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Il "nuovo diritto "alla privacy. Dalla Carta di Nizza al "Codice in materia di protezione dei dati personali"

INDICE:

1. Introduzione: dal diritto alla riservatezza al diritto alla privacy;

2. Il diritto alla privacy come "nuovo diritto": il ruolo delle fonti comunitarie e internazionali, e la natura giuridica di diritto costituzionale;

3. Spunti di riflessione per il futuro.

1. Introduzione: dal diritto alla riservatezza al diritto alla privacy

Da quando, negli anni sessanta, la letteratura giuridica ha cominciato ad interessarsi del tema, la formula linguistica "diritto di essere lasciati soli" è stata interpretata come evocativa di un diritto concepito, inizialmente, come strumento per fornire tutela ad una duplice, elementare esigenza individuale: da un lato, la protezione della sfera privata dall’altrui curiosità (P. Rescigno), e dall’altrui interesse a conoscere (A. Cataudella); dall’altro, il "controllo" del flusso delle informazioni in uscita dalla sfera privata verso l’esterno (S. Rodotà). Così inteso, il diritto alla riservatezza non ha sollevato particolari problemi di tutela, potendosi agevolmente collocare entro l’ombrello protettivo offerto dagli articoli 13, 14, 15 e 21 della Costituzione, nell’ambito del più ampio riconoscimento accordato ai diritti inviolabili dell’uomo dall’articolo 2. E in effetti, se la tutela della libertà personale sembrava idonea ad impedire ingerenze nella sfera fisica e psicologica individuale, la previsione della segretezza e dell’inviolabilità del domicilio e della corrispondenza concorrevano a loro volta a cautelare l’individuo da intromissioni nella sfera privata che potevano essere perpetrate solo attraverso invasioni realizzate fisicamente, laddove la tutela della libertà di manifestazione del pensiero forniva giuridico fondamento alla pretesa di non rendere noto a terzi quanto intimamente connesso al proprio modo d’essere.

Già a metà degli anni ottanta, peraltro, la nozione di riservatezza non coincide più al suesposto concetto di riserbo dell’intimità domestica, del decoro e della reputazione, venendo ad abbracciare tutte quelle situazioni e vicende legate alla vita privata (personale e familiare), prive di rilevanza sociale. Tant’è vero che secondo l’accezione accolta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.2199 del 1975, il diritto alla riservatezza si identifica con l’interesse a sottrarre alla conoscenza altrui le vicende private, verificatesi dentro e fuori del domicilio domestico, che non abbiano per i terzi un interesse socialmente rilevante. Ed è proprio in tale significato che anche la Corte costituzionale, nella sentenza n.38 del 1973, annovera la fattispecie nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo.

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, e il ricorso, sempre più massiccio, all’utilizzo di trattamenti, specie automatizzati, di dati di carattere personale, le esigenze connesse alla riservatezza mutano, tuttavia, ulteriormente, espandendosi in maniera significativa. Dato di fondo del nuovo contesto è l’inserimento dell’individuo nella società "globale", nella quale la stragrande maggioranza delle azioni compiute e delle scelte individuali lasciano una "traccia" che ne consente la mappatura e con essa la ricostruzione dell’identikit della persona. In tale situazione, la tutela del domicilio è totalmente inidonea a garantire la riservatezza individuale, dal momento che le informazioni "in uscita" non sono solamente quelle acquisite attraverso l’accesso al luogo in cui si manifesta più immediatamente la personalità, né diramate consapevolmente attraverso i mezzi di comunicazione del pensiero, bensì, fornite inconsapevolmente attraverso i dati personali seminati nell’ambiente, i quali, acquisiti e catalogati, permettono di ricostruire con precisione la personalità del singolo, violandone la segretezza.

Nella moderna società dell’informazione, si fa strada l’esigenza che la raccolta organizzata delle informazioni personali disseminate nell’ambiente non avvenga all’insaputa dell’interessato, e non si presti ad utilizzi lesivi dei diritti e della dignità della persona. Nello stesso tempo, data l’impossibilità di contrarre le informazioni in uscita, si percepisce come fondamentale il potere di selezione delle comunicazioni in entrata, cioè l’interesse ad "ammettere alla propria sfera di attenzione solo ciò che se ne ritiene degno" (c.d. diritto individuale alla quiete).

E’ proprio alla luce di queste esigenze che si comincia a parlare di "privacy", alludendosi con tale espressione ad una sorta di diritto comprensivo, oltre che dei tradizionali aspetti connessi alla "riservatezza", anche del "potere di controllo sulla circolazione delle proprie informazioni personali" (S.Rodotà), e del complementare "diritto di essere lasciati in pace" (P. Zatti), inteso come esigenza di protezione del singolo dai tentativi di contatto realizzati da terzi secondo particolari modalità (connesse all’uso delle nuove tecnologie), e tendenzialmente per fini di carattere commerciale.

Ebbene, il fondamento normativo di tale situazione giuridica soggettiva è da rinvenirsi, secondo diffusa e condivisa opinione, nell’art.8, comma 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ai sensi del quale "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza". E’ sulla base di tale previsione che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti determinato, e progressivamente ampliato, il significato da ascrivere ai concetti di <vita privata> e <corrispondenza> (ss. Malone c.Regno Unito, 2 agosto 1984 (corte plenaria) serie A n.82; Leander c.Svezia, 26 marzo 1987, serie A n.116; Gaskin c. Regno Unito, 7 luglio 1989, corte plenaria, serie A n.160; Z. c. Finlandia, 25 febbraio 1997), gettando le basi della positivizzazione di un diritto al controllo consapevole su ogni forma di circolazione delle proprie informazioni personali (come effettivamente definita dal Consiglio di Stato, sez.V, nella s.7 settembre 2004 n.5873, che parla di "massimizzazione della circolazione informativa").

Nozione in effetti esplicitamente elaborata, nell’ambito del Consiglio d’Europa, dalla Convenzione n.108 del 1981 (c.d. Convenzione di Strasburgo), che reca un’articolata enunciazione di principi a cui dovrebbero (o almeno, avrebbero dovuto) conformarsi le varie legislazioni nazionali, in modo da assicurare il rispetto del diritto alla privacy degli individui nei confronti di ogni elaborazione automatizzata di dati concernenti soggetti identificati o identificabili. E ribadita in una cospicua serie di provvedimenti comunitari, quali le direttive 95/46/Ce (relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati), 97/66/Ce ( sul trattamento dei dati personali e sulla tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni), e 2002/58/Ce (relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche), che appunto sanciscono definitivamente l’esistenza di un "diritto alla protezione dei dati di carattere personale" distinto e autonomo dal "diritto alla riservatezza".

Distinzione confermata, infine, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che reca nel capo secondo, dedicato ai diritti di libertà, l’esplicito riconoscimento del diritto alla protezione dei dati di carattere personale (art.8, c.1), distinguendolo tanto dal diritto di ogni individuo al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni (sancito all’art.7), quanto dal chiarimento posto dall’art.11, a mente del quale la libertà di espressione e d’informazione include la libertà di opinione e la libertà di ricevere e di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

Ad ogni buon conto, si può dire che sia proprio da tali fonti internazionali e sopranazionali europee che abbia tratto decisivo impulso la protezione giuridica della "privacy", intendendosi per tale l’esigenza personale sottesa al diritto alla riservatezza, e al diritto alla protezione dei dati di carattere personale. Quadro normativo al quale il nostro legislatore si è allineato con il decreto legislativo 30 giugno 2003 n.196, che introduce appunto nel nostro ordinamento, accanto al diritto alla riservatezza, un autonomo diritto alla protezione dei dati personali, come diritto avente ad oggetto la protezione del dato personale, a prescindere dalla tutela della sfera intima della persona e della famiglia, nonché della sua immagine sociale.

2. Il diritto alla privacy come "nuovo diritto": il ruolo delle fonti comunitarie e internazionali, e la natura giuridica di diritto costituzionale

Orbene, di fronte alla dinamica evolutiva sopra tracciata, non sembra fuor di luogo vagliare se anche al diritto alla protezione dei dati personali si attagli, nel nostro ordinamento giuridico, lo status di nuovo diritto di rango e valore costituzionale.

Le ipotesi prospettabili, sono, infatti, più d’una.

In senso negativo, potrebbe invero argomentarsi che l’inclusione tra i diritti inviolabili dell’uomo proclamata dalla Corte Costituzionale è riferita al diritto alla riservatezza concepito come diritto al riserbo sulle vicende personali prive di rilevanza sociale (ss.63/1972; 38/1973; 120/1975; 366/1991; 81/1993; 63/1994), mentre analoghe conferme non si hanno per il "diritto alla protezione dei dati di carattere personale"; laddove la considerazione di quest’ultimo, in quanto enunciato in sede comunitaria e internazionale, come "diritto costituzionale", appare a prima vista francamente eccessiva, o comunque, da sottoporre ad attenta verifica.

Dall’altro lato, e nella direzione opposta, potrebbe viceversa deporre la possibilità di interpretare in senso evolutivo le norme costituzionali, sì da giungere per questa via a ritenere che il diritto alla riservatezza vada inteso, a seguito dei più recenti sviluppi tecnologici, come diritto alla privacy, comprensivo del profilo della protezione dei dati di carattere personale.

Ancora, e nella prospettiva, diversa dalla precedente, della alterità delle due predette situazioni giuridiche soggettive, argomenti a mio avviso convincenti nella direzione dell’elevazione del "diritto alla protezione dei dati di carattere personale" a nuovo diritto di rango costituzionale, a fianco del diritto alla riservatezza, sia pure a reciproco completamento nell’ambito della nozione di privacy, possono trarsi dall’analisi delle caratteristiche essenziali delle fonti comunitarie e internazionali da cui appunto la fattispecie nasce, e dagli effetti da esse spiegate sul riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. E ciò, con particolare riguardo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che adottata congiuntamente dalle tre istituzioni comunitarie il 7 dicembre 2000, ma non inserita all’interno del Trattato di Nizza, rappresenta di fatto una fonte non assimilabile ad alcuna delle precedenti, ma ciònostante ampiamente suscettibile di influenzare gli sviluppi normativi nell’ambito territoriale dell’Unione.

Orbene, non vi è dubbio che le prospettive dalle quali muovono i vari livelli menzionati sono diverse.

In via generale, posto che il presupposto giuridico di base è che la materia dei diritti fondamentali è rimessa alla prerogativa degli Stati nazionali, si può osservare che rispetto ad essi l’ordinamento internazionale si limita a prevedere delle garanzie che sono meramente ulteriori rispetto a quelle previste dagli ordinamenti sovrani. D’altra parte, dovendo trovare un denominatore comune tra le Parti contraenti, gli standards di tutela sono normalmente meno ampi di quelli previsti dagli ordinamenti con più estese tradizioni liberaldemocratiche, per quanto, nei loro confronti, vengano posti agli Stati degli obblighi di risultato. Ad esempio, sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che il Patto sui diritti civili e politici prevedono che gli ordinamenti giuridici nazionali debbano, al loro interno, sviluppare delle procedure di tutela, in particolare giurisdizionali, e di tale adempimento risponde a livello internazionale la Parte contraente, indipendentemente dal piano (statale unitario, regionale o locale) prescelto internamente per garantire i diritti.

Rispetto a tale modello, la costruzione comunitaria si impernia invece sul giudice, che seleziona le fattispecie da tutelare e determina la misura della tutela stessa, laddove, quanto a contenuti, la protezione dei diritti fondamentali del singolo è in tale contesto tributaria tanto verso il livello internazionale, quanto verso quello nazionale. Sembra infatti doveroso ricordare che, secondo il disegno originariamente tracciato dal Trattato di Roma, non vi era posto nell’ordinamento comunitario per la tutela dei diritti fondamentali, eccezion fatta per un nucleo, ridotto, di diritti "originari", comunque previsti in funzione del mercato. E’ stata dunque la Corte di Giustizia ad innovare tale sistema, ancorando al rispetto di un corpus di diritti fondamentali, un ordinamento che non li contemplava affatto. Ciò, nei fatti, è avvenuto attraverso il ricorso ad una fonte autonoma interna all’ordinamento comunitario, ossia attraverso la categoria dei "principi generali del diritto comunitario", e l’affermazione che "i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza" (CGCE, sentenza 17 dicembre 1970, in causa C-11/70).

Tuttavia, se è vero che in tal modo i diritti fondamentali dell’uomo sono entrati a far parte del sistema comunitario - come codificato dall’art.6 TUE -, è anche vero che il monopolio della Corte di Giustizia, e successivamente anche del Tribunale di prima istanza, sull’interpretazione ed elaborazione dei dati - Costituzione degli Stati membri, e Convenzione europea dei diritti dell’uomo - suscettibili di ascriversi ai summenzionati principi generali, ha relegato la tutela dei diritti in ambito comunitario in una situazione di relativa incertezza. Attraverso la riconducibilità dei dati di riferimento ai principi generali, la Corte di giustizia ne ha infatti, sovente, manipolato il contenuto secondo le proprie esigenze, con ovvie conseguenze in termini di certezza del diritto.

Il catalogo di diritti consacrato dalla Carta di Nizza si inserisce in questo contesto operando lungo più direttrici.

In primo luogo, esso può "costituire uno strumento di interpretazione della categoria, alquanto nebulosa, delle "tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri". La Carta può dare di tale categoria un’interpretazione più "autentica", e in ogni caso più autorevole, di quella che la Corte stessa possa da sola desumere, spesso in maniera approssimativa, dalle Costituzioni degli Stati membri" (L. Rossi).

Parallelamente, se fino alla sua adozione la Corte di Lussemburgo non si è mostrata sempre allineata alla Corte di Strasburgo nell’interpretazione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non par dubbio che uno dei risultati più significativi della Carta è proprio quello di ancorare la propria interpretazione alla CEDU. L’art.52, comma 3, della prima afferma infatti che "laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione". La CEDU, nella lettura datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, diviene dunque uno standard minimo, e la Corte di Giustizia non potrà più applicarla in senso restrittivo all’interno dell’ordinamento comunitario.

Con la conseguenza, in entrambi i casi - destinata fin qui a spiegare i suoi effetti sull’ordinamento comunitario in senso stretto, ossia nei rapporti tra l’Unione, le sue istituzioni e gli individui - dell’esplicita emersione tra i diritti fondamentali dell’uomo, accanto ed oltre al diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, del diritto alla protezione dei dati di carattere personale.

Rispetto al diritto interno residuale, ossia a quello prodotto dagli Stati membri dell’Unione, e non direttamente dagli organi comunitari, la Carta, viceversa, non sembrerebbe implicare alcuna conseguenza di rilievo. L’art.51 ne limita infatti l’ambito di applicazione alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente, però, nell’attuazione del diritto dell’Unione. Posto poi che il comma 2 dello stesso articolo esclude espressamente che il catalogo di diritti ivi contenuti produca competenze nuove per l’Unione, o modifichi i compiti definiti nei Trattati, o ancora che, ai sensi dei successivi articoli 52 e 53, la Carta possa essere interpretata in maniera limitativa della tutela dei diritti e delle libertà riconosciute da altre fonti (siano esse l’ordinamento internazionale, le fonti sovranazionali europee, o le Costituzioni degli Stati membri), sembrerebbe agevole condividere la tesi dell’irrilevanza della stessa. Conclusione che parrebbe d’altra parte suffragata anche dalla semplice proclamazione, avulsa dall’inserimento nel Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001, che formalmente impedisce di attribuire alla medesima valore diverso da quello connesso ad una, sia pur estesa e condivisa, dichiarazione di principi.

Ora, però, in tale prospettiva, per quanto dal punto di vista formale la Carta sia innegabilmente uno strumento di soft law, il fatto di esprimere una serie di principi generali sembra suscettibile di produrre, dal punto di vista sostanziale, effetti giuridici di grande rilievo.

E’ ben vero, infatti, che anche i principi enunciati nella Carta sono desunti dalle pronunce giurisdizionali e affidati nelle mani degli stessi giudici, e dunque sono privi di valore giuridico immediatamente vincolante. Ciònostante, e come si è già detto, la Carta argina il potere dei giudici comunitari allorquando procedono alla loro ricostruzione. Se a ciò si aggiunge che il sistema normativo comunitario esige che i principi fondamentali siano applicati, ed implica che le pronunce dei giudici comunitari che tali principi interpretano, ed applicano, costituiscano, a loro volta, fonte di obblighi comunitari, la Carta di Nizza finisce per assumere valore vincolante pure nel nostro ordinamento giuridico, come conseguenza della sempre più massiccia opera di richiamo da parte della Corte di Giustizia della Comunità (CGCE 5 maggio 2003, in cause C-138/01, C-139/01, C-465/00; ord. 18 ottobre 2002 , in causa C-232/02 P®) e del Tribunale di prima istanza (ss.20 febbraio 2001, in causa T-112/98; 30 gennaio 2002, in causa T-54/99; 3 maggio 2002, in causa T-177/01; 27 settembre 2002, in causa T-211/02; 15 gennaio 2003, in causa T-377/00; 9 luglio 2003, in cause T-223/00 e T-224/00 ), se non altro sotto forma di ausilio interpretativo.

Di tale efficacia sembra in effetti consapevole la nostra giurisprudenza, come attestato, a prescindere dal fatto che tale scelta sia o meno condivisibile, dal ripetuto utilizzo della stessa da parte della magistratura di merito, nonché, da ultimo, anche da parte della Corte costituzionale.

Come si ricorderà, infatti, sia pure con una criticatissima decisione, la Corte d’appello di Roma ha fin dalla primavera del 2002 considerato pienamente operativo il documento in questione, ritenendolo "punto di riferimento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei" (ord. 11 aprile 2002).

La Corte Costituzionale, dal canto suo, nel ricostruire l’attuale significato dell’inviolabilità del domicilio, ha affermato che "l’ipotizzata restrizione della tipologia delle interferenze della pubblica autorità nella libertà domiciliare non troverebbe riscontro né nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art.8), né nel Patto sui diritti civili e politici (art.17); né, infine, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre del 2000 (artt.7 e 52) qui richiamata - ancorché priva di efficacia giuridica - per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei" (s. 11 aprile 2002, n.135).

Va detto che quest’ultimo passaggio della motivazione, aldilà del contributo offerto- indubbiamente più prudente e corretto del precedente - al conferimento alla Carta di un valore e un ruolo che vanno oltre il mero riconoscimento politico, sembra da sottolineare anche per un altro motivo, e cioè per l’incidenza sulla portata del (diritto) alla privacy insita in quel ribadire il carattere della Carta "espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei".

Esce rafforzata, infatti, dalle parole della Corte, l’idea - già formulata nel preambolo della Carta - che il catalogo dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non è un prodotto autonomo delle istituzioni comunitarie, ma è -per la gran parte -creditore di quanto stabilito aliunde.

Tuttavia, in quel loro essere, così come conferma il giudice delle leggi, "espressivi di principi comuni agli ordinamenti europei", la maggiore visibilità che i diritti conseguono in virtù dell’inclusione in un testo unitario, e il rafforzamento della tutela che ne consegue, non si esaurisce nei confronti delle mere istituzioni comunitarie, finendo al contrario per riflettersi anche nei confronti dei singoli ordinamenti statuali, con un effetto, sia detto per inciso, destinato a rafforzarsi in virtù dell’inserimento della Carta nel Trattato costituzionale europeo firmato a Roma il 24 ottobre 2004.

In altre parole, se prima della sua adozione potevano esservi dubbi sul rango e l’estensione di taluni diritti e libertà nell’ordinamento italiano, tali perplessità sono destinate a cadere attraverso un semplice raffronto con la Carta, in quanto questa esprime principi che appartengono sicuramente, tra gli altri, anche all’ordinamento interno.

Certo, la Corte costituzionale parla di principi, e non di regole; e si riferisce genericamente agli ordinamenti europei, non alla Costituzione italiana, ma il passaggio, per quest’ultima parte, sembra assicurato dal preambolo della Carta stessa, ove si annuncia che la medesima riafferma "nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli stati membri, dal Trattato sull’Unione europea e dai Trattati comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo".

In altre parole, se è vero che la Carta non può avere per sé stessa una portata giuridicamente vincolante sull’ordinamento interno, è anche vero che nel momento in cui la Corte costituzionale la richiama a sostegno delle interpretazioni da essa fornite dell’estensione delle libertà conferite dalla Costituzione nazionale, viene in sostanza ad elevarla a parametro del giudizio di costituzionalità, il che è come dire ad accreditarla della stessa valenza giuridica di quest’ultima.

I diritti e le libertà proclamate nella fonte costituzionale non subiscono pregiudizio in ragione della loro non inclusione nella Carta (art.53), ma è anche vero che attraverso il percorso argomentativo tracciato dalla Corte sembra potersi pervenire alla speculare conclusione che anche i diritti e le libertà che risultano proclamate tramite la Carta in ambito europeo, e nel diritto interno "condizionato" dall’Unione (art.51), non possono non appartenere anche al bagaglio di libertà recato dal diritto costituzionale interno.

La Carta dei diritti dell’Unione Europea diventa per tale via strumento di interpretazione delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, a supporto non solo dei giudici comunitari, ma degli stessi giudici nazionali nell’applicazione del diritto interno.

Se così è, la tutela della privacy riceve, per effetto della proclamazione della Carta di Nizza, un notevole contributo. Non soltanto non si potrà più dubitare della sua valenza di interesse costituzionalmente garantito - salvo poi continuare eventualmente a disquisire della fonte di tale garanzia: l’art.2, 13, 15, o l’art.14 della Costituzione - ma neppure dell’ampiezza degli aspetti tutelati, sicuramente riconducibili ora al diritto alla riservatezza, ora al diritto alla protezione dei dati di carattere personale che riguardano l’individuo.

La valenza interpretativa della Carta di Nizza nella direzione segnata, per quanto di nostro interesse, dal suo articolo 8, risulta suffragata, del resto, anche da altri argomenti.

Il nuovo articolo 117, 1^ comma, della Costituzione impegna lo Stato e le Regioni ad esercitare la potestà legislativa nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, collocando in tal modo le fonti comunitarie e internazionali a strumento di unificazione del diritto interno al pari e sullo stesso piano della fonte costituzionale. Il meccanismo destinato a realizzare tale obiettivo passa, in effetti, attraverso l’impiego della Carta come strumento di interpretazione delle stesse norme costituzionali, analogamente a quanto avviene, per esempio, in Spagna. In quell’ordinamento, invero, l’art.10, della Costituzione prevede che "le norme relative ai diritti fondamentali e alle libertà riconosciute dalla Costituzione, si interpretano in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ai trattati e accordi internazionali sulle stesse materie ratificati dalla Spagna". Tale precetto introduce in quell’ordinamento una sorta di "trasformatore permanente automatico", vale a dire un criterio ermeneutico delle norme sui diritti fondamentali rappresentato dai testi internazionali relativi ai diritti umani e dalle pronunce giurisprudenziali degli organi che li applicano. Di conseguenza, il supremo organo di garanzia costituzionale, ma più in generale tutti gli operatori del diritto, siano essi il legislatore, i giudici e gli interpreti, non possono trascendere, nell’interpretazione dei diritti fondamentali, dal vincolo rappresentato dalle convenzioni internazionali sui diritti, e ciò accredita anche la Carta di Nizza (che pure non è stata inserita nel Trattato) di una valenza interpretativa "forte".

Ora, indubbiamente, a differenza di quanto prescritto dall’ordinamento spagnolo, l’effetto conformativo additato dal nostro articolo 117 concerne le leggi statali e regionali, e non direttamente l’interpretazione delle norme costituzionali. Ma in virtù del principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno, l’esito non sembra cambiare, producendosi anche per tale tipo di fonte, in ragione se non dell’art.117, quanto meno dell’art.10 Cost, e dell’art.189 del Trattato, un vincolo di interpretazione conforme. Ne consegue che ignorare la Carta di Nizza solo perché sprovvista di valore giuridico autonomo, oltre a contraddire la logica di impulso all’integrazione comunitaria cui si è uniformata anche la recente riforma costituzionale, urta, in definitiva, anche contro la lettera del dettato costituzionale.

3. Spunti di riflessione per il futuro

Acquisita, alla luce del processo normativo comunitario e internazionale, l’emersione del (nuovo) diritto alla privacy come fattispecie complessa, rispetto alla quale diritto alla riservatezza, diritto all’identità personale e diritto alla protezione dei dati personali si atteggiano a singole, e forse neppure esaustive componenti - tutte dotate di pari dignità costituzionale - sembra lecito svolgere alcune considerazioni.

Com’è noto, la coesione sociale procede dall’adesione ad una somma di principi supremi che non sono, sul piano teorico ed astratto, reciprocamente antagonisti, sicchè non sarebbe giuridicamente corretto tracciare un ordine, diciamo così, statico, di priorità degli uni rispetto agli altri. Ciònostante non sembra possibile negare che nel momento in cui la realtà evidenzia l’impossibilità di tutelare pienamente diritti espressione di principi diversi, occorre procedere ad una valutazione ponderata degli interessi a confronto, e che nell’ambito di tale bilanciamento, sia pure "concreto" e limitato alla situazione specifica, occorre tener conto del rango dei valori di cui tali interessi sono espressione, dal momento che il potere di bilanciamento che rientra nella disponibilità degli organi di indirizzo, e degli interpreti del dato normativo, non può investire le scelte preliminari che stanno sul piano dei valori etici e metagiuridici.

In altre parole, se è vero che il potere dei titolari della funzione di indirizzo di provvedere al concreto bilanciamento degli interessi è istituto, oltrechè necessario, opportuno, in quanto rende il sistema giuridico permeabile ai mutamenti della coscienza sociale , e dunque introduce un elemento di flessibilità sicuramente positivo, ciònonostante esso non va confuso col potere di individuare, o sarebbe meglio dire rimodulare, i valori portanti dell’intero sistema.

E infatti, il diritto costituito rappresenta lo strumento per dare corpo e stabilizzare i valori nei quali l’ordinamento sociale si riconosce, e pertanto presuppone la loro preventiva definizione da parte del potere costituente, e il loro rispetto, mentre viceversa implicherebbe, ove si discostasse da quelli, e per tacer d’altro, il naufragio della coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico. Sicchè, se ciò è corretto, non sembra possibile riconoscere al legislatore - né tanto meno ai giudici - la facoltà di operare in un senso o nell’altro, in quanto ciò non è indifferente, e in egual modo compatibile con la decisione politica compiuta in sede di Costituzione e di fonti comunitarie, dal punto di vista dei "valori" sui quali si basa la civile convivenza.

Ebbene, da questo punto di vista, si vuol qui solo richiamare l’attenzione sul fatto che "il rispetto della persona umana" è posto nel nostro ordinamento al centro del sistema, in quanto, oltre ad essere affermato in termini assolutamente ampi e generali nell’art.2 del Documento costituzionale, è altresì riaffermato con forza in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Se così è, come è, mi sembra di poter concludere sostenendo che il bene essenziale dell’autodeterminazione individuale, che sta a monte della tutela della privacy, debba essere necessariamente valorizzato tutte le volte in cui si va alla ricerca del punto di equilibrio tra le esigenze di privacy individuale e i molteplici interessi (al lavoro, alla salute, alla libertà di informazione, all’accesso ai documenti amministrativi) con i quali essa si scontra.

Ma ciò, oggi, non sempre accade.

INDICE:

1. Introduzione: dal diritto alla riservatezza al diritto alla privacy;

2. Il diritto alla privacy come "nuovo diritto": il ruolo delle fonti comunitarie e internazionali, e la natura giuridica di diritto costituzionale;

3. Spunti di riflessione per il futuro.

1. Introduzione: dal diritto alla riservatezza al diritto alla privacy

Da quando, negli anni sessanta, la letteratura giuridica ha cominciato ad interessarsi del tema, la formula linguistica "diritto di essere lasciati soli" è stata interpretata come evocativa di un diritto concepito, inizialmente, come strumento per fornire tutela ad una duplice, elementare esigenza individuale: da un lato, la protezione della sfera privata dall’altrui curiosità (P. Rescigno), e dall’altrui interesse a conoscere (A. Cataudella); dall’altro, il "controllo" del flusso delle informazioni in uscita dalla sfera privata verso l’esterno (S. Rodotà). Così inteso, il diritto alla riservatezza non ha sollevato particolari problemi di tutela, potendosi agevolmente collocare entro l’ombrello protettivo offerto dagli articoli 13, 14, 15 e 21 della Costituzione, nell’ambito del più ampio riconoscimento accordato ai diritti inviolabili dell’uomo dall’articolo 2. E in effetti, se la tutela della libertà personale sembrava idonea ad impedire ingerenze nella sfera fisica e psicologica individuale, la previsione della segretezza e dell’inviolabilità del domicilio e della corrispondenza concorrevano a loro volta a cautelare l’individuo da intromissioni nella sfera privata che potevano essere perpetrate solo attraverso invasioni realizzate fisicamente, laddove la tutela della libertà di manifestazione del pensiero forniva giuridico fondamento alla pretesa di non rendere noto a terzi quanto intimamente connesso al proprio modo d’essere.

Già a metà degli anni ottanta, peraltro, la nozione di riservatezza non coincide più al suesposto concetto di riserbo dell’intimità domestica, del decoro e della reputazione, venendo ad abbracciare tutte quelle situazioni e vicende legate alla vita privata (personale e familiare), prive di rilevanza sociale. Tant’è vero che secondo l’accezione accolta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.2199 del 1975, il diritto alla riservatezza si identifica con l’interesse a sottrarre alla conoscenza altrui le vicende private, verificatesi dentro e fuori del domicilio domestico, che non abbiano per i terzi un interesse socialmente rilevante. Ed è proprio in tale significato che anche la Corte costituzionale, nella sentenza n.38 del 1973, annovera la fattispecie nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo.

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, e il ricorso, sempre più massiccio, all’utilizzo di trattamenti, specie automatizzati, di dati di carattere personale, le esigenze connesse alla riservatezza mutano, tuttavia, ulteriormente, espandendosi in maniera significativa. Dato di fondo del nuovo contesto è l’inserimento dell’individuo nella società "globale", nella quale la stragrande maggioranza delle azioni compiute e delle scelte individuali lasciano una "traccia" che ne consente la mappatura e con essa la ricostruzione dell’identikit della persona. In tale situazione, la tutela del domicilio è totalmente inidonea a garantire la riservatezza individuale, dal momento che le informazioni "in uscita" non sono solamente quelle acquisite attraverso l’accesso al luogo in cui si manifesta più immediatamente la personalità, né diramate consapevolmente attraverso i mezzi di comunicazione del pensiero, bensì, fornite inconsapevolmente attraverso i dati personali seminati nell’ambiente, i quali, acquisiti e catalogati, permettono di ricostruire con precisione la personalità del singolo, violandone la segretezza.

Nella moderna società dell’informazione, si fa strada l’esigenza che la raccolta organizzata delle informazioni personali disseminate nell’ambiente non avvenga all’insaputa dell’interessato, e non si presti ad utilizzi lesivi dei diritti e della dignità della persona. Nello stesso tempo, data l’impossibilità di contrarre le informazioni in uscita, si percepisce come fondamentale il potere di selezione delle comunicazioni in entrata, cioè l’interesse ad "ammettere alla propria sfera di attenzione solo ciò che se ne ritiene degno" (c.d. diritto individuale alla quiete).

E’ proprio alla luce di queste esigenze che si comincia a parlare di "privacy", alludendosi con tale espressione ad una sorta di diritto comprensivo, oltre che dei tradizionali aspetti connessi alla "riservatezza", anche del "potere di controllo sulla circolazione delle proprie informazioni personali" (S.Rodotà), e del complementare "diritto di essere lasciati in pace" (P. Zatti), inteso come esigenza di protezione del singolo dai tentativi di contatto realizzati da terzi secondo particolari modalità (connesse all’uso delle nuove tecnologie), e tendenzialmente per fini di carattere commerciale.

Ebbene, il fondamento normativo di tale situazione giuridica soggettiva è da rinvenirsi, secondo diffusa e condivisa opinione, nell’art.8, comma 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ai sensi del quale "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza". E’ sulla base di tale previsione che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti determinato, e progressivamente ampliato, il significato da ascrivere ai concetti di <vita privata> e <corrispondenza> (ss. Malone c.Regno Unito, 2 agosto 1984 (corte plenaria) serie A n.82; Leander c.Svezia, 26 marzo 1987, serie A n.116; Gaskin c. Regno Unito, 7 luglio 1989, corte plenaria, serie A n.160; Z. c. Finlandia, 25 febbraio 1997), gettando le basi della positivizzazione di un diritto al controllo consapevole su ogni forma di circolazione delle proprie informazioni personali (come effettivamente definita dal Consiglio di Stato, sez.V, nella s.7 settembre 2004 n.5873, che parla di "massimizzazione della circolazione informativa").

Nozione in effetti esplicitamente elaborata, nell’ambito del Consiglio d’Europa, dalla Convenzione n.108 del 1981 (c.d. Convenzione di Strasburgo), che reca un’articolata enunciazione di principi a cui dovrebbero (o almeno, avrebbero dovuto) conformarsi le varie legislazioni nazionali, in modo da assicurare il rispetto del diritto alla privacy degli individui nei confronti di ogni elaborazione automatizzata di dati concernenti soggetti identificati o identificabili. E ribadita in una cospicua serie di provvedimenti comunitari, quali le direttive 95/46/Ce (relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati), 97/66/Ce ( sul trattamento dei dati personali e sulla tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni), e 2002/58/Ce (relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche), che appunto sanciscono definitivamente l’esistenza di un "diritto alla protezione dei dati di carattere personale" distinto e autonomo dal "diritto alla riservatezza".

Distinzione confermata, infine, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che reca nel capo secondo, dedicato ai diritti di libertà, l’esplicito riconoscimento del diritto alla protezione dei dati di carattere personale (art.8, c.1), distinguendolo tanto dal diritto di ogni individuo al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni (sancito all’art.7), quanto dal chiarimento posto dall’art.11, a mente del quale la libertà di espressione e d’informazione include la libertà di opinione e la libertà di ricevere e di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

Ad ogni buon conto, si può dire che sia proprio da tali fonti internazionali e sopranazionali europee che abbia tratto decisivo impulso la protezione giuridica della "privacy", intendendosi per tale l’esigenza personale sottesa al diritto alla riservatezza, e al diritto alla protezione dei dati di carattere personale. Quadro normativo al quale il nostro legislatore si è allineato con il decreto legislativo 30 giugno 2003 n.196, che introduce appunto nel nostro ordinamento, accanto al diritto alla riservatezza, un autonomo diritto alla protezione dei dati personali, come diritto avente ad oggetto la protezione del dato personale, a prescindere dalla tutela della sfera intima della persona e della famiglia, nonché della sua immagine sociale.

2. Il diritto alla privacy come "nuovo diritto": il ruolo delle fonti comunitarie e internazionali, e la natura giuridica di diritto costituzionale

Orbene, di fronte alla dinamica evolutiva sopra tracciata, non sembra fuor di luogo vagliare se anche al diritto alla protezione dei dati personali si attagli, nel nostro ordinamento giuridico, lo status di nuovo diritto di rango e valore costituzionale.

Le ipotesi prospettabili, sono, infatti, più d’una.

In senso negativo, potrebbe invero argomentarsi che l’inclusione tra i diritti inviolabili dell’uomo proclamata dalla Corte Costituzionale è riferita al diritto alla riservatezza concepito come diritto al riserbo sulle vicende personali prive di rilevanza sociale (ss.63/1972; 38/1973; 120/1975; 366/1991; 81/1993; 63/1994), mentre analoghe conferme non si hanno per il "diritto alla protezione dei dati di carattere personale"; laddove la considerazione di quest’ultimo, in quanto enunciato in sede comunitaria e internazionale, come "diritto costituzionale", appare a prima vista francamente eccessiva, o comunque, da sottoporre ad attenta verifica.

Dall’altro lato, e nella direzione opposta, potrebbe viceversa deporre la possibilità di interpretare in senso evolutivo le norme costituzionali, sì da giungere per questa via a ritenere che il diritto alla riservatezza vada inteso, a seguito dei più recenti sviluppi tecnologici, come diritto alla privacy, comprensivo del profilo della protezione dei dati di carattere personale.

Ancora, e nella prospettiva, diversa dalla precedente, della alterità delle due predette situazioni giuridiche soggettive, argomenti a mio avviso convincenti nella direzione dell’elevazione del "diritto alla protezione dei dati di carattere personale" a nuovo diritto di rango costituzionale, a fianco del diritto alla riservatezza, sia pure a reciproco completamento nell’ambito della nozione di privacy, possono trarsi dall’analisi delle caratteristiche essenziali delle fonti comunitarie e internazionali da cui appunto la fattispecie nasce, e dagli effetti da esse spiegate sul riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. E ciò, con particolare riguardo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che adottata congiuntamente dalle tre istituzioni comunitarie il 7 dicembre 2000, ma non inserita all’interno del Trattato di Nizza, rappresenta di fatto una fonte non assimilabile ad alcuna delle precedenti, ma ciònostante ampiamente suscettibile di influenzare gli sviluppi normativi nell’ambito territoriale dell’Unione.

Orbene, non vi è dubbio che le prospettive dalle quali muovono i vari livelli menzionati sono diverse.

In via generale, posto che il presupposto giuridico di base è che la materia dei diritti fondamentali è rimessa alla prerogativa degli Stati nazionali, si può osservare che rispetto ad essi l’ordinamento internazionale si limita a prevedere delle garanzie che sono meramente ulteriori rispetto a quelle previste dagli ordinamenti sovrani. D’altra parte, dovendo trovare un denominatore comune tra le Parti contraenti, gli standards di tutela sono normalmente meno ampi di quelli previsti dagli ordinamenti con più estese tradizioni liberaldemocratiche, per quanto, nei loro confronti, vengano posti agli Stati degli obblighi di risultato. Ad esempio, sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che il Patto sui diritti civili e politici prevedono che gli ordinamenti giuridici nazionali debbano, al loro interno, sviluppare delle procedure di tutela, in particolare giurisdizionali, e di tale adempimento risponde a livello internazionale la Parte contraente, indipendentemente dal piano (statale unitario, regionale o locale) prescelto internamente per garantire i diritti.

Rispetto a tale modello, la costruzione comunitaria si impernia invece sul giudice, che seleziona le fattispecie da tutelare e determina la misura della tutela stessa, laddove, quanto a contenuti, la protezione dei diritti fondamentali del singolo è in tale contesto tributaria tanto verso il livello internazionale, quanto verso quello nazionale. Sembra infatti doveroso ricordare che, secondo il disegno originariamente tracciato dal Trattato di Roma, non vi era posto nell’ordinamento comunitario per la tutela dei diritti fondamentali, eccezion fatta per un nucleo, ridotto, di diritti "originari", comunque previsti in funzione del mercato. E’ stata dunque la Corte di Giustizia ad innovare tale sistema, ancorando al rispetto di un corpus di diritti fondamentali, un ordinamento che non li contemplava affatto. Ciò, nei fatti, è avvenuto attraverso il ricorso ad una fonte autonoma interna all’ordinamento comunitario, ossia attraverso la categoria dei "principi generali del diritto comunitario", e l’affermazione che "i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza" (CGCE, sentenza 17 dicembre 1970, in causa C-11/70).

Tuttavia, se è vero che in tal modo i diritti fondamentali dell’uomo sono entrati a far parte del sistema comunitario - come codificato dall’art.6 TUE -, è anche vero che il monopolio della Corte di Giustizia, e successivamente anche del Tribunale di prima istanza, sull’interpretazione ed elaborazione dei dati - Costituzione degli Stati membri, e Convenzione europea dei diritti dell’uomo - suscettibili di ascriversi ai summenzionati principi generali, ha relegato la tutela dei diritti in ambito comunitario in una situazione di relativa incertezza. Attraverso la riconducibilità dei dati di riferimento ai principi generali, la Corte di giustizia ne ha infatti, sovente, manipolato il contenuto secondo le proprie esigenze, con ovvie conseguenze in termini di certezza del diritto.

Il catalogo di diritti consacrato dalla Carta di Nizza si inserisce in questo contesto operando lungo più direttrici.

In primo luogo, esso può "costituire uno strumento di interpretazione della categoria, alquanto nebulosa, delle "tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri". La Carta può dare di tale categoria un’interpretazione più "autentica", e in ogni caso più autorevole, di quella che la Corte stessa possa da sola desumere, spesso in maniera approssimativa, dalle Costituzioni degli Stati membri" (L. Rossi).

Parallelamente, se fino alla sua adozione la Corte di Lussemburgo non si è mostrata sempre allineata alla Corte di Strasburgo nell’interpretazione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non par dubbio che uno dei risultati più significativi della Carta è proprio quello di ancorare la propria interpretazione alla CEDU. L’art.52, comma 3, della prima afferma infatti che "laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione". La CEDU, nella lettura datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, diviene dunque uno standard minimo, e la Corte di Giustizia non potrà più applicarla in senso restrittivo all’interno dell’ordinamento comunitario.

Con la conseguenza, in entrambi i casi - destinata fin qui a spiegare i suoi effetti sull’ordinamento comunitario in senso stretto, ossia nei rapporti tra l’Unione, le sue istituzioni e gli individui - dell’esplicita emersione tra i diritti fondamentali dell’uomo, accanto ed oltre al diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, del diritto alla protezione dei dati di carattere personale.

Rispetto al diritto interno residuale, ossia a quello prodotto dagli Stati membri dell’Unione, e non direttamente dagli organi comunitari, la Carta, viceversa, non sembrerebbe implicare alcuna conseguenza di rilievo. L’art.51 ne limita infatti l’ambito di applicazione alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente, però, nell’attuazione del diritto dell’Unione. Posto poi che il comma 2 dello stesso articolo esclude espressamente che il catalogo di diritti ivi contenuti produca competenze nuove per l’Unione, o modifichi i compiti definiti nei Trattati, o ancora che, ai sensi dei successivi articoli 52 e 53, la Carta possa essere interpretata in maniera limitativa della tutela dei diritti e delle libertà riconosciute da altre fonti (siano esse l’ordinamento internazionale, le fonti sovranazionali europee, o le Costituzioni degli Stati membri), sembrerebbe agevole condividere la tesi dell’irrilevanza della stessa. Conclusione che parrebbe d’altra parte suffragata anche dalla semplice proclamazione, avulsa dall’inserimento nel Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001, che formalmente impedisce di attribuire alla medesima valore diverso da quello connesso ad una, sia pur estesa e condivisa, dichiarazione di principi.

Ora, però, in tale prospettiva, per quanto dal punto di vista formale la Carta sia innegabilmente uno strumento di soft law, il fatto di esprimere una serie di principi generali sembra suscettibile di produrre, dal punto di vista sostanziale, effetti giuridici di grande rilievo.

E’ ben vero, infatti, che anche i principi enunciati nella Carta sono desunti dalle pronunce giurisdizionali e affidati nelle mani degli stessi giudici, e dunque sono privi di valore giuridico immediatamente vincolante. Ciònostante, e come si è già detto, la Carta argina il potere dei giudici comunitari allorquando procedono alla loro ricostruzione. Se a ciò si aggiunge che il sistema normativo comunitario esige che i principi fondamentali siano applicati, ed implica che le pronunce dei giudici comunitari che tali principi interpretano, ed applicano, costituiscano, a loro volta, fonte di obblighi comunitari, la Carta di Nizza finisce per assumere valore vincolante pure nel nostro ordinamento giuridico, come conseguenza della sempre più massiccia opera di richiamo da parte della Corte di Giustizia della Comunità (CGCE 5 maggio 2003, in cause C-138/01, C-139/01, C-465/00; ord. 18 ottobre 2002 , in causa C-232/02 P®) e del Tribunale di prima istanza (ss.20 febbraio 2001, in causa T-112/98; 30 gennaio 2002, in causa T-54/99; 3 maggio 2002, in causa T-177/01; 27 settembre 2002, in causa T-211/02; 15 gennaio 2003, in causa T-377/00; 9 luglio 2003, in cause T-223/00 e T-224/00 ), se non altro sotto forma di ausilio interpretativo.

Di tale efficacia sembra in effetti consapevole la nostra giurisprudenza, come attestato, a prescindere dal fatto che tale scelta sia o meno condivisibile, dal ripetuto utilizzo della stessa da parte della magistratura di merito, nonché, da ultimo, anche da parte della Corte costituzionale.

Come si ricorderà, infatti, sia pure con una criticatissima decisione, la Corte d’appello di Roma ha fin dalla primavera del 2002 considerato pienamente operativo il documento in questione, ritenendolo "punto di riferimento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei" (ord. 11 aprile 2002).

La Corte Costituzionale, dal canto suo, nel ricostruire l’attuale significato dell’inviolabilità del domicilio, ha affermato che "l’ipotizzata restrizione della tipologia delle interferenze della pubblica autorità nella libertà domiciliare non troverebbe riscontro né nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art.8), né nel Patto sui diritti civili e politici (art.17); né, infine, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre del 2000 (artt.7 e 52) qui richiamata - ancorché priva di efficacia giuridica - per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei" (s. 11 aprile 2002, n.135).

Va detto che quest’ultimo passaggio della motivazione, aldilà del contributo offerto- indubbiamente più prudente e corretto del precedente - al conferimento alla Carta di un valore e un ruolo che vanno oltre il mero riconoscimento politico, sembra da sottolineare anche per un altro motivo, e cioè per l’incidenza sulla portata del (diritto) alla privacy insita in quel ribadire il carattere della Carta "espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei".

Esce rafforzata, infatti, dalle parole della Corte, l’idea - già formulata nel preambolo della Carta - che il catalogo dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non è un prodotto autonomo delle istituzioni comunitarie, ma è -per la gran parte -creditore di quanto stabilito aliunde.

Tuttavia, in quel loro essere, così come conferma il giudice delle leggi, "espressivi di principi comuni agli ordinamenti europei", la maggiore visibilità che i diritti conseguono in virtù dell’inclusione in un testo unitario, e il rafforzamento della tutela che ne consegue, non si esaurisce nei confronti delle mere istituzioni comunitarie, finendo al contrario per riflettersi anche nei confronti dei singoli ordinamenti statuali, con un effetto, sia detto per inciso, destinato a rafforzarsi in virtù dell’inserimento della Carta nel Trattato costituzionale europeo firmato a Roma il 24 ottobre 2004.

In altre parole, se prima della sua adozione potevano esservi dubbi sul rango e l’estensione di taluni diritti e libertà nell’ordinamento italiano, tali perplessità sono destinate a cadere attraverso un semplice raffronto con la Carta, in quanto questa esprime principi che appartengono sicuramente, tra gli altri, anche all’ordinamento interno.

Certo, la Corte costituzionale parla di principi, e non di regole; e si riferisce genericamente agli ordinamenti europei, non alla Costituzione italiana, ma il passaggio, per quest’ultima parte, sembra assicurato dal preambolo della Carta stessa, ove si annuncia che la medesima riafferma "nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli stati membri, dal Trattato sull’Unione europea e dai Trattati comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo".

In altre parole, se è vero che la Carta non può avere per sé stessa una portata giuridicamente vincolante sull’ordinamento interno, è anche vero che nel momento in cui la Corte costituzionale la richiama a sostegno delle interpretazioni da essa fornite dell’estensione delle libertà conferite dalla Costituzione nazionale, viene in sostanza ad elevarla a parametro del giudizio di costituzionalità, il che è come dire ad accreditarla della stessa valenza giuridica di quest’ultima.

I diritti e le libertà proclamate nella fonte costituzionale non subiscono pregiudizio in ragione della loro non inclusione nella Carta (art.53), ma è anche vero che attraverso il percorso argomentativo tracciato dalla Corte sembra potersi pervenire alla speculare conclusione che anche i diritti e le libertà che risultano proclamate tramite la Carta in ambito europeo, e nel diritto interno "condizionato" dall’Unione (art.51), non possono non appartenere anche al bagaglio di libertà recato dal diritto costituzionale interno.

La Carta dei diritti dell’Unione Europea diventa per tale via strumento di interpretazione delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, a supporto non solo dei giudici comunitari, ma degli stessi giudici nazionali nell’applicazione del diritto interno.

Se così è, la tutela della privacy riceve, per effetto della proclamazione della Carta di Nizza, un notevole contributo. Non soltanto non si potrà più dubitare della sua valenza di interesse costituzionalmente garantito - salvo poi continuare eventualmente a disquisire della fonte di tale garanzia: l’art.2, 13, 15, o l’art.14 della Costituzione - ma neppure dell’ampiezza degli aspetti tutelati, sicuramente riconducibili ora al diritto alla riservatezza, ora al diritto alla protezione dei dati di carattere personale che riguardano l’individuo.

La valenza interpretativa della Carta di Nizza nella direzione segnata, per quanto di nostro interesse, dal suo articolo 8, risulta suffragata, del resto, anche da altri argomenti.

Il nuovo articolo 117, 1^ comma, della Costituzione impegna lo Stato e le Regioni ad esercitare la potestà legislativa nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, collocando in tal modo le fonti comunitarie e internazionali a strumento di unificazione del diritto interno al pari e sullo stesso piano della fonte costituzionale. Il meccanismo destinato a realizzare tale obiettivo passa, in effetti, attraverso l’impiego della Carta come strumento di interpretazione delle stesse norme costituzionali, analogamente a quanto avviene, per esempio, in Spagna. In quell’ordinamento, invero, l’art.10, della Costituzione prevede che "le norme relative ai diritti fondamentali e alle libertà riconosciute dalla Costituzione, si interpretano in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ai trattati e accordi internazionali sulle stesse materie ratificati dalla Spagna". Tale precetto introduce in quell’ordinamento una sorta di "trasformatore permanente automatico", vale a dire un criterio ermeneutico delle norme sui diritti fondamentali rappresentato dai testi internazionali relativi ai diritti umani e dalle pronunce giurisprudenziali degli organi che li applicano. Di conseguenza, il supremo organo di garanzia costituzionale, ma più in generale tutti gli operatori del diritto, siano essi il legislatore, i giudici e gli interpreti, non possono trascendere, nell’interpretazione dei diritti fondamentali, dal vincolo rappresentato dalle convenzioni internazionali sui diritti, e ciò accredita anche la Carta di Nizza (che pure non è stata inserita nel Trattato) di una valenza interpretativa "forte".

Ora, indubbiamente, a differenza di quanto prescritto dall’ordinamento spagnolo, l’effetto conformativo additato dal nostro articolo 117 concerne le leggi statali e regionali, e non direttamente l’interpretazione delle norme costituzionali. Ma in virtù del principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno, l’esito non sembra cambiare, producendosi anche per tale tipo di fonte, in ragione se non dell’art.117, quanto meno dell’art.10 Cost, e dell’art.189 del Trattato, un vincolo di interpretazione conforme. Ne consegue che ignorare la Carta di Nizza solo perché sprovvista di valore giuridico autonomo, oltre a contraddire la logica di impulso all’integrazione comunitaria cui si è uniformata anche la recente riforma costituzionale, urta, in definitiva, anche contro la lettera del dettato costituzionale.

3. Spunti di riflessione per il futuro

Acquisita, alla luce del processo normativo comunitario e internazionale, l’emersione del (nuovo) diritto alla privacy come fattispecie complessa, rispetto alla quale diritto alla riservatezza, diritto all’identità personale e diritto alla protezione dei dati personali si atteggiano a singole, e forse neppure esaustive componenti - tutte dotate di pari dignità costituzionale - sembra lecito svolgere alcune considerazioni.

Com’è noto, la coesione sociale procede dall’adesione ad una somma di principi supremi che non sono, sul piano teorico ed astratto, reciprocamente antagonisti, sicchè non sarebbe giuridicamente corretto tracciare un ordine, diciamo così, statico, di priorità degli uni rispetto agli altri. Ciònostante non sembra possibile negare che nel momento in cui la realtà evidenzia l’impossibilità di tutelare pienamente diritti espressione di principi diversi, occorre procedere ad una valutazione ponderata degli interessi a confronto, e che nell’ambito di tale bilanciamento, sia pure "concreto" e limitato alla situazione specifica, occorre tener conto del rango dei valori di cui tali interessi sono espressione, dal momento che il potere di bilanciamento che rientra nella disponibilità degli organi di indirizzo, e degli interpreti del dato normativo, non può investire le scelte preliminari che stanno sul piano dei valori etici e metagiuridici.

In altre parole, se è vero che il potere dei titolari della funzione di indirizzo di provvedere al concreto bilanciamento degli interessi è istituto, oltrechè necessario, opportuno, in quanto rende il sistema giuridico permeabile ai mutamenti della coscienza sociale , e dunque introduce un elemento di flessibilità sicuramente positivo, ciònonostante esso non va confuso col potere di individuare, o sarebbe meglio dire rimodulare, i valori portanti dell’intero sistema.

E infatti, il diritto costituito rappresenta lo strumento per dare corpo e stabilizzare i valori nei quali l’ordinamento sociale si riconosce, e pertanto presuppone la loro preventiva definizione da parte del potere costituente, e il loro rispetto, mentre viceversa implicherebbe, ove si discostasse da quelli, e per tacer d’altro, il naufragio della coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico. Sicchè, se ciò è corretto, non sembra possibile riconoscere al legislatore - né tanto meno ai giudici - la facoltà di operare in un senso o nell’altro, in quanto ciò non è indifferente, e in egual modo compatibile con la decisione politica compiuta in sede di Costituzione e di fonti comunitarie, dal punto di vista dei "valori" sui quali si basa la civile convivenza.

Ebbene, da questo punto di vista, si vuol qui solo richiamare l’attenzione sul fatto che "il rispetto della persona umana" è posto nel nostro ordinamento al centro del sistema, in quanto, oltre ad essere affermato in termini assolutamente ampi e generali nell’art.2 del Documento costituzionale, è altresì riaffermato con forza in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Se così è, come è, mi sembra di poter concludere sostenendo che il bene essenziale dell’autodeterminazione individuale, che sta a monte della tutela della privacy, debba essere necessariamente valorizzato tutte le volte in cui si va alla ricerca del punto di equilibrio tra le esigenze di privacy individuale e i molteplici interessi (al lavoro, alla salute, alla libertà di informazione, all’accesso ai documenti amministrativi) con i quali essa si scontra.

Ma ciò, oggi, non sempre accade.