Atene in ginocchio: la democrazia è vittima di se stessa
Nel dibattito sulla esportazione della democrazia varrebbe la pena che – tra gli altri ingredienti – ci si mettesse il sale di Tucidide.
La guerra peloponnesiaca tra Atene Sparta – raccontata nel sesto e settimo libro de Le storie – offre inesauribili ragioni di riflessione non solo per gli storici. Penso ai cittadini di Melo (“come potrebbe essere interesse nostro divenire schiavi, così come è nel vostro dominarci?”), ma tornerò su questo argomento un’altra volta.
Trovandoci nel periodo a cavallo tra agosto e settembre, mi viene in mente quello del 413 avanti Cristo, quando si è conclusa tragicamente la spedizione di Atene – voluta da Alcibiade – a supporto degli alleati di Segesta, contro Siracusa, alleata di Selinunte. Nel conflitto era anche entrata Sparta che, con cautela e sagacia, anche su consiglio dello stesso Alcibiade – nella Sua parabola in odio ai vecchi concittadini – invia un contingente risicato – guidato da Gilippo – ma sufficiente per rincuorare gli animi e suggerire strategie. Sparta è sempre Sparta.
Nel segno più classico dell’assediante che diventa assediato – Cesare, come assediante, ed Eugenio di Savoia, come liberatore degli assediati, avrebbero poi scritto pagine memorabili di storia militare ad Alesia e Torino – gli Ateniesi, guidati da Nicia (che non aveva voluto la guerra) e da Demostene, si vedono chiuse anche le residue possibilità di ritiro.
Le 200 triremi Ateniesi non riescono a manovrare e rompere lo sbarramento delle navi Siracusane e alleate – come quelle di Serse a Salamina – e la sconfitta nella battaglia navale è solo il preludio al massacro via terra che seguirà.
“Quando poi sia a Nicia che a Demostene parve che i preparativi fossero sufficienti, allora, due giorni dopo la battaglia navale, finalmente si levò il campo. La situazione era terribile, non soltanto per un singolo aspetto, cioè perché si ritiravano dopo aver perso tutte le navi, in condizioni di grave pericolo per loro e per la città in luogo delle grandi speranze d’una volta; anche l’abbandono stesso del campo soffriva uno spettacolo doloroso per gli occhi e per il cuore di ciascuno.
I morti erano insepolti, e chi vedeva così giacere qualcuno dei suoi cari era preso da dolore e da timore insieme; i feriti e gli ammalati poi, che venivano abbandonati vivi, procuravano ai vivi più dolore dei defunti, e la loro sventura appariva peggiore di quella dei morti.
Con i loro gemiti e le loro suppliche causavano infatti imbarazzo, perché chiedevano d’esser condotti via e invocavano ogni amico o familiare che vedevano, attaccandosi ai commilitoni ormai sul punto di partire, seguendoli finché potevano e abbandonandoli poi con molte imprecazioni e lamentele quando venivano loro meno le forze fisiche”.
Dopo alcuni giorni di inganni, inseguimenti, scaramucce, stadi percorsi, i circa 40.000 mila Ateniesi superstiti si dividono in due, a comando dei rispettivi strateghi, ma la fuga è torturata dalla cavalleria Siracusana e degli alleati che ha buon gioco a inseguire e a bersagliare a distanza i reduci, ormai sfiduciati e consapevoli del tragico destino che li attende.
Nessuno scampo, nessuna pietà.
Demostene si arrende con 6.000 uomini consegnando tutto il denaro (se ne riempirono quattro scudi).
Nicia prosegue la fuga e passa il fiume Erineo.
La notizia della resa di Demostene viene data a Nicia.
Nicia non ci crede, chiede di mandare un cavaliere a verificare.
Accerta, propone una resa con risarcimento delle spese sostenute dai Siracusani per la guerra.
Non la ottiene, cerca la fuga.
Tutto precipita.
Gli Ateniesi con Nicia cercano di romper e l’accerchiamento superando il fiume Assinaro.
Il guado è la loro tomba: “costretti a procedere tutti insieme, inciampavano gli uni negli altri e si calpestavano; alcuni morivano subito, cadendo sui propri giavellotti e sul proprio armamento, mentre altri impigliandovisi eran trascinati via dalla corrente. I Siracusani appostati sull’altra riva del fiume, che era scoscesa, colpivan dall’alto gli Ateniesi, intenti per la maggior parte a saziare la sete arrecandosi reciprocamente grande scompiglio nel letto incassato del fiume. I Peloponnesi poi scesero a uccidere specialmente quelli che stavan nel fiume, e l’acqua ne fu subito inquinata; ma tuttavia la bevevano egualmente, e i più se la disputavano, fangosa e insanguinata com’era”.
Demostene e Nicia sono uccisi. Nicia, nonostante il parere di Gilippo
Chiosa magistralmente Tucidide: “eppure egli era l’uomo che, meno di tutti i Greci dei miei tempi, meritava una simile sorte, perché aveva sempre praticato tutte le virtù tradizionali”.
Gli Ateniesi e gli alleati superstiti sono gettati nelle cave di pietra (latomie): “non furon molti i prigionieri catturati per lo Stato, molti invece quelli sottratti, che riempirono tutta la Sicilia perché non erano stati fatti prigionieri secondo un accordo, come quelli di Demostene”.
Conclude Tucidide: “Questo fatto fu il più importante di tutta questa guerra, e a mio parere anche di tutta la storia greca che la tradizione ci ha permesso di conoscere, il più splendido per i vincitori e il più funesto per i vinti: infatti furono sconfitti completamente, per ogni riguardo, e nessuna delle loro sofferenze fu mai di poco conto; si trattò, come si dice, d’un annientamento totale in cui tutto andò perduto, esercito e flotta; di tanti, ben pochi tornarono in patria”.