x

x

I patrimoni destinati: realtà e prospettive

 

Gli artt. 2447 bis e seguenti del codice civile, introdotti col Decreto Legislativo 6/2003, nell’ambito della disciplina della società per azioni, hanno determinato la previsione dell’istituto dei patrimoni destinati ad uno specifico affare .

La suddetta figura presenta degli indubbi elementi di collegamento con la categoria dei “patrimoni di destinazione”, ossia con quegli istituti, quali il fondo patrimoniale (artt. 167 e ss.) e le eredità giacenti (artt. 528 e ss.) o beneficiate (art. 490), che si caratterizzano per l’esistenza di una segregazione patrimoniale con conseguente limitazione della responsabilità.

Già da diverso tempo, accanto a questi istituti sono sorte alcune fattispecie normative, si parva licet componere magnis, raffrontabili al fenomeno dei patrimoni destinati con riguardo all’applicazione della tecnica della separazione patrimoniale: il riferimento è in particolare alla disciplina dei fondi pensione ed alla cartolarizzazione dei crediti e degli immobili pubblici; secondo taluna dottrina, inoltre, la stessa possibilità di costituire una società a responsabilità limitata unipersonale rappresenta una ipotesi di segregazione patrimoniale.

Da quanto detto è possibile desumere che dal punto di vista strettamente giuridico-dogmatico non ci troviamo di fronte ad un fenomeno assolutamente nuovo, pur se nelle forme e nel contenuto vi sono degli aspetti fortemente innovativi.

Con riguardo al processo di separazione patrimoniale, ai fini di una giustificazione teorica dell’istituto, va richiamata la disciplina codicistica.

Con gli artt. 2740 e 2741 c.c., il legislatore ha affermato, infatti, il principio secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazione con tutti i suoi bene presenti e futuri, salve espresse limitazioni previste dalla legge. È insita in tale disciplina una sorta di tipicità delle ipotesi limitative della responsabilità patrimoniale del debitore. A ciò si aggiunga che il termine debitore è genericamente inteso in dottrina e giurisprudenza come idoneo a ricomprendere qualsiasi ente dotato di personalità giuridica, comprese le persone giuridiche e, conseguentemente le società.

In considerazione di quanto detto, e dunque nel pieno rispetto del dato normativo appena citato, il legislatore, con la riforma del diritto societario, ha delineato una disciplina volta a garantire alle società azionarie la possibilità di destinare alcuni beni del proprio patrimonio (art. 2447 bis, comma 1, lettera a) o i proventi di un finanziamento (art. 2447 bis, comma 1, lettera b) al compimento di affari specifici e determinati, attraverso la costituzione di un patrimonio separato suscettibile di essere aggredito soltanto da taluni creditori. In tal modo si è creato un fenomeno definito, da taluna dottrina, quale “scissione endosocietaria” realizzandosi un modello sostanzialmente diverso rispetto alla tradizionale scissione parziale la quale si caratterizza per il distacco di una parte del patrimonio sociale per costituire una diversa società.

Accanto alla creazione del patrimonio separato, è stata prevista la possibilità che si destinino finanziamenti esterni al soddisfacimento di “specifici affari”, con la differenza, rispetto alla prima figura, costituita unilateralmente, che qui si concretizza una vera e propria struttura contrattuale, che presuppone cioè l’intervento di un’altra parte.

Da quanto detto emerge che l’oggetto della presente analisi contiene elementi di indubbio interesse teorico, che senz’altro troveranno nelle concrete applicazioni un ‹‹banco di prova›› che ci permetterà di meglio approfondire gli aspetti problematici già fonti di dibattiti dottrinali.

Tuttavia, in assenza di una verifica sul terreno della portata della tematica in esame e, conseguentemente, delle correlate questioni concrete, la dottrina ha cercato in primo luogo di svolgere un’opera di inquadramento e di analisi strutturale della disciplina, analizzando il dato normativo; in secondo luogo, ha affrontato, in chiave prospettica, il possibile atteggiarsi pratico del ricorso agli strumenti introdotti con gli artt. 2247 bis, e ss., e le connesse possibili applicazioni per le singole realtà societarie.

Ponendo a questo punto l’attenzione sul dato normativo, premesso che, come detto, il legislatore ha disciplinato due differenti fattispecie (i patrimoni destinati ed i finanziamenti destinati) si rende necessaria l’individuazione dei punti cardine della disciplina e ciò con particolare riferimento ai requisiti per la costituzione del patrimonio destinato, alla sua struttura, alle modalità della sua istituzione ed alla fase di amministrazione.

Con riguardo al primo di questi aspetti, ossia i requisiti per la costituzione, vanno richiamati, in particolare, gli artt. 2447 bis e ter: Da questi ultimi si desume che la società può destinare parte del proprio patrimonio al compimento di un singolo affare e che la deliberazione costituiva deve indicare quale sia l’affare in oggetto ed il rapporto di congruità col patrimonio per la sua realizzazione.

La terminologia utilizzata dal legislatore, ossia “singolo affare”, etichettata come atecnica da buona parte della dottrina, va intesa come insieme di operazioni funzionalmente collegate con l’unico limite del doveroso collegamento con l’oggetto sociale, fatti salvi specifici divieti previsti da leggi speciali. Alla luce della costante interpretazione del concetto d’affare previsto dall’art. 2549, si tende ad escludere che possa farsi coincidere con la complessiva attività della società, ritenendosi preferibile il riferimento alla attività di un ramo della società stessa.

Con riguardo alla congruità, si discute sia sulla possibilità di operare una valutazione che superi i rilievi meramente formali del rispetto del piano economico-finanziario, sia sugli effetti della sua mancanza; su quest’ultimo punto è prevalente l’orientamento che configura soltanto una responsabilità della società verso i creditori che hanno fatto affidamento sulla garanzia offerta dall’intero patrimonio societario.

Dall’art. 2247 ter si desume anche la possibilità che si destinino al singolo affare precisi rapporti giuridici.

Restando nell’ambito oggettivo, va rilevato che la normativa in esame circoscrive quantitativamente la possibilità di usufruire del suddetto fenomeno di destinazione patrimoniale: non possono, infatti, essere costituiti patrimoni destinati che abbiano un valore complessivo che superi del 10 % quello netto della società (art. 2247 bis, comma 2). La ratio di questo limite (non previsto nella legge delega) è prevalentemente da individuare nell’esigenza di garantire i creditori sulla capacità della società di produrre reddito: questi ultimi possono così essere privati solo in minima parte del patrimonio su cui essere garantiti.

Dal dato normativo rileva, inoltre, che il valore del 10 % va riferito solo al momento della costituzione della separazione patrimoniale, nulla rilevando eventuali successivi mutamenti di valore dello stesso.

Passando ad analizzare la struttura del patrimonio destinato, si nota che si aprono le porte per il superamento della passata prassi della costituzione di società collegate e volte al soddisfacimento di determinati interessi della società di riferimento. La prima ipotesi prevista dal legislatore nella relazione che accompagna il D.lgs. 6/03 viene infatti definita come uno strumento che equivale “alla costituzione di una nuova società, col vantaggio della eliminazione dei costi di costituzione, mantenimento ed estinzione della stessa”. Anche con riguardo alla possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi all’affare, resta sempre fermo il carattere unitario della società e la connessa amministrazione attraverso gli organi amministrativi della società.

Taluna dottrina, nell’analizzare il suddetto fenomeno, è arrivata a sostenere che ci troviamo di fronte ad una “forma evoluta” del modello della associazione in partecipazione; ciò che è certo è che si è di fronte ad un sistema nel quale debbono essere bilanciati diversi interessi ed in particolare il legislatore si è posto il duplice problema di garantire gli interessi dei creditori e di salvaguardare al contempo l’elemento finalistico del patrimonio separato.

A tal fine è sorta la necessità di una disciplina volta a regolare la contabilità separata, il bilancio, la pubblicità, la congruità, i controlli dell’andamento dell’affare; ciò, comunque, alla luce di un legame genetico con la società e, come emerge nella citata relazione, senza, creare un nuovo apparato societario.

Con riguardo alla fase costitutiva, va anzitutto detto che il patrimonio destinato nasce in seguito ad una espressa deliberazione dal Consiglio di Amministrazione (in presenza del sistema monastico) o dal Consiglio di gestione (nell’ipotesi di amministrazione dualistica) assunta a maggioranza assoluta. È fatta salva la possibilità di prevedere una diversa competenza in ordine alla costituzione o una diversa maggioranza.

In ogni caso la delibera è soggetta a pubblicità presso il Registro delle Imprese ai sensi dell’art. 2436 c.c.; una parte della dottrina ha ritenuto, inoltre, necessaria la redazione per atto pubblico.

Il patrimonio destinato è soggetto di una gestione distinta da quella della società; in conseguenza di ciò i beni che ne fanno parte devono essere separatamente indicati nell’attivo dello stato patrimoniale (art. 2447-septies); con riguardo allo stato passivo è prevista l’indicazione sia dei debiti nascenti dalla separata gestione sia il patrimonio destinato in quanto tale.

Il legislatore ha inoltre previsto che per ciascun patrimonio destinato, gli amministratori siano obbligati a tenere il libro giornale e quello degli inventari.

Una volta realizzato l’affare, si dovrà procedere, in seguito ad una deliberazione dell’organo amministrativo, alla pubblicizzazione del rendiconto finale, e ciò financo nell’ipotesi in cui l’affare non si sia potuto realizzare o ne sia divenuta impossibile la realizzazione.

Nel caso in cui il suddetto rendiconto finale non sia accompagnato da una integrale soddisfazione delle obbligazioni contratte ai sensi degli artt. 2447 bis e seguenti, è possibile per i creditori chiedere la messa in liquidazione, entro tre mesi, ed ai sensi dell’art. 2447 novies.

La separazione diviene efficace dopo due mesi dal deposito della deliberazione presso il Registro delle Imprese, ove non sia intervenuta l’opposizione dei creditori della società, ai sensi dell’art. 2447 quater, comma 2.

Quanto alla fase di amministrazione del patrimonio separato, come è emerso nella individuazione dei punti precedenti, l’atto costitutivo deve presentare i caratteri essenziali dell’operazione deliberata. La disciplina normativa consente, tuttavia, la possibilità di successive deliberazioni volte a precisare o a completare quanto previsto con la costituzione.

Il potere gestorio è comunque fortemente limitato con riguardo all’oggetto dell’operazione, consistente nell’affare debitamente specificato, mentre restano salvi possibili interventi volti a regolamentare la fase esecutiva più propriamente esecutiva.

Quanto ai finanziamenti destinati, la separazione ha in tal caso ad oggetto esclusivamente i proventi di un determinato affare, finalizzati al finanziamento dell’impresa.

Anche in tal caso è previsto un regime di opponibilità del vincolo ai creditori sociali subordinato sia al deposito del contratto di finanziamento presso il registro delle imprese e sia da un sistema di contabilità che tenga conto del fatto che i suddetti finanziamenti restano separati dal patrimonio sociale.

In tale contesto, i finanziatori dell’affare assumono la posizione di veri e propri creditori che possono soddisfarsi esclusivamente sui proventi dell’operazione.

Le novità introdotte con gli artt. 2247 bis e seguenti, impongono un tentativo di inquadramento dei possibili effetti nel contesto del diritto societario, soprattutto in chiave problematica.

Sotto il profilo funzionale i risultati che si intendono perseguire con l’adozione del nuovo istituto sono dati dalla limitazione della responsabilità patrimoniale e nella creazione di garanzie specifiche per raggiungere determinati finalità della società.

Un elemento che può tornare utile a questo fine è senz’altro dato dalla motivazione ufficiale, che ha accompagnato la suddetta riforma, nella quale si legge che la normativa in questione è finalizzata a:

1.      rendere superflui accorgimenti costosi e poco trasparenti, che già vengono usati nella pratica, come la costituzione di società ad hoc anche per un singolo affare;

2.      rendere possibile una più concreta tutela per coloro che intervengono nel finanziamento dell’affare, i quali vengono resi consapevoli delle sue caratteristiche e si trovano in una situazione ove il loro rischio è circoscritto agli esiti economici dell’affare stesso.

Quanto al primo punto, non sono mancate delle critiche su vari livelli; pur se generalmente si conviene sulla validità dello strumento del patrimonio destinato per soddisfare singoli affari, la complessa articolazione interna (specialità della rendicontazione, tenuta separata dei libri e delle scritture contabili…) della struttura patrimoniale potrebbe incidere negativamente su un operazione di tal tipo.

A ciò si aggiunga che il limite quantitativo del 10 % del patrimonio, previsto nel secondo comma dell’art. 2447 bis, porta ad un incidenza minima, sull’assetto societario, della destinazione patrimoniale, limitandosi fortemente la correlata possibilità di dar vita a strutture multidimensionali omogenee e separate.

Il legislatore ha inteso, attraverso la suddetta disciplina, porre in essere un argine al fenomeno della costituzione di società costituite ad hoc per realizzare determinati affari e legate da un rapporto di controllata a controllante.

La possibilità che il consiglio di amministrazione o di gestione determini l’attivazione del procedimento di segregazione patrimoniale è da alcuni visto, tuttavia, come idoneo a ledere i diritti dei soci, che restano inermi di fronte ad un’operazione di tal tipo.

Quanto al finanziamento dei soci, le prospettive sono in linea di massima positive, facilitandosi l’accesso al credito attraverso la previsione di una forte garanzia data dal fatto che il rischio è “circoscritto agli esiti economici dell’affare stesso”.

Il peso del suddetto strumento nella realtà societaria sarà valutabile solo tra qualche anno; in dottrina è generalmente presente un certo ottimismo sulla possibilità che i suddetti strumenti possano determinare importanti opportunità per le società pur se all’interno di limiti (soprattutto quantitativi) che rischiano di marginalizzare su un piano pratico la portata della innovazione introdotta.

 

Gli artt. 2447 bis e seguenti del codice civile, introdotti col Decreto Legislativo 6/2003, nell’ambito della disciplina della società per azioni, hanno determinato la previsione dell’istituto dei patrimoni destinati ad uno specifico affare .

La suddetta figura presenta degli indubbi elementi di collegamento con la categoria dei “patrimoni di destinazione”, ossia con quegli istituti, quali il fondo patrimoniale (artt. 167 e ss.) e le eredità giacenti (artt. 528 e ss.) o beneficiate (art. 490), che si caratterizzano per l’esistenza di una segregazione patrimoniale con conseguente limitazione della responsabilità.

Già da diverso tempo, accanto a questi istituti sono sorte alcune fattispecie normative, si parva licet componere magnis, raffrontabili al fenomeno dei patrimoni destinati con riguardo all’applicazione della tecnica della separazione patrimoniale: il riferimento è in particolare alla disciplina dei fondi pensione ed alla cartolarizzazione dei crediti e degli immobili pubblici; secondo taluna dottrina, inoltre, la stessa possibilità di costituire una società a responsabilità limitata unipersonale rappresenta una ipotesi di segregazione patrimoniale.

Da quanto detto è possibile desumere che dal punto di vista strettamente giuridico-dogmatico non ci troviamo di fronte ad un fenomeno assolutamente nuovo, pur se nelle forme e nel contenuto vi sono degli aspetti fortemente innovativi.

Con riguardo al processo di separazione patrimoniale, ai fini di una giustificazione teorica dell’istituto, va richiamata la disciplina codicistica.

Con gli artt. 2740 e 2741 c.c., il legislatore ha affermato, infatti, il principio secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazione con tutti i suoi bene presenti e futuri, salve espresse limitazioni previste dalla legge. È insita in tale disciplina una sorta di tipicità delle ipotesi limitative della responsabilità patrimoniale del debitore. A ciò si aggiunga che il termine debitore è genericamente inteso in dottrina e giurisprudenza come idoneo a ricomprendere qualsiasi ente dotato di personalità giuridica, comprese le persone giuridiche e, conseguentemente le società.

In considerazione di quanto detto, e dunque nel pieno rispetto del dato normativo appena citato, il legislatore, con la riforma del diritto societario, ha delineato una disciplina volta a garantire alle società azionarie la possibilità di destinare alcuni beni del proprio patrimonio (art. 2447 bis, comma 1, lettera a) o i proventi di un finanziamento (art. 2447 bis, comma 1, lettera b) al compimento di affari specifici e determinati, attraverso la costituzione di un patrimonio separato suscettibile di essere aggredito soltanto da taluni creditori. In tal modo si è creato un fenomeno definito, da taluna dottrina, quale “scissione endosocietaria” realizzandosi un modello sostanzialmente diverso rispetto alla tradizionale scissione parziale la quale si caratterizza per il distacco di una parte del patrimonio sociale per costituire una diversa società.

Accanto alla creazione del patrimonio separato, è stata prevista la possibilità che si destinino finanziamenti esterni al soddisfacimento di “specifici affari”, con la differenza, rispetto alla prima figura, costituita unilateralmente, che qui si concretizza una vera e propria struttura contrattuale, che presuppone cioè l’intervento di un’altra parte.

Da quanto detto emerge che l’oggetto della presente analisi contiene elementi di indubbio interesse teorico, che senz’altro troveranno nelle concrete applicazioni un ‹‹banco di prova›› che ci permetterà di meglio approfondire gli aspetti problematici già fonti di dibattiti dottrinali.

Tuttavia, in assenza di una verifica sul terreno della portata della tematica in esame e, conseguentemente, delle correlate questioni concrete, la dottrina ha cercato in primo luogo di svolgere un’opera di inquadramento e di analisi strutturale della disciplina, analizzando il dato normativo; in secondo luogo, ha affrontato, in chiave prospettica, il possibile atteggiarsi pratico del ricorso agli strumenti introdotti con gli artt. 2247 bis, e ss., e le connesse possibili applicazioni per le singole realtà societarie.

Ponendo a questo punto l’attenzione sul dato normativo, premesso che, come detto, il legislatore ha disciplinato due differenti fattispecie (i patrimoni destinati ed i finanziamenti destinati) si rende necessaria l’individuazione dei punti cardine della disciplina e ciò con particolare riferimento ai requisiti per la costituzione del patrimonio destinato, alla sua struttura, alle modalità della sua istituzione ed alla fase di amministrazione.

Con riguardo al primo di questi aspetti, ossia i requisiti per la costituzione, vanno richiamati, in particolare, gli artt. 2447 bis e ter: Da questi ultimi si desume che la società può destinare parte del proprio patrimonio al compimento di un singolo affare e che la deliberazione costituiva deve indicare quale sia l’affare in oggetto ed il rapporto di congruità col patrimonio per la sua realizzazione.

La terminologia utilizzata dal legislatore, ossia “singolo affare”, etichettata come atecnica da buona parte della dottrina, va intesa come insieme di operazioni funzionalmente collegate con l’unico limite del doveroso collegamento con l’oggetto sociale, fatti salvi specifici divieti previsti da leggi speciali. Alla luce della costante interpretazione del concetto d’affare previsto dall’art. 2549, si tende ad escludere che possa farsi coincidere con la complessiva attività della società, ritenendosi preferibile il riferimento alla attività di un ramo della società stessa.

Con riguardo alla congruità, si discute sia sulla possibilità di operare una valutazione che superi i rilievi meramente formali del rispetto del piano economico-finanziario, sia sugli effetti della sua mancanza; su quest’ultimo punto è prevalente l’orientamento che configura soltanto una responsabilità della società verso i creditori che hanno fatto affidamento sulla garanzia offerta dall’intero patrimonio societario.

Dall’art. 2247 ter si desume anche la possibilità che si destinino al singolo affare precisi rapporti giuridici.

Restando nell’ambito oggettivo, va rilevato che la normativa in esame circoscrive quantitativamente la possibilità di usufruire del suddetto fenomeno di destinazione patrimoniale: non possono, infatti, essere costituiti patrimoni destinati che abbiano un valore complessivo che superi del 10 % quello netto della società (art. 2247 bis, comma 2). La ratio di questo limite (non previsto nella legge delega) è prevalentemente da individuare nell’esigenza di garantire i creditori sulla capacità della società di produrre reddito: questi ultimi possono così essere privati solo in minima parte del patrimonio su cui essere garantiti.

Dal dato normativo rileva, inoltre, che il valore del 10 % va riferito solo al momento della costituzione della separazione patrimoniale, nulla rilevando eventuali successivi mutamenti di valore dello stesso.

Passando ad analizzare la struttura del patrimonio destinato, si nota che si aprono le porte per il superamento della passata prassi della costituzione di società collegate e volte al soddisfacimento di determinati interessi della società di riferimento. La prima ipotesi prevista dal legislatore nella relazione che accompagna il D.lgs. 6/03 viene infatti definita come uno strumento che equivale “alla costituzione di una nuova società, col vantaggio della eliminazione dei costi di costituzione, mantenimento ed estinzione della stessa”. Anche con riguardo alla possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi all’affare, resta sempre fermo il carattere unitario della società e la connessa amministrazione attraverso gli organi amministrativi della società.

Taluna dottrina, nell’analizzare il suddetto fenomeno, è arrivata a sostenere che ci troviamo di fronte ad una “forma evoluta” del modello della associazione in partecipazione; ciò che è certo è che si è di fronte ad un sistema nel quale debbono essere bilanciati diversi interessi ed in particolare il legislatore si è posto il duplice problema di garantire gli interessi dei creditori e di salvaguardare al contempo l’elemento finalistico del patrimonio separato.

A tal fine è sorta la necessità di una disciplina volta a regolare la contabilità separata, il bilancio, la pubblicità, la congruità, i controlli dell’andamento dell’affare; ciò, comunque, alla luce di un legame genetico con la società e, come emerge nella citata relazione, senza, creare un nuovo apparato societario.

Con riguardo alla fase costitutiva, va anzitutto detto che il patrimonio destinato nasce in seguito ad una espressa deliberazione dal Consiglio di Amministrazione (in presenza del sistema monastico) o dal Consiglio di gestione (nell’ipotesi di amministrazione dualistica) assunta a maggioranza assoluta. È fatta salva la possibilità di prevedere una diversa competenza in ordine alla costituzione o una diversa maggioranza.

In ogni caso la delibera è soggetta a pubblicità presso il Registro delle Imprese ai sensi dell’art. 2436 c.c.; una parte della dottrina ha ritenuto, inoltre, necessaria la redazione per atto pubblico.

Il patrimonio destinato è soggetto di una gestione distinta da quella della società; in conseguenza di ciò i beni che ne fanno parte devono essere separatamente indicati nell’attivo dello stato patrimoniale (art. 2447-septies); con riguardo allo stato passivo è prevista l’indicazione sia dei debiti nascenti dalla separata gestione sia il patrimonio destinato in quanto tale.

Il legislatore ha inoltre previsto che per ciascun patrimonio destinato, gli amministratori siano obbligati a tenere il libro giornale e quello degli inventari.

Una volta realizzato l’affare, si dovrà procedere, in seguito ad una deliberazione dell’organo amministrativo, alla pubblicizzazione del rendiconto finale, e ciò financo nell’ipotesi in cui l’affare non si sia potuto realizzare o ne sia divenuta impossibile la realizzazione.

Nel caso in cui il suddetto rendiconto finale non sia accompagnato da una integrale soddisfazione delle obbligazioni contratte ai sensi degli artt. 2447 bis e seguenti, è possibile per i creditori chiedere la messa in liquidazione, entro tre mesi, ed ai sensi dell’art. 2447 novies.

La separazione diviene efficace dopo due mesi dal deposito della deliberazione presso il Registro delle Imprese, ove non sia intervenuta l’opposizione dei creditori della società, ai sensi dell’art. 2447 quater, comma 2.

Quanto alla fase di amministrazione del patrimonio separato, come è emerso nella individuazione dei punti precedenti, l’atto costitutivo deve presentare i caratteri essenziali dell’operazione deliberata. La disciplina normativa consente, tuttavia, la possibilità di successive deliberazioni volte a precisare o a completare quanto previsto con la costituzione.

Il potere gestorio è comunque fortemente limitato con riguardo all’oggetto dell’operazione, consistente nell’affare debitamente specificato, mentre restano salvi possibili interventi volti a regolamentare la fase esecutiva più propriamente esecutiva.

Quanto ai finanziamenti destinati, la separazione ha in tal caso ad oggetto esclusivamente i proventi di un determinato affare, finalizzati al finanziamento dell’impresa.

Anche in tal caso è previsto un regime di opponibilità del vincolo ai creditori sociali subordinato sia al deposito del contratto di finanziamento presso il registro delle imprese e sia da un sistema di contabilità che tenga conto del fatto che i suddetti finanziamenti restano separati dal patrimonio sociale.

In tale contesto, i finanziatori dell’affare assumono la posizione di veri e propri creditori che possono soddisfarsi esclusivamente sui proventi dell’operazione.

Le novità introdotte con gli artt. 2247 bis e seguenti, impongono un tentativo di inquadramento dei possibili effetti nel contesto del diritto societario, soprattutto in chiave problematica.

Sotto il profilo funzionale i risultati che si intendono perseguire con l’adozione del nuovo istituto sono dati dalla limitazione della responsabilità patrimoniale e nella creazione di garanzie specifiche per raggiungere determinati finalità della società.

Un elemento che può tornare utile a questo fine è senz’altro dato dalla motivazione ufficiale, che ha accompagnato la suddetta riforma, nella quale si legge che la normativa in questione è finalizzata a:

1.      rendere superflui accorgimenti costosi e poco trasparenti, che già vengono usati nella pratica, come la costituzione di società ad hoc anche per un singolo affare;

2.      rendere possibile una più concreta tutela per coloro che intervengono nel finanziamento dell’affare, i quali vengono resi consapevoli delle sue caratteristiche e si trovano in una situazione ove il loro rischio è circoscritto agli esiti economici dell’affare stesso.

Quanto al primo punto, non sono mancate delle critiche su vari livelli; pur se generalmente si conviene sulla validità dello strumento del patrimonio destinato per soddisfare singoli affari, la complessa articolazione interna (specialità della rendicontazione, tenuta separata dei libri e delle scritture contabili…) della struttura patrimoniale potrebbe incidere negativamente su un operazione di tal tipo.

A ciò si aggiunga che il limite quantitativo del 10 % del patrimonio, previsto nel secondo comma dell’art. 2447 bis, porta ad un incidenza minima, sull’assetto societario, della destinazione patrimoniale, limitandosi fortemente la correlata possibilità di dar vita a strutture multidimensionali omogenee e separate.

Il legislatore ha inteso, attraverso la suddetta disciplina, porre in essere un argine al fenomeno della costituzione di società costituite ad hoc per realizzare determinati affari e legate da un rapporto di controllata a controllante.

La possibilità che il consiglio di amministrazione o di gestione determini l’attivazione del procedimento di segregazione patrimoniale è da alcuni visto, tuttavia, come idoneo a ledere i diritti dei soci, che restano inermi di fronte ad un’operazione di tal tipo.

Quanto al finanziamento dei soci, le prospettive sono in linea di massima positive, facilitandosi l’accesso al credito attraverso la previsione di una forte garanzia data dal fatto che il rischio è “circoscritto agli esiti economici dell’affare stesso”.

Il peso del suddetto strumento nella realtà societaria sarà valutabile solo tra qualche anno; in dottrina è generalmente presente un certo ottimismo sulla possibilità che i suddetti strumenti possano determinare importanti opportunità per le società pur se all’interno di limiti (soprattutto quantitativi) che rischiano di marginalizzare su un piano pratico la portata della innovazione introdotta.