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Il rischio di improcedibilità dell’esecuzione immobiliare nei casi di fallimento del debitore: la revocatoria fallimentare

Il rischio di improcedibilità dell’esecuzione immobiliare nei casi di fallimento del debitore: la revocatoria fallimentare
Il rischio di improcedibilità dell’esecuzione immobiliare nei casi di fallimento del debitore: la revocatoria fallimentare

La situazione economica italiana ha messo a dura prova la capacità delle imprese e delle società di far fronte alle spese e di evitare il sovraindebitamento ed, allo stesso tempo, risulta rischioso per gli istituti bancari recuperare il proprio credito attivando un’esecuzione immobiliare: gli innumerevoli tentativi necessari per vendere i beni pignorati determinano spese eccessive di pubblicità e di onorari dei professionisti nominati dal Giudice e prezzi di vendita così bassi (la legge impone il ribasso ad ogni vendita andata deserta) da risultare incapienti per il pieno soddisfacimento dei creditori.

Il rischio delle banche incrementa ulteriormente nei casi in cui nel corso della procedura o successivamente alla chiusura della stessa, intervenga una dichiarazione di fallimento ovvero di liquidazione coatta amministrativa. Il creditore, infatti, può sentirsi dichiarare improcedibile la procedura per l’intervenuta dichiarazione di fallimento o di liquidazione coatta ovvero può essere chiamato dal curatore fallimentare o dal commissario liquidatore a restituire quanto ottenuto dalla procedura espropriativa. Per poter comprendere a pieno il rischio è preliminarmente necessario analizzare la normativa relativa alla revocatoria fallimentare.

La revocatoria fallimentare ha lo scopo di attuare il principio di par conditio creditorum, rendendo inefficaci gli atti compiuti dal debitore in stato di insolvenza nei riguardi del creditore. Stiamo parlando di inefficacia nei riguardi dei creditori e non di invalidità tout court degli stessi.

Il regime della revocatoria fallimentare varia a seconda del tipo di atto compiuto dal debitore e dal momento in cui lo stesso viene effettuato.

In primo luogo vi sono atti inefficaci ope legis, che non richiedono, di conseguenza, alcuna azione specifica del curatore fallimentare e che operano automaticamente:

1. atti a titolo gratuito (con l’esclusione dei regali d’uso e degli atti compiuti dal donante) compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento (articolo 64 Legge Fallimentare Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267);

2. i pagamenti anticipati di crediti compiuti nei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento (articolo 69 Legge Fallimentare).

Vi sono altri casi nei quali il curatore dovrà agire in via revocatoria dimostrando il compimento di determinati atti, in quanto presunzione dello stato di insolvenza (articolo 67 comma 1 numeri 1-4 Regio Decreto n. 267/1942):

1. gli atti a titolo oneroso, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso; purché siano compiuti nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento;

2. gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati in denaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento;

3. i pegni, le anticrisi e le ipoteche volontarie costituiti per debiti preesistenti non scaduti nell’anno anteriore alla dichiarazione del fallimento;

4. i pegni, le anticrisi e le ipoteche volontarie e giudiziarie costituiti entro sei mesi alla dichiarazione del fallimento.

Da ultimo si menzionano i casi più complessi, nei quali il curatore dovrà provare la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore fallito (articolo 67 comma 2 della Legge Fallimentare):

1. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento;

2. gli atti costitutivi di un diritto di prelazione compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento;

3. gli altri atti a titolo oneroso compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento.

La prova che deve fornire il curatore riguarda lo stato psicologico del terzo e, quindi, si fonderà su delle presunzioni ex articolo 2729 del Codice Civile che, nel corso degli anni, la giurisprudenza ha esemplificato nell’esistenza di procedure esecutive, nel deposito di ricorsi per procedure concorsuali, nell’esistenza di notizie di stampa di tenore negativo, nel venir meno del godimento del credito bancario e nei solleciti ovvero missive di sollecito inviate.

La Corte di Cassazione ha specificato che il giudice di merito, nell’accogliere la revocatoria fallimentare, dovrà valutare caso per caso la conoscenza dello stato di insolvenza facendo ricorso al parametro della comune prudenza ed avvedutezza, della normale ed ordinaria diligenza, dando rilevanza al contesto nel quale gli atti solutori si sono realizzati (Sentenza n. 8827/2011 della Suprema Corte di Cassazione) e spetterà al convenuto dimostrare il contrario (Sentenza n. 391/2010 della Corte di Cassazione). L’oggetto della prova non potrà essere l’effettiva conoscenza, in quanto probatio diabolica, ma neppure la mera conoscibilità, essendo richiesta, a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, la “probabilità della conoscenza”.

Non sono mai soggetti a revocatoria, a norma dell’articolo 67 comma 3 del Regio Decreto n. 267/1942:

1. i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;

2. le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

3. le vendite ed i preliminari trascritti ex articolo 2645 bis del Codice Civile, purché siano stati conclusi a giusto prezzo ed avendo ad oggetto un immobile ad uso abitativo, destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o dei suoi parenti e affini, ovvero destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa, se al momento della dichiarazione di fallimento tale attività è già stata avviata o siano stati compiuti investimenti per avviarla;

4. gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore, purché posti in essere in esecuzione del concordato preventivo o dell’amministrazione controllata;

5. il pagamento dei crediti da lavoro;

6. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

A questo punto, per individuare il legame intercorrente fra revocatoria fallimentare ed esecuzione immobiliare, è utile far riferimento a due casi concreti: la dichiarazione di fallimento che intervenire quando l’esecuzione è in corso di causa ovvero quando la procedura esecutiva si è conclusa.

A norma dell’articolo 51 della Legge Fallimentare “dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare può essere iniziata o proseguita”, il Giudice  dell’Esecuzione, su istanza del curatore fallimentare, dovrà, quindi, dichiarare l’improcedibilità della procedura e l’inefficacia delle vendite dei lotti avvenute successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Per le vendite dei lotti concluse precedentemente alla dichiarazione di fallimento, nel valutare il rischio di una revoca dei pagamenti a beneficio dai creditori, è necessario inquadrare la vendita in una delle ipotesi prospettate dalla Legge Fallimentare in precedenza analizzata. A parere di chi scrive, l’esecuzione immobiliare potrebbe rientrare nell’ipotesi prospettata dall’articolo 67 comma 1 numero 2 del Regio Decreto n. 267/1942: gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati in denaro o con altri mezzi normali di pagamento. Tali atti sono revocabili se avvenuti nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento e senza la necessità di provare la conoscenza da parte del creditore dello stato di insolvenza, in quanto la dimostrazione del compimento dell’atto è idonea ad assolvere alla funzione di presunzione grave, precisa e concordante ex articolo 2729 del Codice Civile. Anche qualora fosse necessario dimostrare lo stato di insolvenza, l’intervento in una procedura esecutiva è stato ritenuto dalla giurisprudenza un indice sintomatico della conoscenza delle condizioni di dissesto del debitore.

A sostento di quanto prospettato può essere citata la sentenza n. 7579/2012 della Corte di Legittimità, con la quale si afferma che il pagamento coattivo ottenuto dal creditore attraverso il positivo esperimento di una procedura esecutiva può portare alle medesime conseguenze tipiche del pagamento ottenuto spontaneamente dal debitore poi dichiarato fallito. A maggior ragione, come analizzato, non rileva in alcun modo l’elemento psicologico del creditore procedente, essendo esclusivamente sufficienti le circostanze del pagamento effettuato nel periodo sospetto e che questo arrechi conseguenze negative sulla garanzia patrimoniale del debitore, compromettendo la par conditio creditorum.

L’unica ipotesi derogatoria riguarda il creditore fondiario, in virtù del disposto dell’articolo 41 comma 2 del Testo Unico Bancario (Decreto Legislativo n. 385/1993): “l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento. Il curatore ha facoltà di intervenire nell’esecuzione. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento”.

Esemplificativa è la sentenza n. 13996/2008 della Corte di Cassazione: il potere dell’istituto di credito fondiario riconosciuto dall’articolo 41 del Testo Unico Bancario “si sostanzia nella possibilità non solo di iniziare o proseguire la procedura esecutiva individuale, ma anche di conseguire l’assegnazione della somma ricavata dalla vendita forzata dei beni del debitore nei limiti del proprio credito, senza che sia configurabile l’obbligo dell’istituto procedente di rimettere immediatamente ed incondizionatamente la somma ricevuta dal curatore. Tale assegnazione è da ritenersi provvisoria, essendo onere dell’istituto di credito fondiario, per renderla definitiva, insinuarsi al passivo del fallimento. Il curatore che pretende in tutto o in parte la restituzione di quanto l’istituto di credito ha ricevuto dalla procedura esecutiva individuale ha l’onere di dimostrare che la graduazione ha avuto luogo e che il credito dell’istituto è risultato in tutto o in parte incapiente”. In senso conforme si è espressa la sentenza n. 15606/2014 della Suprema Corte.

La situazione economica italiana ha messo a dura prova la capacità delle imprese e delle società di far fronte alle spese e di evitare il sovraindebitamento ed, allo stesso tempo, risulta rischioso per gli istituti bancari recuperare il proprio credito attivando un’esecuzione immobiliare: gli innumerevoli tentativi necessari per vendere i beni pignorati determinano spese eccessive di pubblicità e di onorari dei professionisti nominati dal Giudice e prezzi di vendita così bassi (la legge impone il ribasso ad ogni vendita andata deserta) da risultare incapienti per il pieno soddisfacimento dei creditori.

Il rischio delle banche incrementa ulteriormente nei casi in cui nel corso della procedura o successivamente alla chiusura della stessa, intervenga una dichiarazione di fallimento ovvero di liquidazione coatta amministrativa. Il creditore, infatti, può sentirsi dichiarare improcedibile la procedura per l’intervenuta dichiarazione di fallimento o di liquidazione coatta ovvero può essere chiamato dal curatore fallimentare o dal commissario liquidatore a restituire quanto ottenuto dalla procedura espropriativa. Per poter comprendere a pieno il rischio è preliminarmente necessario analizzare la normativa relativa alla revocatoria fallimentare.

La revocatoria fallimentare ha lo scopo di attuare il principio di par conditio creditorum, rendendo inefficaci gli atti compiuti dal debitore in stato di insolvenza nei riguardi del creditore. Stiamo parlando di inefficacia nei riguardi dei creditori e non di invalidità tout court degli stessi.

Il regime della revocatoria fallimentare varia a seconda del tipo di atto compiuto dal debitore e dal momento in cui lo stesso viene effettuato.

In primo luogo vi sono atti inefficaci ope legis, che non richiedono, di conseguenza, alcuna azione specifica del curatore fallimentare e che operano automaticamente:

1. atti a titolo gratuito (con l’esclusione dei regali d’uso e degli atti compiuti dal donante) compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento (articolo 64 Legge Fallimentare Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267);

2. i pagamenti anticipati di crediti compiuti nei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento (articolo 69 Legge Fallimentare).

Vi sono altri casi nei quali il curatore dovrà agire in via revocatoria dimostrando il compimento di determinati atti, in quanto presunzione dello stato di insolvenza (articolo 67 comma 1 numeri 1-4 Regio Decreto n. 267/1942):

1. gli atti a titolo oneroso, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso; purché siano compiuti nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento;

2. gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati in denaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento;

3. i pegni, le anticrisi e le ipoteche volontarie costituiti per debiti preesistenti non scaduti nell’anno anteriore alla dichiarazione del fallimento;

4. i pegni, le anticrisi e le ipoteche volontarie e giudiziarie costituiti entro sei mesi alla dichiarazione del fallimento.

Da ultimo si menzionano i casi più complessi, nei quali il curatore dovrà provare la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore fallito (articolo 67 comma 2 della Legge Fallimentare):

1. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento;

2. gli atti costitutivi di un diritto di prelazione compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento;

3. gli altri atti a titolo oneroso compiuti nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento.

La prova che deve fornire il curatore riguarda lo stato psicologico del terzo e, quindi, si fonderà su delle presunzioni ex articolo 2729 del Codice Civile che, nel corso degli anni, la giurisprudenza ha esemplificato nell’esistenza di procedure esecutive, nel deposito di ricorsi per procedure concorsuali, nell’esistenza di notizie di stampa di tenore negativo, nel venir meno del godimento del credito bancario e nei solleciti ovvero missive di sollecito inviate.

La Corte di Cassazione ha specificato che il giudice di merito, nell’accogliere la revocatoria fallimentare, dovrà valutare caso per caso la conoscenza dello stato di insolvenza facendo ricorso al parametro della comune prudenza ed avvedutezza, della normale ed ordinaria diligenza, dando rilevanza al contesto nel quale gli atti solutori si sono realizzati (Sentenza n. 8827/2011 della Suprema Corte di Cassazione) e spetterà al convenuto dimostrare il contrario (Sentenza n. 391/2010 della Corte di Cassazione). L’oggetto della prova non potrà essere l’effettiva conoscenza, in quanto probatio diabolica, ma neppure la mera conoscibilità, essendo richiesta, a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, la “probabilità della conoscenza”.

Non sono mai soggetti a revocatoria, a norma dell’articolo 67 comma 3 del Regio Decreto n. 267/1942:

1. i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;

2. le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

3. le vendite ed i preliminari trascritti ex articolo 2645 bis del Codice Civile, purché siano stati conclusi a giusto prezzo ed avendo ad oggetto un immobile ad uso abitativo, destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o dei suoi parenti e affini, ovvero destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa, se al momento della dichiarazione di fallimento tale attività è già stata avviata o siano stati compiuti investimenti per avviarla;

4. gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore, purché posti in essere in esecuzione del concordato preventivo o dell’amministrazione controllata;

5. il pagamento dei crediti da lavoro;

6. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

A questo punto, per individuare il legame intercorrente fra revocatoria fallimentare ed esecuzione immobiliare, è utile far riferimento a due casi concreti: la dichiarazione di fallimento che intervenire quando l’esecuzione è in corso di causa ovvero quando la procedura esecutiva si è conclusa.

A norma dell’articolo 51 della Legge Fallimentare “dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare può essere iniziata o proseguita”, il Giudice  dell’Esecuzione, su istanza del curatore fallimentare, dovrà, quindi, dichiarare l’improcedibilità della procedura e l’inefficacia delle vendite dei lotti avvenute successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Per le vendite dei lotti concluse precedentemente alla dichiarazione di fallimento, nel valutare il rischio di una revoca dei pagamenti a beneficio dai creditori, è necessario inquadrare la vendita in una delle ipotesi prospettate dalla Legge Fallimentare in precedenza analizzata. A parere di chi scrive, l’esecuzione immobiliare potrebbe rientrare nell’ipotesi prospettata dall’articolo 67 comma 1 numero 2 del Regio Decreto n. 267/1942: gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati in denaro o con altri mezzi normali di pagamento. Tali atti sono revocabili se avvenuti nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento e senza la necessità di provare la conoscenza da parte del creditore dello stato di insolvenza, in quanto la dimostrazione del compimento dell’atto è idonea ad assolvere alla funzione di presunzione grave, precisa e concordante ex articolo 2729 del Codice Civile. Anche qualora fosse necessario dimostrare lo stato di insolvenza, l’intervento in una procedura esecutiva è stato ritenuto dalla giurisprudenza un indice sintomatico della conoscenza delle condizioni di dissesto del debitore.

A sostento di quanto prospettato può essere citata la sentenza n. 7579/2012 della Corte di Legittimità, con la quale si afferma che il pagamento coattivo ottenuto dal creditore attraverso il positivo esperimento di una procedura esecutiva può portare alle medesime conseguenze tipiche del pagamento ottenuto spontaneamente dal debitore poi dichiarato fallito. A maggior ragione, come analizzato, non rileva in alcun modo l’elemento psicologico del creditore procedente, essendo esclusivamente sufficienti le circostanze del pagamento effettuato nel periodo sospetto e che questo arrechi conseguenze negative sulla garanzia patrimoniale del debitore, compromettendo la par conditio creditorum.

L’unica ipotesi derogatoria riguarda il creditore fondiario, in virtù del disposto dell’articolo 41 comma 2 del Testo Unico Bancario (Decreto Legislativo n. 385/1993): “l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento. Il curatore ha facoltà di intervenire nell’esecuzione. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento”.

Esemplificativa è la sentenza n. 13996/2008 della Corte di Cassazione: il potere dell’istituto di credito fondiario riconosciuto dall’articolo 41 del Testo Unico Bancario “si sostanzia nella possibilità non solo di iniziare o proseguire la procedura esecutiva individuale, ma anche di conseguire l’assegnazione della somma ricavata dalla vendita forzata dei beni del debitore nei limiti del proprio credito, senza che sia configurabile l’obbligo dell’istituto procedente di rimettere immediatamente ed incondizionatamente la somma ricevuta dal curatore. Tale assegnazione è da ritenersi provvisoria, essendo onere dell’istituto di credito fondiario, per renderla definitiva, insinuarsi al passivo del fallimento. Il curatore che pretende in tutto o in parte la restituzione di quanto l’istituto di credito ha ricevuto dalla procedura esecutiva individuale ha l’onere di dimostrare che la graduazione ha avuto luogo e che il credito dell’istituto è risultato in tutto o in parte incapiente”. In senso conforme si è espressa la sentenza n. 15606/2014 della Suprema Corte.