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Impresa - Tribunale di Milano: no misure cautelari se viene meno l’attualità del pregiudizio della concorrenza sleale

Con la pronuncia in esame, il Tribunale di Milano ribadisce che la forma sleale della concorrenza è determinata dai mezzi adoperati dall’imprenditore, laddove questi siano idonei a danneggiare l’altrui impresa. Tuttavia, qualora l’“attitudine confusoria” di questi venga meno, mancherà il presupposto dell’attualità del pregiudizio, indispensabile ai fini dell’emissione di un provvedimento cautelare d’urgenza.

Nel caso di specie, le ricorrenti società operanti nel campo dell’industria grafica e pubblicitaria lamentano di aver subito un danno a causa dell’esercizio di attività in concorrenza sleale da parte della società resistente, costituita dal presidente nonché consigliere del CdA delle prime (pure citato in causa) e dalla moglie del medesimo. Chiedono le ricorrenti al giudice di inibire alle parti resistenti di continuare a porre in essere pratiche di concorrenza sleale, nonché l’ulteriore misura del sequestro conservativo dei beni mobili e immobili delle società resistenti a garanzia dei pregiudizi subiti.

Riuniti i procedimenti per sostanziale coincidenza dei contenuti degli stessi, il Tribunale ritiene fondato il ricorso alla misura inibitoria, precisando che questa non è tanto da ricollegarsi al fatto di aver costituito una società nuova, quanto alle pratiche illecite con cui è stata condotta.

Innanzitutto, appare evidente che il nome sociale adottato dalla parte resistente sia un chiaro richiamo fonetico e testuale di quello adottato dalle ricorrenti, con la conseguenza di esporre queste ultime ad un obiettivo rischio di confusione dei propri prodotti con quelli della società concorrente, nonché ad un pericolo di danno a vantaggio della resistente. Né può ritenersi giuridicamente rilevante una “diversa lettura” (in latino) della denominazione sociale così come prospettata dalle parti resistenti, in quanto richiede uno sforzo interpretativo tale da non essere esigibile dall’operatore di mercato comune. Precisa a tal proposito il Tribunale che sul piano della concorrenza acquisisce spiccata importanza la denominazione sociale scelta dall’imprenditore, in quanto permette di valutare la capacità di un soggetto di contraddistinguersi sul mercato, rimanendo oscuri i motivi che hanno indotto alla scelta di quel nome sociale.

In secondo luogo, la condotta illecita delle resistenti si ravvisa altresì nell’intento di agganciamento di queste nei confronti delle ricorrenti: il contenuto di un messaggio di auguri inviato dalle resistenti ad un cliente, facendo ampio richiamo alla tradizione, crea confusione nel pubblico in quanto appare come il tentativo di comunicare al pubblico una coincidenza sostanziale tra le società, riconducibile ad un mero mutamento della denominazione sociale.

Né, ad avviso del Tribunale, il carattere sleale della concorrenza intrapresa può essere escluso per la presenza di un articolo dello Statuto di una delle ricorrenti che deroga alla normativa in materia di concorrenza (“non si applica agli amministratori il divieto di concorrenza di cui all’articolo 2390 c.c.”). Secondo il Tribunale, sulla base di una solida tradizione giurisprudenziale, tale deroga non può spingersi “fino a giustificare un’attività di condotta secondo comportamenti sleali o scorretti sul piano professionale.” Si ravvisa infatti concorrenza sleale laddove i mezzi adoperati dall’imprenditore siano idonei a danneggiare l’altrui impresa, risultando del tutto lecito e conforme alla natura della competizione commerciale l’intento di acquisizione della clientela altrui.

Tuttavia, da quanto dedotto dalle parti, si rileva che la resistente abbia in tempi recenti operato una nuova modifica della denominazione sociale, optando per un nome del tutto diverso rispetto al precedente e privo di ogni riferimento diretto o indiretto alle società ricorrenti. Tale iniziativa ha determinato per il Tribunale un significativo mutamento del quadro della controversia, essendo venuto meno il presupposto dell’attualità del pregiudizio, ovvero il forte rischio di confusione con le società ricorrenti.

Infine, la consistenza dei danni lamentati dalle ricorrenti, connessi alle pratiche di concorrenza sleale, secondo il Tribunale risulta nettamente inferiore rispetto a quanto esposto nel ricorso, essendo questi limitati ai casi in cui appare verosimile l’emissione di fatture da parte della resistente per opere in realtà eseguite o commissionate alle ricorrenti. Pertanto, il Tribunale ritiene sproporzionata la misura del sequestro conservativo dal momento che esporrebbe le resistenti ad una immobilizzazione patrimoniale ingiustificata.

Per le ragioni esposte, il Tribunale rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.

La sentenza è pubblicata in Giurisprudenza delle Imprese.

(Tribunale di Milano - Sezione Specializzata in materia di impresa - Sezione A, Ordinanza 5 marzo 2015)

 

 

Con la pronuncia in esame, il Tribunale di Milano ribadisce che la forma sleale della concorrenza è determinata dai mezzi adoperati dall’imprenditore, laddove questi siano idonei a danneggiare l’altrui impresa. Tuttavia, qualora l’“attitudine confusoria” di questi venga meno, mancherà il presupposto dell’attualità del pregiudizio, indispensabile ai fini dell’emissione di un provvedimento cautelare d’urgenza.

Nel caso di specie, le ricorrenti società operanti nel campo dell’industria grafica e pubblicitaria lamentano di aver subito un danno a causa dell’esercizio di attività in concorrenza sleale da parte della società resistente, costituita dal presidente nonché consigliere del CdA delle prime (pure citato in causa) e dalla moglie del medesimo. Chiedono le ricorrenti al giudice di inibire alle parti resistenti di continuare a porre in essere pratiche di concorrenza sleale, nonché l’ulteriore misura del sequestro conservativo dei beni mobili e immobili delle società resistenti a garanzia dei pregiudizi subiti.

Riuniti i procedimenti per sostanziale coincidenza dei contenuti degli stessi, il Tribunale ritiene fondato il ricorso alla misura inibitoria, precisando che questa non è tanto da ricollegarsi al fatto di aver costituito una società nuova, quanto alle pratiche illecite con cui è stata condotta.

Innanzitutto, appare evidente che il nome sociale adottato dalla parte resistente sia un chiaro richiamo fonetico e testuale di quello adottato dalle ricorrenti, con la conseguenza di esporre queste ultime ad un obiettivo rischio di confusione dei propri prodotti con quelli della società concorrente, nonché ad un pericolo di danno a vantaggio della resistente. Né può ritenersi giuridicamente rilevante una “diversa lettura” (in latino) della denominazione sociale così come prospettata dalle parti resistenti, in quanto richiede uno sforzo interpretativo tale da non essere esigibile dall’operatore di mercato comune. Precisa a tal proposito il Tribunale che sul piano della concorrenza acquisisce spiccata importanza la denominazione sociale scelta dall’imprenditore, in quanto permette di valutare la capacità di un soggetto di contraddistinguersi sul mercato, rimanendo oscuri i motivi che hanno indotto alla scelta di quel nome sociale.

In secondo luogo, la condotta illecita delle resistenti si ravvisa altresì nell’intento di agganciamento di queste nei confronti delle ricorrenti: il contenuto di un messaggio di auguri inviato dalle resistenti ad un cliente, facendo ampio richiamo alla tradizione, crea confusione nel pubblico in quanto appare come il tentativo di comunicare al pubblico una coincidenza sostanziale tra le società, riconducibile ad un mero mutamento della denominazione sociale.

Né, ad avviso del Tribunale, il carattere sleale della concorrenza intrapresa può essere escluso per la presenza di un articolo dello Statuto di una delle ricorrenti che deroga alla normativa in materia di concorrenza (“non si applica agli amministratori il divieto di concorrenza di cui all’articolo 2390 c.c.”). Secondo il Tribunale, sulla base di una solida tradizione giurisprudenziale, tale deroga non può spingersi “fino a giustificare un’attività di condotta secondo comportamenti sleali o scorretti sul piano professionale.” Si ravvisa infatti concorrenza sleale laddove i mezzi adoperati dall’imprenditore siano idonei a danneggiare l’altrui impresa, risultando del tutto lecito e conforme alla natura della competizione commerciale l’intento di acquisizione della clientela altrui.

Tuttavia, da quanto dedotto dalle parti, si rileva che la resistente abbia in tempi recenti operato una nuova modifica della denominazione sociale, optando per un nome del tutto diverso rispetto al precedente e privo di ogni riferimento diretto o indiretto alle società ricorrenti. Tale iniziativa ha determinato per il Tribunale un significativo mutamento del quadro della controversia, essendo venuto meno il presupposto dell’attualità del pregiudizio, ovvero il forte rischio di confusione con le società ricorrenti.

Infine, la consistenza dei danni lamentati dalle ricorrenti, connessi alle pratiche di concorrenza sleale, secondo il Tribunale risulta nettamente inferiore rispetto a quanto esposto nel ricorso, essendo questi limitati ai casi in cui appare verosimile l’emissione di fatture da parte della resistente per opere in realtà eseguite o commissionate alle ricorrenti. Pertanto, il Tribunale ritiene sproporzionata la misura del sequestro conservativo dal momento che esporrebbe le resistenti ad una immobilizzazione patrimoniale ingiustificata.

Per le ragioni esposte, il Tribunale rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.

La sentenza è pubblicata in Giurisprudenza delle Imprese.

(Tribunale di Milano - Sezione Specializzata in materia di impresa - Sezione A, Ordinanza 5 marzo 2015)