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Il danno da cose in custodia e la c.d. insidia stradale

Le ipotesi speciali di responsabilità extracontrattuale rappresentano il segno tangibile del passaggio del sistema civilistico da una funzione tipicamente sanzionatoria, in quanto tesa a “punire” l’autore del danno e basata sull’idea dell’irrinunciabilità della colpa, ad una essenzialmente riparatoria.

In effetti dalla lettura delle singole fattispecie codicistiche si evince il ripudio della concezione unitaria dell’illecito aquiliano, dovuto soprattutto alla complessità dei rapporti intercorrenti nella c.d. società industriale e al diffondersi dei cc.dd. danni anonimi.

Ciò favorisce un lento ma inesorabile spostamento della prospettiva di analisi dell’interprete dalla posizione del danneggiante a quella del danneggiato.

La stessa rubrica del Titolo IX del codice civile non si riferisce più ad un unico fatto illecito bensì ad una pluralità di fatti illeciti, così sconfessando il ricorso alla vecchia massima “nessuna responsabilità senza colpa”.

Di conseguenza, il risarcimento del danno, storicamente percepito come sanzione a carico del danneggiante per violazione di un atipico dovere extracontrattuale di neminem laedere, viene ora concepito piuttosto come mezzo di riparazione di un danno ingiusto.

Non esisterebbe più, quindi, una sola regola di imputazione fondata sulla colpa, ma più criteri di addebito, speciali ma non eccezionali e derogatori, ispirati di volta in volta alla responsabilità oggettiva, semioggettiva, presunta o per fatto altrui.

Può essere responsabile anche un soggetto non colpevole nei casi in cui ciò sia ritenuto più equo dall’ordinamento che opera delle scelte, alternative alla colpa, finalizzate alla traslazione del rischio proprio di determinate attività sull’autore materiale dell’illecito per ragioni di giustizia sostanziale.

In particolare, l’art. 2051 c.c. prevede che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

In questa disposizione una valutazione del soggetto a cui il danno viene imputato si rende necessaria non già per fondare la sua responsabilità, ma per escluderla in via di eccezione.

Il nucleo essenziale della fattispecie in esame è rappresentato dalle nozioni di cosa e di custode.

La prima si riferisce alla natura intrinseca della res e all’insorgenza in essa di agenti dannosi, non a causa della condotta attiva od omissiva della persona che la detenga, come avviene, invece, nell’ipotesi di cui all’art. 2050 c.c.

Inoltre la cosa in relazione alla quale scaturisce l’obbligo di custodia può essere rappresentata da un bene mobile o immobile, tenendo conto, però, dei necessari coordinamenti con l’art. 2054, co. 4, c.c. e l’art. 2053 c.c.

La nozione di custode, invece, rimanda ad una relazione qualificata con la cosa di un soggetto, che abbia un potere fisico, effettivo e non occasionale, a qualsiasi titolo esercitato, sulla stessa ed una disponibilità piena ed esclusiva della res.

Il legislatore, per l’individuazione del responsabile, si riferisce non al comportamento in concreto tenuto dalla persona, ma alla posizione della stessa rispetto alle cose che costituiscono fonte di danno.

Nella fattispecie in oggetto assume rilievo solo lo stato di fatto e non l’obbligo di custodia; il profilo della condotta dell’individuo è di per sé estraneo alla struttura della norma, né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza.

Il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene alle modalità di causazione del danno.

Si deve, pertanto, ritenere che in tale tipo di responsabilità la rilevanza del fortuito riguarda il profilo causale in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Quindi, mentre graverà sul danneggiato l’onere di fornire prova del nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della condizione potenzialmente pericolosa del bene, sarà onere del custode indicare e provare la causa del danno esterna alla sua sfera d’azione.

Una parte della dottrina ed una pressoché costante giurisprudenza sino al 1998 ritenevano che l’art. 2051 c.c. ponesse a carico del custode una presunzione iuris tantum di colpa, con la conseguenza che la prova liberatoria potesse dirsi raggiunta anche attraverso la prova della condotta diligente del custode.

In tal modo si escludeva che la causa ignota rimanesse a carico del detentore della cosa, ove quest’ultimo fosse riuscito a dimostrare l’assenza di negligenza, in quanto la prova del fortuito atteneva al profilo della mancanza di colpa.

Secondo la teoria attualmente prevalente seguita tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si tratta, invece, di una vera e propria fattispecie di responsabilità oggettiva del custode, avvalorata dall’inversione probatoria a carico del soggetto che si trova in una relazione qualificata con la cosa in deroga alla regola generale stabilità dall’art. 2043 c.c.

In sostanza, l’art. 2051 c.c., muovendosi in una prospettiva vittimologia, allevia la posizione del danneggiato ponendo a carico del danneggiato l’onere di liberarsi dalla responsabilità attraverso la prova del fortuito.

Tale onus probandi è giustificato dal fatto che il custode non solo gode dei vantaggi derivanti dalla cosa, ma si trova anche in una posizione di vicinanza tale alla res tale da poter controllare l’iter causativo dell’evento.

Inoltre l’assenza nell’art. 2051 c.c. di formule che richiamino l’osservanza di un comportamento diligente certifica la previsione di una responsabilità oggettiva da parte del legislatore.

Da ciò possiamo dedurre che la prova liberatoria attiene ad un fattore esterno all’intrinseca natura della cosa, che può essere la forza maggiore irresistibile, il fatto del terzo che si appropri della res o l’uso imprudente della stessa da parte del danneggiato, a causa del quale venga reciso il nesso eziologico con l’evento dannoso.

La veste di custode responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c. può essere assunta anche dalla pubblica amministrazione.

E’ pacifico che non rilevi il titolo giuridico vantato sulla res, ma l’effettivo esercizio del potere di signoria, dovendo rispondere il soggetto che si trovava nella custodia di fatto ed effettiva al momento del verificarsi dell’evento dannoso.

Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 2051 c.c. è applicabile alla manutenzione delle strade pubbliche in quanto la notevole estensione della strada ed il suo uso generale da parte dei terzi sono considerati meri indici sintomatici, solo in astratto, dell’esclusione del potere di controllo e di vigilanza sui beni demaniali.

In passato, invece, un indirizzo giurisprudenziale riteneva che l’art. 2051 c.c. non fosse attuabile per i beni nella custodia della pubblica amministrazione data la loro estensione e dimensione incompatibile con un’attività di monitoraggio idonea ad evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo.

Questo automatismo interpretativo basato sulla natura demaniale del bene e su una presunzione ancorata alla qualità della res deve essere sostituito da un accertamento in concreto da parte dell’interprete.

Il giudice è tenuto a valutare, in base agli elementi acquisiti al processo, se la situazione di fatto, che la cosa è venuta a presentare e nel cui ambito ha avuto origine l’evento produttivo del danno, sia riconducibile alla custodia dell’ente pubblico.

Una volta che questo accertamento dia esito positivo, la disciplina applicabile è quella di cui all’art. 2051 c.c. dato che in tali circostanze sussiste il potere di controllare la cosa, di modificare la situazione di pericolo verificatasi e di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla res nel momento in cui si è prodotto il danno.

Alla luce delle considerazioni che precedono va, dunque, affermato il principio che la presunzione di responsabilità sia attuabile nei confronti dei Comuni, quali proprietari delle strade del demanio, pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire il verificarsi di cause di pericolo per i terzi.

Ove non sussistano tali presupposti di fatto per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni subiti dall’utente secondo la regola generale ex art. 2043 c.c.

Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione ex art. 2051 c.c. quanto in caso di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento del soggetto danneggiato nell’uso del bene demaniale esclude la responsabilità dell’ente pubblico, se è idoneo ad interrompere il nesso eziologico fra la causa del danno e l’evento stesso, integrando altrimenti un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227, co. 1, c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale della condotta del danneggiato.

Lo stesso iter ermeneutico va seguito nel caso della responsabilità della pubblica amministrazione per c.d. insidia o trabocchetto stradale.

Rientrano in questa figura di creazione giurisprudenziale tutti quei fatti storici caratterizzati da una situazione per l’utente di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile e, quindi, non evitabile con l’ordinaria diligenza.

Tale elemento sintomatico dell’attività colposa della pubblica amministrazione viene assunto ad indice tassativo ed ineludibile della responsabilità dell’ente pubblico e ricondotto ad elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, con un conseguente onere probatorio più gravoso per il danneggiato.

Ciò porta, però, ad un’inammissibile limitazione della responsabilità della pubblica amministrazione e ad una posizione di vantaggio rispetto al privato.

Un più recente orientamento giurisprudenziale, invece, stabilisce che chi propone domanda di risarcimento dei danni da cosa in custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c., in relazione alle condizioni di una strada, ha l’onere di dimostrare le anomalie in concreto del manto stradale e la loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di quello che si è verificato.

Secondo il suddetto nuovo indirizzo, che contribuisce a distribuire più equamente oneri e responsabilità tra le parti, è la P.A. a dover dimostrare di non aver potuto evitare un danno procurato dal caso fortuito.

Tale conclusione ermeneutica costituisce una valida alternativa alla tesi in precedenza dominante e non richiede la prova dei presupposti della notevole estensione del bene o dell’insidia, tipici dell’impostazione ex art. 2043 c. c., per potersi affermare la responsabilità dell’ente pubblico.

Le ipotesi speciali di responsabilità extracontrattuale rappresentano il segno tangibile del passaggio del sistema civilistico da una funzione tipicamente sanzionatoria, in quanto tesa a “punire” l’autore del danno e basata sull’idea dell’irrinunciabilità della colpa, ad una essenzialmente riparatoria.

In effetti dalla lettura delle singole fattispecie codicistiche si evince il ripudio della concezione unitaria dell’illecito aquiliano, dovuto soprattutto alla complessità dei rapporti intercorrenti nella c.d. società industriale e al diffondersi dei cc.dd. danni anonimi.

Ciò favorisce un lento ma inesorabile spostamento della prospettiva di analisi dell’interprete dalla posizione del danneggiante a quella del danneggiato.

La stessa rubrica del Titolo IX del codice civile non si riferisce più ad un unico fatto illecito bensì ad una pluralità di fatti illeciti, così sconfessando il ricorso alla vecchia massima “nessuna responsabilità senza colpa”.

Di conseguenza, il risarcimento del danno, storicamente percepito come sanzione a carico del danneggiante per violazione di un atipico dovere extracontrattuale di neminem laedere, viene ora concepito piuttosto come mezzo di riparazione di un danno ingiusto.

Non esisterebbe più, quindi, una sola regola di imputazione fondata sulla colpa, ma più criteri di addebito, speciali ma non eccezionali e derogatori, ispirati di volta in volta alla responsabilità oggettiva, semioggettiva, presunta o per fatto altrui.

Può essere responsabile anche un soggetto non colpevole nei casi in cui ciò sia ritenuto più equo dall’ordinamento che opera delle scelte, alternative alla colpa, finalizzate alla traslazione del rischio proprio di determinate attività sull’autore materiale dell’illecito per ragioni di giustizia sostanziale.

In particolare, l’art. 2051 c.c. prevede che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

In questa disposizione una valutazione del soggetto a cui il danno viene imputato si rende necessaria non già per fondare la sua responsabilità, ma per escluderla in via di eccezione.

Il nucleo essenziale della fattispecie in esame è rappresentato dalle nozioni di cosa e di custode.

La prima si riferisce alla natura intrinseca della res e all’insorgenza in essa di agenti dannosi, non a causa della condotta attiva od omissiva della persona che la detenga, come avviene, invece, nell’ipotesi di cui all’art. 2050 c.c.

Inoltre la cosa in relazione alla quale scaturisce l’obbligo di custodia può essere rappresentata da un bene mobile o immobile, tenendo conto, però, dei necessari coordinamenti con l’art. 2054, co. 4, c.c. e l’art. 2053 c.c.

La nozione di custode, invece, rimanda ad una relazione qualificata con la cosa di un soggetto, che abbia un potere fisico, effettivo e non occasionale, a qualsiasi titolo esercitato, sulla stessa ed una disponibilità piena ed esclusiva della res.

Il legislatore, per l’individuazione del responsabile, si riferisce non al comportamento in concreto tenuto dalla persona, ma alla posizione della stessa rispetto alle cose che costituiscono fonte di danno.

Nella fattispecie in oggetto assume rilievo solo lo stato di fatto e non l’obbligo di custodia; il profilo della condotta dell’individuo è di per sé estraneo alla struttura della norma, né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza.

Il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene alle modalità di causazione del danno.

Si deve, pertanto, ritenere che in tale tipo di responsabilità la rilevanza del fortuito riguarda il profilo causale in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Quindi, mentre graverà sul danneggiato l’onere di fornire prova del nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della condizione potenzialmente pericolosa del bene, sarà onere del custode indicare e provare la causa del danno esterna alla sua sfera d’azione.

Una parte della dottrina ed una pressoché costante giurisprudenza sino al 1998 ritenevano che l’art. 2051 c.c. ponesse a carico del custode una presunzione iuris tantum di colpa, con la conseguenza che la prova liberatoria potesse dirsi raggiunta anche attraverso la prova della condotta diligente del custode.

In tal modo si escludeva che la causa ignota rimanesse a carico del detentore della cosa, ove quest’ultimo fosse riuscito a dimostrare l’assenza di negligenza, in quanto la prova del fortuito atteneva al profilo della mancanza di colpa.

Secondo la teoria attualmente prevalente seguita tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si tratta, invece, di una vera e propria fattispecie di responsabilità oggettiva del custode, avvalorata dall’inversione probatoria a carico del soggetto che si trova in una relazione qualificata con la cosa in deroga alla regola generale stabilità dall’art. 2043 c.c.

In sostanza, l’art. 2051 c.c., muovendosi in una prospettiva vittimologia, allevia la posizione del danneggiato ponendo a carico del danneggiato l’onere di liberarsi dalla responsabilità attraverso la prova del fortuito.

Tale onus probandi è giustificato dal fatto che il custode non solo gode dei vantaggi derivanti dalla cosa, ma si trova anche in una posizione di vicinanza tale alla res tale da poter controllare l’iter causativo dell’evento.

Inoltre l’assenza nell’art. 2051 c.c. di formule che richiamino l’osservanza di un comportamento diligente certifica la previsione di una responsabilità oggettiva da parte del legislatore.

Da ciò possiamo dedurre che la prova liberatoria attiene ad un fattore esterno all’intrinseca natura della cosa, che può essere la forza maggiore irresistibile, il fatto del terzo che si appropri della res o l’uso imprudente della stessa da parte del danneggiato, a causa del quale venga reciso il nesso eziologico con l’evento dannoso.

La veste di custode responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c. può essere assunta anche dalla pubblica amministrazione.

E’ pacifico che non rilevi il titolo giuridico vantato sulla res, ma l’effettivo esercizio del potere di signoria, dovendo rispondere il soggetto che si trovava nella custodia di fatto ed effettiva al momento del verificarsi dell’evento dannoso.

Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 2051 c.c. è applicabile alla manutenzione delle strade pubbliche in quanto la notevole estensione della strada ed il suo uso generale da parte dei terzi sono considerati meri indici sintomatici, solo in astratto, dell’esclusione del potere di controllo e di vigilanza sui beni demaniali.

In passato, invece, un indirizzo giurisprudenziale riteneva che l’art. 2051 c.c. non fosse attuabile per i beni nella custodia della pubblica amministrazione data la loro estensione e dimensione incompatibile con un’attività di monitoraggio idonea ad evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo.

Questo automatismo interpretativo basato sulla natura demaniale del bene e su una presunzione ancorata alla qualità della res deve essere sostituito da un accertamento in concreto da parte dell’interprete.

Il giudice è tenuto a valutare, in base agli elementi acquisiti al processo, se la situazione di fatto, che la cosa è venuta a presentare e nel cui ambito ha avuto origine l’evento produttivo del danno, sia riconducibile alla custodia dell’ente pubblico.

Una volta che questo accertamento dia esito positivo, la disciplina applicabile è quella di cui all’art. 2051 c.c. dato che in tali circostanze sussiste il potere di controllare la cosa, di modificare la situazione di pericolo verificatasi e di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla res nel momento in cui si è prodotto il danno.

Alla luce delle considerazioni che precedono va, dunque, affermato il principio che la presunzione di responsabilità sia attuabile nei confronti dei Comuni, quali proprietari delle strade del demanio, pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire il verificarsi di cause di pericolo per i terzi.

Ove non sussistano tali presupposti di fatto per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni subiti dall’utente secondo la regola generale ex art. 2043 c.c.

Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione ex art. 2051 c.c. quanto in caso di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento del soggetto danneggiato nell’uso del bene demaniale esclude la responsabilità dell’ente pubblico, se è idoneo ad interrompere il nesso eziologico fra la causa del danno e l’evento stesso, integrando altrimenti un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227, co. 1, c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale della condotta del danneggiato.

Lo stesso iter ermeneutico va seguito nel caso della responsabilità della pubblica amministrazione per c.d. insidia o trabocchetto stradale.

Rientrano in questa figura di creazione giurisprudenziale tutti quei fatti storici caratterizzati da una situazione per l’utente di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile e, quindi, non evitabile con l’ordinaria diligenza.

Tale elemento sintomatico dell’attività colposa della pubblica amministrazione viene assunto ad indice tassativo ed ineludibile della responsabilità dell’ente pubblico e ricondotto ad elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, con un conseguente onere probatorio più gravoso per il danneggiato.

Ciò porta, però, ad un’inammissibile limitazione della responsabilità della pubblica amministrazione e ad una posizione di vantaggio rispetto al privato.

Un più recente orientamento giurisprudenziale, invece, stabilisce che chi propone domanda di risarcimento dei danni da cosa in custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c., in relazione alle condizioni di una strada, ha l’onere di dimostrare le anomalie in concreto del manto stradale e la loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di quello che si è verificato.

Secondo il suddetto nuovo indirizzo, che contribuisce a distribuire più equamente oneri e responsabilità tra le parti, è la P.A. a dover dimostrare di non aver potuto evitare un danno procurato dal caso fortuito.

Tale conclusione ermeneutica costituisce una valida alternativa alla tesi in precedenza dominante e non richiede la prova dei presupposti della notevole estensione del bene o dell’insidia, tipici dell’impostazione ex art. 2043 c. c., per potersi affermare la responsabilità dell’ente pubblico.