, salvo poi prenderne le distanze quando il Cavaliere entrò in politica nel 1994. Orfani di una rappresentanza a cavallo tra DC e PSI, molti elettori guardarono di buon occhio un personaggio di successo che da una parte si proponeva come elemento di novità e al contempo di restaurazione di un’era ante-Mani Pulite. Berlusconi con una curiosa combinazione di metodico nuovismo e passatismo nostalgico. La discesa in campo è stata la certificazione della chiusura di un ciclo apertosi con la caduta del Muro di Berlino, il crollo della classe politica, un certo protagonismo irrituale di parte della magistratura e dei media nonché i tentativi di nuovi attori di dare una nuova voce ad un cambiamento di assetto.

In un miscuglio tra vecchio e nuovo, passato che non passava e futuro che non appariva, l’arrivo di Berlusconi ha dettato gli esiti della politica dei venticinque anni che sono seguiti. La grande operazione di marketing elettorale che Berlusconi dispiegò nelle elezioni del 1994 fu curata nei minimi dettagli e colse alla sprovvista gli avanzi di una classe politica che non aveva gli strumenti culturali, ancora prima che politici, per interpretare la rivoluzione programmatica, verbale e sociale, che Berlusconi si proponeva di rappresentare nel nuovo mondo post-Guerra Fredda.

Nel 1994 il Cavaliere vinse per diversi motivi. Agitò lo spettro del Comunismo, elemento non più “pericoloso” per l’Occidente, ma pur sempre convincente per un certo pubblico. Si ispirò a parole ai campioni della libertà del tempo a livello internazionale, quali Thatcher e Reagan. Parlò in maniera diretta e carismatica, come un agente di marketing. Promosse la sua immagine di uomo nuovo nel vuoto lasciato dai partiti. Semplificò il suo messaggio politico anche per nuove categorie sociali, dalla casalinga al piccolo imprenditore che si sentivano inascoltati, incompresi e non rappresentati durante la Prima Repubblica. Nel complesso Berlusconi si ripropose come il nuovo restauratore e al contempo l’uomo nuovo. Quello che doveva mettere fine all’instabilità del triennio 1992-1994.

 

Il tempo perduto e le necessarie responsabilità

I motivi del crollo della Prima Repubblica in Italia sono da addebitare a tre macro-cause. La prima è la debolezza del sistema dei partiti combinato al cambio del contesto geopolitico. Il crollo del Muro di Berlino ha fatto saltare gli schemi geopolitici nati a Yalta. A causa dell’arroganza, della miopia e della “fatigue” del sistema consociativo tra parte della politica e parte della classe imprenditoriale, la classe politica italiana nel suo complesso non è stata in grado di capire che una fase storica si chiudeva con il 1989.

La mancanza di ricambio alla guida dell’esecutivo e delle istituzioni ha inoltre esacerbato i vizi dei partiti di governo, così come le richieste di riforme del Capo dello Stato di allora hanno esposto le fragilità della classe politica. Le defezioni dai grandi partiti e l’economia statalizzata ingessata dal debito e dalla spesa pubblica improduttiva e clientelare hanno indebolito il paese. Quanto la seconda macro-causa, l’inchiesta di Mani Pulite ha spazzato via la quasi interezza della classe politica e in questo ha avuto gioco facile per via delle debolezze sistemiche di cui sopra. Si considerino alcune forzature in merito alla custodia cautelare e il sistema delle confessioni usato dai PM di Milano per ampliare il disvelamento in sede giudiziaria del network corruttivo. Ma anche l’intraprendenza di singoli magistrati, il risveglio corale del sistema giudiziario, l’ingresso del codice informatico e del nuovo Codice di Procedura Penale che consentirono all’inchiesta di avere ampie dimensioni.

L’ultima macro-causa ha a che fare con i media e le nuove emancipazioni sociali. Le proteste scaturite nel Nord Italia per motivi fiscali e identitari si sono mischiate con il supporto popolare nei confronti della procura milanese durante Mani Pulite. Ciò condusse molti cittadini ad un disprezzo collettivo, un’intransigenza giacobinica, populistico-demagogica ed irresponsabile nei confronti della classe politica in generale. Nonché un sentimento di presunta purezza plebea da anteporre alle élite necessariamente corrotte. L’emancipazione mediatica e l’eccessiva attenzione nei confronti di certi indagati, nonché la sistemica esposizione alla cosiddetta gogna mediatica agevolarono le condanne popolari nei confronti della classe politica. Infine, i referendum sulla legge elettorale e l’arrivo di nuovi soggetti come cerniera tra epoca vecchia e nuova hanno dato il colpo finale alla Prima Repubblica, senza che questo comportasse un autentico passaggio ad una Seconda Repubblica.

Esternamente, non si può comprendere il crollo del 1992-1994 senza guardare al contesto geopolitico e internazionale, ma internamente, in Italia si è passati da un multipolarismo guidato dai partiti storici e tradizionali a un bipolarismo personalizzato e de-ideologizzato guidato da singoli soggetti slegati dalla forma del partito tradizionale. Il crollo del sistema dei partiti è stato qualcosa di inedito nel Paese e non è avvenuto in altre parti d’Europa, proprio quando dal 1989 in poi di partiti democratici fiorivano.

Il post-Guerra Fredda non ha suggerito alla classe politica una seria quanto necessaria opera di (auto-)riforma, anche solo in materia di chiare, trasparenti e legali forme di finanziamento ai partiti. Assieme con i legami illegali e corruttivi stipulati negli anni con parte dell’imprenditoria locale e nazionale, questo ha esacerbato le occasioni corruttive di gran parte della classe politica che si era data ad un arricchimento personale dettato da hybris e senso dell’impunità.

Tuttavia, il problema del finanziamento dell’attività politica permane, così come il tema della corruzione e non solo corruzione dei partiti o dei singoli. Il fenomeno è ben radicato in Italia e la nuova classe politica che ha sostituito quella del Dopoguerra dal 1994 in poi, da destra a sinistra, non ha dato risposte credibili a questi problemi. In Italia non sono stati fatti esami di coscienza o conti con la Storia sul perché si è arrivati alla cerniera storica del 1992-1994. Anzi: con la scomparsa – o la metamorfosi – di una classe politica, a torto o ragione, in molti cittadini si sono sentiti sollevati dalle responsabilità dei fenomeni corruttivi. Il crollo della Prima Repubblica dovuto alle tre macro-cause doveva essere un’occasione di esame del proprio passato per impostare il futuro politico e sociale nuovo, fresco e dinamico.

Così si sarebbe giunti ad una vera Seconda Repubblica assieme a cambiamenti istituzionali e costituzionali che non si sono verificati né durante la transizione incompleta né nella cosiddetta Seconda Repubblica. Alcuni sostengono che la Prima Repubblica sia in realtà finita con l’omicidio di Aldo Moro nel 1978 perché questo avrebbe segnato il tramonto della possibilità del PCI di accedere al governo del paese. Tuttavia, questo non era previsto dalle logiche di Yalta e quindi il PCI non sarebbe mai potuto andare al governo. È vero che dal 1978 in poi si aprì una nuova stagione, quella del cosiddetto CAF – Craxi Andreotti Forlani –, ma il sistema dei partiti uscì addirittura più forte dalla crisi del caso Moro e il sistema internazionale e il mondo a blocchi rimasero invariati.

Gli anni Ottanta dilatarono i vizi dell’epoca successiva: l’esplosione del debito, la personalizzazione della politica sempre più pop e meno intermediata, la demagogia come sistema e metodo di offerta politica. E nel triennio 1992-1994 si accentuarono e difetti istituzionali quali lo sgretolamento del sistema dei partiti, l’indebolimento delle istituzioni democratiche a favore dei singoli leader, il consolidamento irrituale di alcuni poteri dello Stato e la lunga stagnazione economica del paese in Europa.

A fronte dei cambiamenti in sede internazionale, dopo la fine della Guerra Fredda occorreva radunare una nuova Assemblea costituente che riscrivesse le regole del gioco democratico. Che smascherasse le ipocrisie nazionali della classe politica, dell’imprenditoria e dei cittadini. Che desse all’Italia più dinamismo, competitività e rispettabilità internazionale. Che risolvesse la questione del finanziamento dei partiti. Che riformasse le istituzioni democratiche verso uno Stato più leggero e una società più forte.

A trent’anni di distanza dall’inizio di Mani Pulite – che è sia la causa che la conseguenza dei cambiamenti geopolitici del tempo e dell’incapacità della classe politica di capire il proprio tempo – sono stati persi tre decenni di non riforme e di mancanza di assunzione di responsabilità sia a livello politico che a livello dei cittadini. I sistemi liberaldemocratici impongono sia alla cittadinanza che ai rappresentanti del popolo nelle istituzioni l’assunzione di maggiore responsabilità rispetto ai sistemi autocratici. Con la fine della Guerra Fredda occorreva attuare un grande esame di coscienza e assumersi le responsabilità di fronte alla Storia e alla propria Storia.

Capire il proprio tempo e i fenomeni geopolitici è responsabilità della classe politica; vigilare su di essa è responsabilità dei cittadini.