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I desaparecidos dell’uso sbagliato del potere cautelare: quando lo Stato non paga l’ingiusta detenzione

errori giudiziari
errori giudiziari

Se sei capace di tremare d’indignazione

ogni qualvolta si commette un’ingiustizia,

allora siamo compagni

 Ernesto “Che” Guevara

 

In questo contributo, scritto con il dott. Vincenzo Giglio, abbiamo esaminato i numeri reali e le cause degli errori giudiziari in Italia.

Lo studio si basa sulle statistiche redatte dal Ministero di Giustizia confrontate con i dati raccolti dall’associazione Errorigiudiziari.com, la sintesi rivela che il sistema giustizia crea più di 4.000 innocenti ogni anno.

Un numero assai maggiore dei dati ufficiali che indicano in 1000 le persone indennizzate ogni anno per l’ingiusta detenzione, gli altri sono i desaparecidos.

                   

1. L’uso del potere cautelare in Italia[1]

…Premessa

Entro il 31 gennaio di ogni anno, il Governo (per esso il ministero della Giustizia) ha l’obbligo, imposto dall’art. 15 della L. 47/2015, di presentare alle Camere “una relazione contenente dati, rilevazioni e statistiche relativi all’applicazione, nell’anno precedente, delle misure cautelari personali, distinte per tipologie, con l’indicazione dell’esito dei relativi procedimenti, ove conclusi”.

L’ultimo periodo dello stesso articolo aggiunge che “La relazione contiene inoltre i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, pronunciate nell’anno precedente, con specificazione delle ragioni di accoglimento e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi”.

È agevole comprendere lo scopo di questa prescrizione, non a caso inserita in una legge varata al dichiarato scopo di rimediare a disinvolte prassi legislative e giurisprudenziali il cui comune effetto è stato di riempire le carceri nazionali oltre ogni livello di civiltà e ragionevolezza.

Così si leggeva infatti nella proposta (prima firmataria on. Donatella Ferranti) da cui è derivata la Legge 47: “Il problema carcerario in Italia è cronico e assume dimensioni sempre più preoccupanti, con istituti penitenziari sovraffollati e condizioni detentive sempre meno degne di un Paese civile. Urge trovare soluzioni immediate, in grado non più solo di lenire temporaneamente il problema ma di risolverlo definitivamente. In questa direzione occorre anzitutto una riflessione culturale. Negli ultimi anni la situazione carceraria si è ulteriormente aggravata sotto la pressione di un’ansia di sicurezza, talora assecondata con troppa disinvoltura, che ha germinato una legislazione emergenziale soprattutto preoccupata di prevenire e di punire, senza particolare attenzione per le ricadute sanzionatorie complessive. La stessa prassi giudiziaria si è talora mostrata fin troppo sensibile all’ondata securitaria, favorendo ulteriormente l’espansione dell’uso della leva detentiva a fini sanzionatori e cautelari. Non si tratta allora più soltanto di arginare la piaga del sovraffollamento, che da anni attanaglia il nostro sistema carcerario, né semplicemente di assicurare modalità detentive che rispettino i più basilari diritti dell’individuo, ma più in generale si deve ridare senso e dignità alla forma più drastica di restrizione dei diritti dell’individuo che il nostro ordinamento conosce […] È necessario superare quelle forme surrettizie di presunzione giurisprudenziale che di fatto enucleano la sussistenza di esigenze cautelari dalla sola gravità del reato commesso e puntare su una valutazione rigorosa, che sappia valorizzare il principio della tendenziale prevalenza della libertà sulla restrizione. L’intervento normativo deve quindi tendere a riallineare il sistema italiano agli standard previsti dalla Costituzione e a quelli previsti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, e dalla sua giurisprudenza. È in queste coordinate che si inscrive la presente proposta di legge”.

È chiaro allora che la relazione imposta dall’art. 15 ha una funzione strumentale: il monitoraggio annuale serve ad offrire al legislatore conoscenza e possibilità di intervento modificativo ove occorra.

…I numeri

È bene premettere che i dati richiesti dal ministero della Giustizia sono stati tramessi dall’86% degli uffici giudiziari interessati.

Il campione raccolto è quindi altamente significativo, anche perché tutti i più importanti distretti giudiziari hanno risposto. Questa constatazione non toglie nulla tuttavia alla gravità della mancata risposta di una percentuale tutt’altro che trascurabile di sedi giudiziarie e alla conseguente incapacità del ministero di raccogliere la totalità dei numeri d’interesse.

Fatta questa necessaria premessa, nel 2019 risultano emesse 94.197 misure cautelari personali così divise (schema 1): 620 custodie cautelari in luoghi di cura o strutture (0,6% del totale); 31.264 custodie cautelari in carcere (33,6%); 23.047 custodie agli arresti domiciliari (24,5%); 12.358 divieti o obblighi di dimora (13,1%); 12.235 allontanamenti dalla casa familiare o divieti di avvicinamento alla parte offesa (13%); 14.204 obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria (15,1%); 109 divieti di espatrio (0,1%).

I dati quantitativi del 2019 sono quasi uguali a quelli del 2018 (schema 1 bis) (81.962[2] nel 2019, 83.539 nel 2018).

Un’ulteriore sezione della relazione riguarda l’esito dei procedimenti “cautelati”[3] iscritti nel 2019.

È bene precisare, così da fugare ogni equivoco, che anche in questo caso l’unità di misura è sempre costituita dalle misure cautelari e non dai procedimenti.

Quando dunque nel paragrafo 4 della relazione si afferma che il numero di definizioni per il 2019 è pari a 41.604, si vuole intendere che sono stati definiti procedimenti nel cui ambito sono state emesse 41.604 misure cautelari personali.

Questi sono i numeri dei procedimenti “cautelati” conclusi con condanna (schema 3): 18.751 conclusi con condanna non definitiva; 2.982 conclusi con condanna non definitiva condizionalmente sospesa; 9.007 conclusi con condanna definitiva (schemi 8-12) tra i quali 2.201 con condanna sospesa condizionalmente.

Questi sono i numeri dei medesimi procedimenti conclusi con assoluzione o proscioglimento (schemi 13-14): il totale ammonta a 4.156 di cui 792 conclusi con sentenza definitiva di assoluzione, 2.301 conclusi con sentenza non definitiva di assoluzione, 289 conclusi con sentenza definitiva per altro, 774 conclusi con sentenza non definitiva per altro.

La relazione prosegue offrendo dati di dettaglio per i tre più grandi distretti giudiziari italiani (Milano, Roma e Napoli).

Qui si omette di farvi cenno poiché interessa di più una riflessione estesa all’intero territorio nazionale.

Si passa quindi oltre e precisamente alla sezione (Schema 1) che riguarda le decisioni di accoglimento delle domande di riparazione per ingiusta detenzione emesse nell’anno 2019.

Si segnala che anche in questo caso i dati sono incompleti, mancando i dati delle Corti di appello di Brescia, Lecce, Napoli, Perugia e Salerno.

Mancano dunque alla conta ben cinque distretti giudiziari sui 27, cioè il 18,5% del totale: un ulteriore e grave segnale di incapacità di una rappresentazione completa.

Risulta comunque che nell’anno 2019 sono state emesse 1.026 decisioni di accoglimento di cui 489 ormai definitive e 537 ancora soggette ad impugnazione.

Nello schema 2 relativo alle decisioni di accoglimento irrevocabili (i cui totali sono diversi da quelli dello schema 1, ad ulteriore riprova di quell’incapacità più volte stigmatizzata), risulta che 350 di esse sono dipese da sentenze di proscioglimento o assolutorie e 115 sono dipese invece dalla rilevazione di illegittimità delle ordinanze cautelari.

Segue (schema 3) la rilevazione, fondata su dati comunicati dal ministero dell’Economia e delle Finanze), dell’importo complessivamente pagato dallo Stato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione. Esso ammonta a € 43.486.630 per il 2019 a fronte di un importo di € 33.373.830 per l’anno precedente.

Risulta ancora che il distretto giudiziario che è costato di più allo Stato è quello di Reggio Calabria (poco meno di 10 milioni di euro), seguito a parecchia distanza dai distretti di Roma e Catanzaro (4,9 milioni il primo, 4,45 milioni il secondo).

La relazione si chiude con il report sugli illeciti disciplinari contestati ai magistrati ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera g), d.lgs. 109/1996, ipotesi che ricorre nei casi di grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

È bene precisare che la rilevazione ha preso in considerazione soltanto le azioni disciplinari esercitate in relazione a scarcerazioni disposte oltre i termini di legge.

Risulta dunque che nel 2019 sono state promosse 24 azioni disciplinari di tal genere, due ad iniziativa della Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione e 21 ad iniziativa del ministro della Giustizia). 16 azioni erano state esercitate nel 2018 e 13 nel 2017 per un totale di 53 azioni nel triennio preso in considerazione.

Solo in quattro casi è stata irrogata una sanzione disciplinare (peraltro sempre e soltanto la censura, cioè la misura più blanda dopo l’ammonimento). Ci sono state poi sette assoluzioni e 9 decisioni di non doversi procedere. 31 procedimenti disciplinari sono ancora in corso.

…Quello che dicono i numeri

I numeri hanno parlato e raccontano una brutta storia.

La custodia carceraria è la misura cautelare più utilizzata, a dispetto del principio che assegna alla detenzione carceraria la funzione di ultima trincea, a cui ricorrere solo quando sia stata accertata e adeguatamente motivata l’impossibilità di ricorrere a misure meno afflittive.

La custodia carceraria e gli arresti domiciliari rappresentano da soli quasi il 60% delle misure emesse, oscurando e relegando sullo sfondo le numerose possibilità alternative offerte dal codice di rito.

Ben il 10% dei procedimenti “cautelati” si conclude con un esito che sconfessa, sia pure a posteriori, la necessità della misura. Se è vero che in alcuni casi questo può essere accaduto per sviluppi istruttori non preventivabili inizialmente, è ugualmente vero che nella maggior parte dei casi era al contrario prevedibile un esito tale da rendere inutile la cautela.

Le Corti di appello italiane hanno ritenuto fondate oltre mille richieste di riparazione per ingiusta detenzione e alle loro decisioni consegue l’esborso di somme rilevanti con danno a carico dell’intera collettività.

La giustizia disciplinare è ben lontana dal rappresentare un freno per chi concorre a un uso non meditato del potere cautelare.

Alle stesse conclusioni si arriverebbe se si facesse un’analisi spettrale della vigente normativa sulla responsabilità civile dello Stato-giustizia e sul numero di casi, davvero irrilevante quantitativamente, nei quali si è arrivati alla condanna.

Dalla entrata in vigore della cosiddetta Legge Vassalli (L. 117/1988, modificata nel 2015) sono stati rarissimi i casi di condanna dello Stato-giustizia.

Secondo i dati forniti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri a due richieste di accesso (allegate allo scritto in forma anonimizzata), tra il 2006 e il 2017 sono state esercitate 604 azioni a tale titolo e solo in 17 casi hanno avuto esito vittorioso. In questo ambito solo quattro delle controversie arrivate alla fase di legittimità si sono concluse con pronuncia di condanna.

Ognuna di queste componenti è concausa di un’alterazione sistemica, favorita in egual misura da un legislatore che sembra procedere per manifesti simbolici più che sulla base di impulsi razionali e da una magistratura talvolta capace di orientamenti e prassi applicative dimentiche della centralità assoluta del bene della libertà personale.

 

2. La giurisprudenza

I numeri esposti nei precedenti paragrafi rappresentano decisioni giudiziarie e i loro effetti sulle casse dello Stato.

Interesse quindi capire in che modo la giurisdizione applichi concretamente l’istituto della riparazione dell’ingiusta custodia cautelare.

È consolidato il principio dell’autonomia tra il procedimento riparatorio da quello penale e questo significa che il giudice del primo può rivalutare fatti penalmente irrilevanti accertati nel secondo (Cass. pen., sez. IV, 34886/2018), derivare dal materiale probatorio acquisito agli atti conclusioni diverse di quelle proprie del merito (Cass. pen., sez. IV, 32232/2018).

In tema di dolo o colpa grave dell’accusato, il giudice è tenuto a valutare la condotta da questi tenuta sia prima che dopo la sua sottoposizione alla misura (Cass. pen., sez. unite, 32383/2018), è legittimato a valutare negativamente la sua scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere (Cass. pen., sez. IV, 25252/2016), può fondare il rigetto della domanda sulla sua consapevolezza dell’altrui condotta criminale (Cass. pen., sez. IV, 4159/2018).

Quanto ai criteri di commisurazione della riparazione, il primo è quello aritmetico: si assume come parametro base l’importo massimo liquidabile previsto dall’art. 315 cod. proc. pen., lo si divide per il numero di giorni corrispondente al periodo massimo di custodia cautelare consentito dal nostro ordinamento (sei anni, pari a 2.190 giorni), si ottiene in tal modo la cifra di 235,82 € (dimezzato per la custodia domiciliare), la si moltiplica per il numero di giorni di ingiusta detenzione e si ottiene l’equa riparazione (Cass. pen., sez. IV, 47286/2017); il secondo criterio è quello equitativo cui è demandato il compito di ristorare le conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà tra le quali non è tuttavia compresa la sofferenza connaturale alla separazione dal nucleo familiare perché è una conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale (Cass. pen., sez. III, 55785/2017).

 

3. Considerazioni finali

I dati numerici contenuti nel paragrafo n. 2 indicano le volte in cui qualcuno ha subito periodi di detenzione cautelare carceraria domiciliare, è stato prosciolto o assolto o ha ottenuto l’archiviazione con una delle formule indicate nel citato art. 314, ha presentato la domanda di equa riparazione e il giudice competente l’ha accolta.

È agevole tuttavia constatare che gli individui di cui si parla sono molti meno di quelli che potrebbero astrattamente chiedere la riparazione.

Come emerge dalla relazione ministeriale citata nel paragrafo 1, nel 2019 sono diventate definitive – e si riferiscono tutte a procedimenti nei quali erano state emesse misure cautelari detentive –, 383 sentenze di assoluzione o proscioglimento, 1.071 sentenze con condanna condizionalmente sospesa e 132 sentenze di condanna che tuttavia escludevano quelli per i quali era stata disposta la custodia cautelare.

1.586 sentenze si concludono dunque irreversibilmente con un esito che, sia pure a posteriori, smentisce la necessità dell’esercizio del potere cautelare o la mette seriamente in dubbio.

È ignoto quanti decreti di archiviazione siano stati emessi nello stesso anno in relazione alla posizione di accusati posti in stato detentivo durante le indagini ma certo non si può escludere che, se il dato fosse noto, qualche altro caso andrebbe ad aggiungersi a quelli precedenti.

Se si passa alle sentenze non definitive emesse in procedimenti nei quali sono state disposte custodie carcerarie o domiciliari, si constata che sono state emesse 1.309 sentenze assolutorie, 424 sentenze di condanna ma assolutorie per i reati per i quali è stata disposta la custodia, 1.071 sentenze con condanna a pena condizionalmente sospesa.

Non si tratta – è bene precisarlo – di numeri contingenti, cioè legati a particolarità verificatesi nel 2019.

L’esame delle relazioni ministeriali per il biennio precedente mette in mostra cifre non dissimili da quelle relative al 2019.

C’è allora da chiedersi cosa provochi un gap così vistoso tra chi subisce indebitamente le forme più pervasive di limitazione della propria libertà personale e viene ristorato pecuniariamente e chi invece, pur trovandosi in condizioni analoghe, sparisce dai riflettori ed entra in un irreversibile cono d’ombra.

Non esistono a questo proposito rappresentazioni statistiche che aiutino a comprendere né ricerche che offrano qualche utile chiave di lettura.

Sono quindi possibili solo ipotesi.

La prima – certamente la più significativa – coincide con gli indirizzi interpretativi della giurisprudenza.

Si amplia l’area del dolo e della colpa grave fino a ricomprendervi l’esercizio di un diritto processuale come è certamente la facoltà di non rendere dichiarazioni e si introduce in tal modo una contraddizione ordinamentale perché appunto esercitare il diritto al silenzio preclude l’altro diritto di essere indennizzati per il torto subito.

Si minimizzano per contro gli effetti delle violazioni procedurali e delle defaillances logiche di PM e giudici.

Sono esclusi dall’area dell’indennizzabile i patimenti subiti dai detenuti per la lontananza forzata dai familiari con la sbalorditiva motivazione della loro connaturalità alla detenzione, quasi che per questo non contino più e debbano quindi essere ignorati.

Sullo sfondo si rivendica un potere valutativo autonomo del giudice del procedimento riparatorio che, a dispetto di espressioni giustificative più o meno accettabili, è solo un modo per accrescere la discrezionalità del giudizio.

Accanto ai tanti limiti posti dal giudice, si deve credere che ve ne siano altrettanti autoimposti dagli stessi potenziali aventi diritto.

I costi della procedura e l’esiguità della riparazione prevedibile per detenzioni brevi hanno verosimilmente un’efficacia dissuasiva elevata.

Taluni aventi diritto possono considerare preferibile sfruttare la possibilità offerta dal codice di rito di utilizzare la detenzione senza titolo a scomputo di pene detentive da eseguire.

Ma, altrettanto verosimilmente, potrebbe incidere la ferrea volontà di non rinnovare, pur partendo da una posizione di vantaggio, l’orrore dell’esperienza giudiziaria vissuta e di non correre anche solo alla lontana il rischio di essere nuovamente sottoposti a sgradevoli ribalte mediatiche.

Per questi vincoli esterni o interni, migliaia di persone non entreranno mai nelle statistiche ufficiali, rimarranno invisibili e si trasformeranno nei desaparecidos della giustizia ingiusta.

Si chiude con un richiamo al pensiero di Albert Camus, tratto da La caduta:

Visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare sé stessi per aver diritto di giudicare gli altri. Visto che ogni giudice prima o poi finisce penitente, bisognava far la strada in senso inverso, esercitare il mestiere di penitente per poter finire giudice”.

 

(Estratto dell’articolo della sezione Gran Bazar del n. 1/2021 della rivista Percorsi Penali)

Per leggere il contributo integrale CLICCA QUI!

 

[1] La relazione ministeriale di cui si parla in questo paragrafo è consultabile a questo Link.

[2] Il dato è inferiore a quello effettivo riportato in precedenza perché, allo scopo di agevolare una comparazione comprensibile, sono state detratte dal totale del 2019 le 12.235 misure ex art. 282-bis c.p.p., trattandosi di tipologia non rilevata nel 2018.

[3] È un brutto neologismo coniato dagli autori della relazione per indicare i procedimenti iniziati nel 2019 nei quali sono state emesse le misure cautelari personali prese in considerazione per l’anno di riferimento.